Con la stagione che sta per concludersi termina il decennio, per lo meno emotivamente, poiché con il prossimo iniziano gli anni 20; è un po’ come la querelle che accompagnò l’ingresso del terzo millennio, se doveva considerarsi con l’inizio del 2000 o del 2001.

Ci auguriamo tutti che col decennio sia passata l’ora più buia del nostro calcio: mai era accaduto che la Nazionale uscisse al primo turno per due mondiali consecutivi e che al terzo mancasse addirittura la qualificazione. O per meglio dire era avvenuto negli anni 50, ma c’era la non trascurabile attenuante che l’intera squadra, che sotto la maglia azzurra vestiva quella granata, aveva perso la vita sulla collina di Superga.

Da nove anni i nostri club non vincono una coppa europea; l’ultima nel 2010, quella dell’Inter del triplete, ottenuta con undici stranieri in campo, quasi un presagio dell’imminente crisi tecnica; seguita da quella finanziaria, con Moratti e Berlusconi che si sono progressivamente fatti da parte e le due compagini milanesi simultaneamente prive di competitività per un periodo lungo senza precedenti.

Di questa desolazione generale ha approfittato la Juventus, l’unica società che ha potuto investire in giocatori e strutture, per fare man bassa di scudetti: otto consecutivi. Record.

Si vedono luci in fondo al tunnel: alcuni giovani di qualità, soprattutto centrocampisti, come Barella e Sensi, accanto al più esperto Verratti; punte laterali interessanti, come Chiesa, Bernardeschi, Kean; malgrado tutto ancora pochi centravanti, aspettando un definitivo salto di qualità di Belotti. Purtroppo gli altri non sono stati per dieci anni a guardare come noi: Olanda, Spagna, Inghilterra, Francia continuano a sfornare talenti da paura. Ma di confortante c’è finalmente una presa di coscienza degli addetti ai lavori che la competitività si può perseguire solo attraverso il gioco, con una maggiore propensione offensiva, con il lavoro duro. Sotto questo aspetto la rinuncia della Juventus ad Allegri va nella direzione giusta. Il servizio più utile che Andrea Agnelli ha reso al nostro calcio è aver portato in Italia un professionista esemplare, oltre che un campione assoluto, come Cristiano Ronaldo. Personalmente preferisco Messi, ma l’aspetto tecnico che trovo più ammirevole nel Portoghese è l’abilità di calciare con entrambi i piedi. Anche questo è frutto del lavoro perché nessuno nasce ambidestro. I nostri giovani attaccanti devono prendere esempio da lui, e non da Immobile e Insigne che si divorano caterve di gol perché fanno tutto con un piede.

Qualcosa si muove a proposito degli stadi, almeno nelle intenzioni delle società. Proprio non si possono più vedere quei giganteschi stadi mesozoici con la pista di atletica. Ne’ si può sperare che in queste vetuste strutture, per di più semideserte, dei magnati stranieri o italiani vengano ad investire i propri soldi.

Ma tutto questo, anche auspicando i migliori sviluppi, non basterà oppure porterà una ripresa effimera seguita da ricaduta, come altre volte in passato, se non si rafforza il quarto ma fondamentale anello della catena, dopo dirigenti, allenatori e giocatori: i tifosi. Chi pensa che la crisi del nostro calcio sia dovuta solo alla mediocrità dei primi ha la stessa miopia di quelli che attribuiscono alla corruzione della classe politica i mali dell’Italia, dimenticando Montanelli, ossia che la classe politica non è peggiore della società ma è la sua proiezione. Abbiamo bisogno di una crescita culturale del tifoso. Perché non si parla mai di questo? Allo stadio e sulle chat i tifosi si scambiano insulti vergognosi, qualcosa di molto diverso dagli sfottò, che disonorano la città che li riceve quanto quella che li profferisce. Senza contare che persistono gli insulti razzisti verso i giocatori di colore, ormai superati nel resto d’Europa.

A veder giocare il Liverpool, il Tottenham, il City, l’Arsenal, non si può far a meno di considerare che quelle folle che gremiscono gli stadi, che traboccano entusiasmo, che sfiorano i giocatori a bordo campo ma non le sfiora l’idea di lanciare oggetti, che intonano i canti della loro tradizione popolare, fanno tutt’uno con quelle splendide squadre, e se le meritano.

La serie A non riempie gli stadi grandi ne’ quelli piccoli. C’è bisogno dei tifosi del Palermo, del Bari, del Catania, del Padova, del Vicenza, del Verona, del Pescara… dove sono finiti? Tutti a tifare Juve, Inter o Milan? (ma se continua così ancora un po’ ce ne saranno solo per la prima). Non vorrei tornare alla polemica sugli Ascari, ma questi proprio non conoscono l’emozione vibrante che si prova a tifare per la squadra della propria città. O ci illudiamo che qualcuno venga ad investire in un campionato con partite da ottomila spettatori paganti che si scambiano insolenze?

21-5-2019                                                                                                          Timeodanaos