Incollato alla tv, avvinto dal rabbioso assalto al fortino di Juric - dove la Roma ha concentrato in pochi minuti le emozioni mancate nell’ultimo monotono mese di Zaniolo & Co. - ho ripensato alle tante sfide coi granata e a quelle del passato per cui sia valsa davvero la pena di soffrire.
Il mio Roma-Torino è la finale di ritorno di Coppa Italia. E’ il 19 giugno 1993.

La Roma non se la passa benissimo. I guai giudiziari di Ciarrapico stanno accompagnando al tramonto la sua gestione societaria. In campo, chiuso il campionato con un malinconico 10° posto - poco compatibile con le ambizioni iniziali - e uscita dalla coppa UEFA ai quarti con il Dortmund (poi finalista), la Roma di Boskov prova a salvare l’annata con la Coppa Italia, da queste parti proverbiale salvagente di stagioni burrascose.
Per le due finali la Roma non dispone di Caniggia, colpo del mercato, estromesso dalla squalifica per doping proprio quando, dopo un avvio discutibile, cominciava a riempire il vuoto in attacco lasciato dalla partenza di Voeller. Non ci sono neanche i due portieri, Cervone (decisivo nel cammino in coppa) e il secondo Zinetti tutti e due stangati dal Giudice Sportivo per il turbolento post-partita della semifinale col Milan.
Gioca le due partite Patrizio Fimiani ventenne della primavera, che dopo la doppia finale si accontenterà di spendere una dignitosa carriera confinata in serie C e dintorni.
L’andata (non c’è ancora la finale unica) è finita con uno 0-3 a Torino che odora di sentenza.

19 giugno, ore 20:30
“Certi di farcela: annientiamoli! Insieme si può”, questo recita lo striscione che avvolge la curva sud.
Se non fosse per il logo di Italia Uno in basso a destra dell’immagine, giurerei che quel riquadro catodico in formato 4:3 sia una finestra che si affaccia realmente sulla tribuna Monte Mario.
Il biglietto per lo stadio non l’ho trovato, ma in salotto ho abbandonato il confortevole posto in divano per una più immersiva prima fila Tv su una scomoda sedia.
La voce rassicurante di Bruno Longhi interrompe il rombo dell’Olimpico e le chiacchiere con mio padre e mio fratello: è cominciata la finale! 
La Roma preme, il Toro pensa solo a proteggere l’ampio vantaggio dell'andata. Un rigore generoso, trasformato da capitan Giannini, ci porta avanti, ma dopo il pari del romano Silenzi la prima frazione si chiude con un 1-1 che aumenta la pendenza della salita.
La ripresa inizia con le reti di Rizzitelli e Giannini (ancora rigore). Mancano ancora due gol e 40 minuti da giocare. Ci crede l’Olimpico, e pure noi tre in salotto. Poi di nuovo Silenzi.
Un 3-2 che sa di titoli di coda.
Non resisto. Ci avevo creduto davvero. Esco da casa e mi allontano. Raggiungo una zona al riparo dagli echi televisivi delle altre case. Forse in mia assenza si potrà compiere un altro miracolo.
Assorto nei pensieri, perdo il riferimento del tempo, saprò poi che sono passati solo 15 minuti quando mio fratello irrompe in quella sorte di meditazione, ansioso di aggiornarmi: “Stamo 5-2, torna a casa!”
Mancano ancora venti minuti e ci serve solo un gol. Mi convinco e torno in salotto.
Ad un passo dal traguardo però, il miracolo sfuma. Il palo di Giannini e lo sfortunato tentativo di Benedetti certificano il finale: resta 5-2, e Coppa al Torino (doppio gol in trasferta).
Resto ipnotizzato a guardare la Curva Sud che intona Grazie Roma, e comincio a chiedermi se la mia “fuga per la vittoria” sia stata davvero in grado di piegare lo spaziotempo e incanalare la Roma verso il miracolo.
E se l’improvvida irruzione di mio fratello abbia interrotto quella deviazione e fatto fallire l’impresa.

Quasi trent’anni dopo, alla fine va bene anche così. D’altronde, l’aver solo sfiorato quell’inverosimile vittoria ha reso tutto così epico e così maledettamente Romanista.
Però la prossima volta che vado a meditare lasciando la Roma davanti ad un’altra impresa disperata... nessuno mi disturbi!
E vediamo come va a finire.