Manca ormai solo la matematica. Il Napoli si appresta a festeggiare uno scudetto meritato, come riconosciuto anche dagli avversari, frutto del lavoro di una proprietà forse un po’ micragnosa, ma accorta e realista, che ci ha creduto per 18 anni, da quando cioè ha rilevato la società da un fallimento ripartendo dalla serie C, frutto del lavoro di buoni giocatori, alcuni ottimi, raramente fuoriclasse, frutto del lavoro biennale di un allenatore esperto tuttavia mai vincente prima d’ora in serie A.

Spalletti ha ridato al Napoli quel gioco sempre propositivo che con Ancelotti e Gattuso sembrava smarrito, ma che era rimasto nel DNA della squadra dal tempo di Sarri, sebbene siano cambiati quasi tutti i giocatori.
E’ una vittoria che, oltre a rendere felice una città e una regione in attesa da ben 33 anni, fa bene al calcio perché torna a vincere il tifo etnico, annuncia che tutti possono sognare, che si può anche vincere senza gli ingaggi faraonici, che lo scudetto non è sempre un ping pong tra le ricche e potenti Milano e Torino.

Tra le pieghe di un giubilo irrefrenabile si affaccia qua e là il rammarico per una semifinale mancata di Champions League, che era alla portata, maturata per una serie di circostanze avverse: l’infortunio del suo miglior giocatore, la flessione atletica di qualche altro elemento, la ritrovata quanto inopinata compattezza del Milan, due sviste arbitrali, una all’andata e una al ritorno, sfavorevoli al Napoli; aggiungo la testardaggine di Spalletti che ha insistito su Mario Rui, dopo i disastri dello 0-4 in campionato sempre contro il Milan, riproponendolo nella gara di andata, dove è stato protagonista in negativo nell’azione del gol, e nella gara di ritorno, quando ha commesso il fallo da rigore, poi fallito da Giroud, laddove appare sempre più evidente la maggiore freschezza atletica di Olivera, che non fa rimpiangere il Portoghese neanche quando è chiamato al cross.
Le sconfitte, tuttavia, sono anche utili se si sanno cogliere le indicazioni per il futuro. Senza questa battuta d’arresto il Napoli si sarebbe cullato nella illusione di poter fare a meno di Osimhen, forte delle sette vittorie tra campionato e coppa ottenute lo scorso autunno, in occasione del primo infortunio del Nigeriano; sette avversarie non proprio trascendentali, tranne proprio il Milan, contro il quale nella gara del Meazza il Napoli ebbe un pizzico di fortuna; la squadra inoltre viveva uno stato di grazia in ogni suo elemento e Kvaratskhelia non lo conosceva nessuno.
Osimhen è il terminale offensivo naturale di questa squadra, per caratteristiche fisiche e tecniche, senza il quale il Napoli è spuntato e non ha profondità. E’ stato palese anche nelle gare di campionato contro lo stesso Milan, il Lecce, il Verona. Del resto era noto che Raspadori non fosse stato acquistato per sostituire Osimhen, ma per fare coppia con lui in una variante di modulo con 2 punte centrali. Simeone è un buon attaccante e abile nel gioco aereo malgrado la non eccezionale statura, ma non è certo quel trascinatore che sa essere l’Uomo Mascherato quando difende la palla e fa salire la squadra, quando occupa l’area, quando si lancia negli spazi, e perfino quando retrocede generosamente a dare una mano alla difesa.
Ma sembra che l’unico top player tra i protagonisti di questa trionfale cavalcata debba lasciare il Napoli, perché le superpotenze del calcio europeo se lo stanno già contendendo. Io voglio credere fino all’ultimo che non sarà così, che De Laurentiis faccia di tutto per trattenerlo, anche perché problemi di bilancio non ne ha. E un altro Osimhen non esiste.

Sarebbe un vero peccato, perché il Napoli ha la concreta possibilità di essere ancora più forte, di vincere ancora, perché avrà la strafottenza di chi ha già vinto, di chi non avrà più paura di non raggiungere l’obbiettivo, a meno che non diventi supponenza. Inoltre ha una rosa che ha ampi margini di miglioramento: si pensi che nel trio d’attacco, a destra, Lozano o Politano hanno dato un contributo realizzativo esiguo; non c’è un centrocampista dotato del tiro dalla distanza o su calcio piazzato, non c’è un rigorista! Zielinski nel ruolo di trait d’union tra centrocampo e attacco ha lasciato spesso la sensazione che si possa fare meglio; i difensori centrali, soprattutto Rrahmani, non sono veloci e vanno in difficoltà quando il centrocampo perde palla; il portiere Meret para l’ordinario; dei limiti di Mario Rui ho già detto ma la soluzione è in casa.
Peccato!

 

29/4/2023
Timeodanaos