Era il giugno 1968: fase finale di un campionato europeo con una formula piuttosto minimale: solo quattro squadre qualificate; si giocava in Italia.

Dopo aver superato in semifinale con l’aiuto di una monetina la Russia, quella volta trismegista Unione Sovietica, dato che all’epoca non si tiravano i rigori alla fine dei tempi supplementari, l’Italia in finale si trovò di fronte la Jugoslavia. L’avversario era di tutto rispetto, in quanto raccoglieva i migliori giocatori serbi, croati e bosniaci; il confronto riproponeva spunti politici ed emotivi dolorosi: la guerra perduta poco più di vent’anni prima, il confine conteso, i profughi dall’Istria, le tragiche foibe. Foibe di cui si parlava ancora poco, o per niente, in quanto la cultura ufficiale aveva perdonato tutto ai vincitori e aveva ascritto tutto il male ai perdenti, ma che ai profughi, sparsi per la Penisola, erano ben note.

L’entusiasmo era tanto: si giocava a Roma, l’Italia tornava a disputare una finale a trent’anni dal mondiale vinto nel 1938 a Parigi. Ma la partita si rivelò piuttosto complicata per la Nazionale del commissario tecnico Valcareggi; la Jugoslavia apparve superiore sia sul piano tecnico che atletico e il risultato di 1-1 fu rimediato solo a 10’ dalla fine da un tiro di punizione di Domenghini che passò miracolosamente attraverso la barriera. Nei supplementari il risultato non cambiò e si andò alla ripetizione dell’incontro due giorni dopo. Sì, perché questo prevedeva il regolamento dell’epoca; e a mio modesto parere questa soluzione andrebbe ripristinata, perché vedere assegnata una coppa ai calci di rigore mi è sempre parsa una vile banalizzazione dell’agone, anche se preferibile alla monetina.

Per il secondo confronto Valcareggi cambiò ben cinque elementi, e non perché pensasse di inventare il turn over, ma semplicemente non sapeva a che santo votarsi e decise di mischiare le carte. Il CT jugoslavo Mitic invece mandò in campo gli stessi undici che tanto bene avevano figurato quarantotto ore prima, col risultato che la compagine in maglia bianca sembrava irriconoscibile rispetto alla gara precedente, mentre gli Azzurri galoppavano ch’era un piacere e vinsero 2-0, con i gol di quei due straordinari attaccanti che furono Riva e Anastasi.

Il significato tecnico di quella vittoria non fu compreso subito e rimase a lungo misconosciuto. Valcareggi aveva inconsapevolmente inventato il turn over ma per molti anni, almeno in Italia, nessuno pensò di trarne le conclusioni. E’ pur vero che negli anni 70 e 80 il campionato si componeva di appena 30 partite e le coppe europee erano ridotte all’essenziale, con sole eliminatorie dirette, pertanto il bisogno di avvicendare i giocatori non era stringente come nelle attuali stagioni agonistiche, che durano da agosto a giugno e prevedono impegni infrasettimanali quasi costanti; a questo si aggiunge che il calcio di oggi ha una dimensione atletica che è alquanto cresciuta negli anni.

Tuttavia ci sarebbe stato spazio per adottare questa strategia anche in passato, se allenatori e dirigenti avessero fatto tesoro di quell’insegnamento. Pensiamo alla favolosa Juventus del 1983: Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea, Bettega, Tardelli, Rossi, Platini, Boniek. Dietro questi 11 c’era il vuoto (Marocchino, Prandelli, Koetting, con tutto il rispetto). Quella squadra perse il campionato, durante il quale lasciava punti alle provinciali, e perse la finale di Champions, contro un Amburgo battibilissimo, dopo un cammino trionfale. Quanto le avrebbe fatto comodo tenersi ancora qualche anno Causio, troppo presto giudicato al tramonto? Anche negli anni 90, appena accesosi l’astro di Del Piero, ecco la Juve disfarsi di Baggio, che fece sfracelli a Brescia fino a 35 anni, e a leccarsi poi le ferite europee. E come possono gli amici milanisti dimenticare gli scudetti persi a Verona nel ’73 e nel ’90 qualche giorno dopo le vittorie in Europa?

Si obbietterà che una rosa ampia è costosa, mentre nel passato non c’erano gli introiti miliardari di adesso; però non c’erano neanche gli ingaggi principeschi di oggi. Piuttosto non rientrava nella mentalità degli allenatori tenere dei giocatori importanti a mezzo servizio; temevano di non riuscire a gestire lo spogliatoio.

Oggi tutti hanno compreso l’importanza del turn over. Soprattutto l’hanno compresa i club ambiziosi e ricchi, perché soltanto loro possono permettersi una rosa numerosa e di qualità elevata. Anzi, è stato proprio il turn over ad aumentare la distanza tra club ricchi e club medio-piccoli, rendendo sempre più improbabile l’affermazione di questi ultimi. Mentre in passato era possibile che una provinciale facesse lo sgambetto a una grande, stanca delle fatiche del mercoledì, adesso è poco probabile, trovandosi di fronte dei giocatori freschi e sempre di prima fascia.

Questa è la nuova realtà che ci è data di vedere sui campi di calcio in Italia e in Europa, che piaccia o no. Si segna di più, il gioco è indubbiamente più offensivo e per certi aspetti più spettacolare, a scapito della imprevedibilità.

Ma quanto ci piaceva, per chi se lo ricorda, il Cagliari di Gigi Riva che nel 1970 mise tutti in riga con 14 giocatori!

 

6/7/2019 Timeodanaos