Sono passati trent’anni. Era l’estate del ’93. Quella mattina di giugno erano bastate una nuvola di troppo e la compiaciuta pigrizia post-maturità per far saltare la prevista domenica all’Aquapiper (parco acquatico poco fuori Roma).
Molto prima che arrivassero il meteo dell’iphone e i sondaggi su whatsapp, l’annullamento della gita in comitiva era stato certificato da uno scarno e rassegnato giro di comunicazioni telefoniche.
Io comunque alla fine ci ero andato lo stesso, con la ferma intenzione di passare la giornata a far scorrere il tempo insieme all’acqua, portandolo con me dentro i grossi tubi blu del parco per poi precipitare rapidamente fino a sera.

Tra una fila agli scivoli e un salto al bar, potevo sempre contare sul mio Corriere dello Sport: lettura imprescindibile, specialmente in estate, e attività preziosa sopratutto quel giorno. Quando l’ennesimo colpo di vento aveva provato a scomporre la mia copia in tanti aquiloni di carta, non mi ero arreso, e li avevo inseguiti con determinazione dribblando sdraie e bagnanti.
Una volta restituito al mio giornale una parvenza di organicità, avevo ripreso a leggere gli articoli di calciomercato.

Quell’estate per i romanisti era un autentico “sabato Leopardiano”: con l’inizio dell’era Sensi (almeno inizialmente in comproprietà con Pietro Mezzaroma) la Roma abbandonava la precarietà economica degli ultimi anni, e il rapido perfezionamento degli acquisti di Lanna e Balbo confermava la serietà delle ambizioni del nuovo corso.
Ci attendeva una svolta promettente.

Eppure, anche in questo crescente entusiasmo, non riuscivo a cancellare la mia personale perplessità sul nuovo tecnico giallorosso: Carlo Mazzone.
A quei tempi il mito di Arrigo Sacchi non si era ancora irrimediabilmente logorato, e per ogni Maifredi che falliva, c’erano pronti tanti altri aspiranti avanguardisti del calcio.
Io mi accontentavo di sognare per la mia squadra almeno un onesto compromesso. Ero intrigato da Nevio Scala del Parma.
Forse ero solo stanco di vedere alla Roma navigati condottieri, legati a un calcio più invecchiato di loro.
Dopo Radice, Bianchi e Boskov, mi aspettavo una sterzata rivoluzionaria pure in panchina.

Evidentemente l’immagine di Mazzone in tuta, con quell’incedere un pochino appesantito, mi sembrava lontana dalla necessaria rappresentanza richiesta per condurre un’aspirante big come la Roma, oltretutto in un calcio in continua evoluzione (iniziava proprio in quel campionato la storia dei posticipi in diretta tv).
In realtà non ero neanche troppo preoccupato del lato sportivo, ma restava parzialmente insoddisfatta sia la smania di un taglio netto col passato, sia l’esigenza di un mister dallo standing contemporaneo.

Abbastanza velocemente e da buon romanista accantonai progressivamente questo mio cruccio e, come in ogni avvio di stagione, cominciai a seguire la Roma e il nuovo allenatore con la passione di sempre.

Bastarono pochi mesi e, pure in un travagliatissimo campionato, constatai come Mazzone fosse un ottimo leader, con competenze di rilievo e uno spessore umano non comune.
Quando Sensi lo mise bruscamente alla porta dopo tre stagioni in giallorosso, ci rimasi molto male.
Anche perché, dopo l’esperienza con la sua Roma, Mazzone continuò il suo giro d’Italia, senza però far più tappa in una grande squadra, né in una presunta tale.


In conclusione a me, dispiace di aver avuto la stessa superficiale presunzione con cui è stato inquadrato dal calcio italiano, che da sempre ha ridotto il primatista assoluto di panchine in serie A a una raccolta di battute e gag folcloristiche.
Storie anche spassose, ma che lasciano la sensazione di avere sottovalutato un grande allenatore, nascondendolo dietro l’appiccicosa etichetta di personaggio divertente, incollatagli sopra da tante troppe leggende di calcio provinciale.

Per questo, ormai passato qualche giorno dalla sua scomparsa, mi sento di dedicargli un doveroso commiato, e uscendo dal coro d’inflazionati nomignoli e abusati soprannomi (sor Carletto, Magara ecc.) gli rivolgo un rispettoso “buon viaggio Mister Mazzone”.