e un castoro li teneva tutti per le pal**...

Il toro, l'asino, la farfalla... lo struzzo, l'elefante, il coniglio... il gatto, il cane e il macaco: queste nove bestie sono soltanto una piccola parte delle venticinque fiere che compongono il “gioco degli animali” di Rio de Janeiro, una singolare lotteria clandestina messa al bando da tutti gli Stati della Repubblica Federale brasiliana tranne uno: lo Stato di Paraíba.

Il jogo do bicho (così viene chiamato dal popolo carioca) è nato alla fine del XIX° secolo tra le gabbie dello zoo di Vila Isabel e da allora non ha più conosciuto frontiere. In tanti ci si sono arricchiti. Alcuni a causa di un'intuizione fortunata, molti altri perché hanno scelto di bancarlo, e tra questi ultimi spicca sicuramente un uomo in particolare: Castor de Andrade.

Castor, in portoghese, significa “castoro”. E anche se il “castoro”, ironicamente, non figura tra i venticinque animali che compongono il jogo do bicho, Castor ne è stato a lungo il più importante.

Partner in affari delle più alte cariche dello Stato, occulto presidente del Bangu Atlético Clube e complice, allo stesso tempo, degli esponenti del malaffare, all'apice del suo successo, Castor de Andrade è stato soprattutto un “contravventore”: un bandito amico del popolo ed anche dei potenti; un mafioso dall'intelletto fine, ma anche conservatore; uno spietato criminale dotato, però, di un cuore grande e di un animo romantico; Castor è stato l'animale in cima alla catena alimentare carioca. Anzi, è stato soprattutto un animale. E quella che segue è la sua storia. La storia del suo rapporto col jogo do bicho e quella del suo amore per il calcio.

Paulo girovaga per Rio in cerca di clienti. Ha passato l'intera mattinata al solito posto, in Praça Ailton Rosa, laddove si sviluppa il complesso e intricato dedalo di vie che conduce alla famosissima favela di Rocinha, la più popolosa dello Stato, eppure in pochi hanno deciso di fargli visita. I suoi clienti abituali, Julio, Fernando, Jorge, i più appassionati, incalliti ed entusiasti giocatori di jogo do bicho che Paulo conosca, non si sono visti. Hanno disertato il loro consueto appuntamento col “gioco degli animali” per dedicarsi ad altro. Probabilmente per annegare i loro dispiaceri nella Cachaça. Sicché, Paulo ha deciso di alzare il culo dalla sedia e darsi una mossa. D'altronde, se Maometto non va dalla montagna, sarà la montagna ad andare da Maometto, non è così che recita il detto? E poi, agendo in questo modo, Paulo spera che Roberto la smetta, finalmente, di rompere i c****oni.

Sono giorni, infatti, che quel cachorro gli sta addosso. Si lamenta in continuazione di lui e gli sta sempre col fiato sul collo. “Paulo sei un buono a nulla... Paulo non porti abbastanza soldi... Paulo non sai fare il tuo mestiere... Paulo di qua… Paulo di là…”. Roberto è un vero scassa pal** quando ci si mette e non è mai soddisfatto del lavoro dei suoi scagnozzi. È colpa sua e degli avidi bicheiros come lui se Paulo ed i suoi colleghi vendedores sono costretti a rischiare la vita quasi ogni giorno, pur di raggranellare qualche soldino in più.

Molti, tra l'altro, finiscono spesso per accettare scommesse nel territorio di qualche altro banqueiro, ma trasgredire le consuetudini che governano questo torbido ecosistema non è mai una buona idea. Sconfinare nei quartieri altrui, infatti, è un delitto piuttosto grave secondo le logiche che governano il variopinto mondo delle lotterie clandestine carioca. Un crimine che si paga con conseguenze molto spiacevoli, talvolta con qualche profonda ferita sul corpo, altre volte con la morte. La stessa sorte che sembrerebbe poter toccare in dono da un momento all'altro al primo individuo che attraversa il campo visivo di Paulo, un uomo dall'andatura incerta e claudicante, che sembra procedere sul marciapiede per inerzia, o se vogliamo, per miracolo.

A Paulo bastano due occhiate sfuggenti per inquadrarlo. È vestito di stracci, ha i denti marci e la montatura degli occhiali sbilenca. È più probabile che sia lui a domandargli dei soldi in regalo che non il contrario. E che dire dell'individuo che lo tallona a pochi metri di distanza? Fermarlo porterebbe ad una perdita di tempo altrettanto gigantesca. Quell'uomo, infatti, ha la faccia da persona per bene. Sembra un tizio a posto, capace di rimboccarsi le maniche e mettere da parte qualsiasi spicciolo che guadagna. Gente così non ama rischiare. Gente così preferisce vivere migliaia di giorni da pecora, che improvvisarsi leone anche solo per ventiquattr'ore. Gente così, non gioca d'azzardo. Probabilmente nemmeno scopa, ma questa è più che altro una convinzione di Paulo, non è da prendere come una verità assoluta.

Il terzo individuo che incrocia il cammino di Paulo, invece, appare diverso. Paulo ne ha visti tanti come lui. Sembrano poveri (e in effetti lo sono), ma non lo sono a tal punto da non poter investire qualche real sulla remota possibilità di guadagnarsi un futuro migliore. Paulo glielo legge negli occhi. Gli occhi non mentono mai, chico. E i due occhioni color nocciola del povero diavolo che gli sta venendo incontro gridano al mondo che quell'uomo ne ha viste tante nell'arco della sua sfortunata esistenza, ma non ha ancora perso la speranza di ottenere una vita migliore. Le avversità, insomma, non l'hanno ancora messo K.O.. E Paulo lo avverte. Lo avverte eccome.

«Bom dia, senhor! O que se passa?? Vuole giocare?? Fa ancora in tempo. Mancano ancora un paio d’ore all’ultima estrazione del giorno. Quale è il suo numero fortunato?? Le piacciono gli elefanti, per caso? Ieri sera c'è stato un brutto incidente in autostrada. Entrambe le targhe dei veicoli coinvolti finivano col 46, la decina associata a questi simpatici pachidermi, e non ha idea quante persone mi abbiano già contattato per puntare migliaia di reais sulla loro estrazione. Vuole farlo anche lei? Può puntare la cifra che preferisce. Più reais punta, più reais vince. Pochi reais potrebbero risollevarle la giornata. Una decina di reais potrebbero spalancarle le gambe di una calda gordinha... Non le piace la f***, senhor?».

«La f*** mi piace. È che non mi piacciono gli elefanti, e non mi piacciono nemmeno gli str**** come te».

«Che caratterino meu amigo! Lei è un tipo tosto! Però non c'è problema, non ha bisogno di arrabbiarsi. Può puntare su un altro animale. Guardi qua, ha un'ampia scelta! Il numero del burro, per esempio, è tanto che non viene estratto. È da 55 estrazioni che manca. Potrebbe scommettere sulla sua uscita, oppure sul veado...».

Paulo tira fuori dalla cartella che porta sempre con sé un piccolo tabellone di cartone. Sulla sua superficie, sono raffigurate 25 bestie diverse. L'avestruz, lo struzzo, è il numero 1. Il gato è il 14. Il touro il 21. Ci sono anche l'aquila, il macaco ed il coniglio. L'asino è il terzo in griglia, ma all'uomo dai caldi occhioni color nocciola tutto questo non interessa. L'uomo ha già deciso su quale animale puntare, e di certo non è il burro, e di sicuro non è neanche il veado (il 24).

«Come ti chiami str****?»
«Paulo, senhor»
«Paulo, i fr***, asini come te mi stanno sul c****. Segnati 5 reais sulla borboleta. Così vediamo se ti viene nuovamente il coraggio di insinuare che non mi piace la f***».

Paulo, meravigliato solo in parte dalla sfacciataggine del suo interlocutore, scrive su un piccolo foglio di carta la cifra pattuita, dopodiché, gli consegna una ricevuta. Quando l’uomo gli allunga i 5 reais che gli ha promesso, l'ennesima contrattazione di un'infinita, sterminata serie di accordi identici l'uno all'altro è da considerarsi conclusa. Se l'ultima cifra identificativa del biglietto estratto dalla lotteria federale sarà un 4, l'uomo vincerà 23 volte la posta. Altrimenti, Paulo si terrà una piccola percentuale della somma scommessa e darà la differenza al suo capo.

Transazioni del genere accadono regolarmente in Brasile. Ad ogni angolo della strada. Ad ogni ora del giorno, anche della notte. Sono tante le persone che si rovinano col jogo do bicho e hanno quasi tutte lo stesso nemico in comune: il denaro. O meglio, la mancanza di esso.
Carenza di soldi, del resto, la lamentava anche l'individuo che lo ha inventato: Il barone João Batista Viana Drummond.
Viana Drummond era un brasiliano di origine britannica, molto amico dell'imperatore Pedro II. L'imperatore, in nome della loro straordinaria amicizia, nel 1888 gli aveva concesso il titolo nobiliare e la possibilità di costruire uno zoo a Rio de Janeiro. Peccato solo che i vari privilegi che l'imperatore gli aveva garantito vennero meno l'anno seguente, con il colpo di Stato che pose fine alla monarchia e costrinse Pedro II a rifugiarsi in esilio. Di lì a poco, per gli affari di Drummond fu la catastrofe. Lo zoo, appena aperto, cessò di ricevere fondi governativi e la municipalità smise di accollarsi i costi della sua gestione. Di conseguenza, il barone si trovò a dover affrontare improvvisamente ingenti spese non preventivate. L'economia brasiliana, inoltre, stava attraversando momenti difficili. le persone non se la passavano bene, avevano poca liquidità e recarsi allo zoo era l'ultima delle loro priorità. Sicché, gli animali pativano la fame.

Il loro destino sembrava essere segnato, senonché, in preda alla disperazione, il barone ebbe un'idea molto particolare. Quella di incentivare l’ingresso allo zoo di Vila Isabel mettendo in piedi un piccolo concorso a premi. Non che non si fosse mai vista una cosa del genere prima, anzi. Molti commercianti di Rio, in passato, avevano dato vita a iniziative simili o analoghe. Mai nessuno, tuttavia, aveva pensato di associare la più classica forma di lotteria esistente al mondo ad alcune piccole immagini di animali, stampate su dei piccoli foglietti di carta. Drummond, fu il primo. Commissionò 25 illustrazioni diverse, ciascuna dedicata ad uno dei tanti animali ospitati all'interno del suo zoo, e le fece stampare su ciascun biglietto valido per l'accesso all'impianto di Vila Isabel. I fortunati possessori del biglietto contenente l'immagine della bestiola personalmente estratta a sorte dal barone ogni giorno, rigorosamente all'ora del tè, sarebbero stati ricompensati con 20 milreis, il doppio del salario giornaliero medio di un calzolaio.

L'iniziativa, risalente alla primavera del 1892, ebbe un enorme successo. Complice la stampa, che la elogiò e contribuì a renderla di pubblico dominio, in breve tempo decine di persone cominciarono a recarsi quotidianamente allo zoo nella speranza di aggiudicarsi un biglietto vincente, e alcuni visitatori finirono addirittura per comprare decine di biglietti a testa, pur di incrementare le loro chance di andare a premio. Il passaparola, poi, fece il resto. Folle di curiosi mandarono in tilt i trasporti pubblici diretti allo zoo e molti personaggi più o meno loschi (probabilmente con la complicità dello stesso barone) approfittarono della confusione creatasi per aprire nuove biglietterie nel resto della città, allentando, così, la pressione sulla viabilità, ma costringendo Rio a fare i conti con un nemico ancor più grande e minaccioso da combattere: la febbre del gioco d'azzardo.

Per reprimere questo mal costume generale, le autorità furono costrette a intervenire.
Nel 1895, al barone venne revocata la possibilità di organizzare qualsivoglia attività ludica o ricreativa all'interno del parco di Vila Isabel, jogo do bicho compreso. La decisione della municipalità serviva a ridurre gli ingenti danni all'ordine pubblico causati dal gioco e faceva leva sul fatto che il barone stava violando la licenza concessagli pochi anni prima (licenza che lo abilitava a organizzare attività ludiche e ricreative esclusivamente all'interno dei confini del parco), ma non ebbe l'effetto sperato. Col barone impossibilitato a continuare le estrazioni, infatti, le operazioni riguardanti il jogo do bicho non cessarono, tutt'altro, proseguirono. Gli stessi personaggi che avevano iniziato ad offrire i biglietti dello zoo al di fuori dei cancelli di Vila Isabel, infatti, si limitarono a prendere come nuovo punto di riferimento per le estrazioni i risultati della lotteria federale. Cosicché, i poveri animali (che nelle gabbie del parco, nel frattempo, perivano di stenti) si impossessarono di Rio e ne cancellarono i confini.
La congiuntura economica sfavorevole, il mito del guadagno facile e l'assenza di un tetto minimo alle puntate, poi, completarono l'opera. Le sacche di popolazione che facevano fatica a rientrare nel mondo del lavoro organizzato e regolamentato, poco a poco, riversarono le proprie speranze di sopravvivenza nel gioco e l'unico effetto che se ne ebbe, fu quello che il jogo do bicho divenne un fenomeno non arginabile, invulnerabile, praticamente endemico.
Le conseguenze di questa dilagante “immoralità” si manifestarono nei decenni seguenti. Negli anni venti, come testimoniato dal premio nobel per la letteratura, Rudyard Kipling, la situazione era più o meno la seguente: a Rio una sola cosa poteva esser data par certa, che accanto alla baracca di un giocatore di bicho, ci fosse quella di un allibratore. Fu negli anni '60, tuttavia, che la situazione nella metropoli si fece davvero drammatica. I bicheiros, infatti, cominciarono a darsi battaglia per il controllo delle zone nevralgiche di Rio (i “pontos”) e a rimetterci la salute, o peggio, la vita, furono centinaia di persone, onesti cittadini compresi.

È in questo scenario che il padre di Castor si arricchisce e diventa sempre più popolare. Euzebio è un banqueiro. Fa parte di una delle poche caste che compongono la piramide, anzi, la cupola, del gioco d'azzardo di Rio. Oltre ai banqueiros, che sono coloro che custodiscono i soldi e remunerano le giocate vincenti, ci sono i vendedores (che noi potremmo definire gli "allibratori"), i gerentes, che controllano il flusso delle puntate e fanno in modo che i banqueiros non debbano rimetterci soldi di tasca propria, e, infine, la manovalanza pura e semplice: gli impiegati che stampano ed archiviano le giocate.
Al di fuori della piramide, invece, si trovano gli scommettitori. Gli scommettitori sembrano l'ultima ruota del carro, ma in realtà non lo sono. Gli scommettitori sono un ingranaggio fondamentale per il corretto funzionamento del sistema. Gli scommettitori, in pratica, sorreggono la piramide che governa le lotterie del gioco d'azzardo carioca.

Funziona così: non esistono puntate minime, il gioco è libero, gli scommettitori decidono quanto e su cosa puntare, ma è il banco a partire in posizione avvantaggiata. Nel caso in cui troppa gente punti lo stesso numero, infatti (o la stessa combinazione di numeri) i gerentes ordinano ai vendedores di rifiutare ulteriori giocate sugli animali associati a tali numeri, riparando, così, i banqueiros dal pericoloso rischio di finire in bancarotta e lasciando loro la possibilità, semmai, di dedicare la maggior parte delle loro energie ad eludere l'intervento delle forze dell'ordine.

Castor de Andrade, figlio di Euzebio de Andrade, diventa banqueiro per discendenza diretta. Il suo coinvolgimento nel gioco è assolutamente frutto del caso. Suo padre e sua madre avevano accumulato immense fortune con le lotterie clandestine ed era perfettamente logico, dunque, che Castor ne proseguisse gli affari. Il caso di Castor, però, è anche il classico caso in cui la fortuna premia gli audaci, perché Castor non è il tipico figlio di papà che beneficia esclusivamente dei meriti altrui, Castor è differente. Castor è un individuo singolare. Castor è brillante, intraprendente e perspicace. E lo testimonia il fatto che ogni cosa su cui mette le mani rende più soldi di prima.

Alla fine degli anni '60, dopo aver servito un breve periodo in prigione, Castor capisce che è giunto il momento di porre fine alla sanguinosa guerra dei “pontos” che sta terrorizzando Rio e la risolve facendosi carico in prima persona delle esigenze degli altri bicheiros. Castor divide la metropoli carioca in tanti piccoli pezzettini (minuscoli tasselli di un gigantesco puzzle tutto da comporre) e li assegna ai vari bicheiros in lotta tra loro, come se dovesse placare un branco di leoni intenti a contendersi una succulenta bistecca. E Rio, scossa fino a quel momento da una violenta guerra intestina, conosce finalmente la pace.
Ci guadagnano tutti. Il jogo do bicho esce dalle pagine di cronaca nera e dal mirino delle autorità, i bicheiros possono nuovamente pianificare le loro attività con relativa tranquillità e Castor diventa l'incontrastato re del jogo do bicho carioca.
Da quel momento in avanti, dietro un apparente tranquillità, si instaura un clima di terrore.

Castor comincia a governare Rio con il pugno di ferro. Applica la legge di natura (la sua legge) in maniera violenta, risoluta e determinata; adesca i politici e gli imprenditori; corrompe i poliziotti civili e quelli federali; stringe patti di amicizia e non belligeranza coi suoi competitor e impedisce a chiunque di ostacolarlo, anche alle autorità, avvalendosi del fondamentale appoggio della gente.
La complicità della popolazione locale, del resto, è un ingrediente imprescindibile affinché un'associazione a delinquere di stampo mafioso possa continuare a operare e Castor (che non è per nulla ingenuo) lo sa benissimo. Tant'è che fa di tutto per ingraziarsela. Costruisce nuove infrastrutture, crea nuovi posti di lavoro, regala soldi in beneficenza, ma soprattutto, investe ingenti somme di denaro nella scuola di samba di Padre Miguel e nella società di calcio ereditata dal padre, il Bangu, la squadra di un anonimo quartiere nord occidentale di Rio. Un quartiere tutt'altro che malfamato. Il quartiere dove il patron del jogo do bicho aveva trascorso un'infanzia felice e spensierata.
Bangu, per chi non ha famigliarità con la struttura geografica di Rio, si trova tra il “Parco Estadual do Mendanha” e quello di “Pedra Branca”, due piccole riserve naturali immerse nel cuore della metropoli carioca, e costeggia, a nord, il “morro do Capim Melado” e a sud, la punta di “Pedra do Ponto”.

È all'interno di questa conca che, nel lontano 1903, venne alla luce il football club che la famiglia De Andrade avrebbe reso famoso ottant'anni più tardi.
Il Bangu Atlético Clube nacque all'interno di una fabbrica situata in questa radura oppressa dalla canicola estiva. Furono alcuni impiegati inglesi a fondarlo. Pare che uno di loro avesse coinvolto alcuni suoi colleghi brasiliani in una partitella di prova e che, questi ultimi, si innamorarono in fretta del gioco, trasformandolo ben presto nel loro principale passatempo. Ne costituirebbe prova il fatto che il Bangu vanterebbe il singolare primato di essere stato il primo club calcistico brasiliano a ospitare calciatori neri e mulatti tra le proprie fila: la principale caratteristica, tra l'altro, per cui fino agli inizi degli anni 60', la società sportiva carioca veniva ricordata.
Le cose mutarono quando il club passò nelle mani di Euzebio de Andrade, il padre di Castor.
Tra il 1963 ed il 1969, Euzebio portò il Bangu ad alti livelli e, per quanto più ci interessa, nominò suo figlio direttore sportivo del club.

Castor ci mise poco tempo a segnalarsi per quello che era: un gangster violento, ma sui generis, elegante e acculturato fuori dal campo, irascibile ed efferato nel pericolosissimo mondo del crimine carioca. Il rampollo dei De Andrade abitava nella classica zona grigia che si forma ai margini dell'onestà e dell'illegalità, e transitava tra questi due emisferi con estrema naturalezza e nonchalance. Non era come gli altri. Non era un delinquente comune. Era a suo agio in qualunque ambiente e situazione. Una delle poche eccezioni alla regola si verificava quando si sentiva preso di mira dagli arbitri. Eventualità, a dire il vero, piuttosto remota nel calcio brasiliano dell'epoca.
Memorabili furono, tuttavia, due episodi. Il più famoso lo vide protagonista durante una partita di calcio femminile del suo Bangu.
In quella occasione, il patron del jogo do bicho, insoddisfatto del metro di giudizio adottato dal direttore di gara, irruppe all'interno del rettangolo di gioco scatenando un enorme parapiglia. L'arbitro dell'incontro, allarmato dalla veemenza di alcune calciatrici e dalla discussa reputazione vantata dal patron del jogo do bicho, cominciò pian piano ad indietreggiare. Dietro le minacce dei suoi dirimpettai, i suoi primi passi all'indietro si trasformarono presto in una timida corsetta, finché, l'incedere dei suoi critici, non lo costrinse a fuggire a gambe levate verso i margini del terreno di gioco.

Ricardo Durante, questo il suo nome, terrorizzato dai suoi aggressori, sperava in questo modo di cavarsela incolume, ma non ebbe fortuna. Nel giro di pochi istanti venne accerchiato da tutti, dalle calciatrici, dai tecnici e dai bodyguard di Castor, e quando si trovò senza alcuna via d'uscita, spalle al muro, con tutte le vie di fuga ostruite, venne ripetutamente colpito al volto, alle gambe e al resto del corpo dalle furibonde calciatrici del Bangu, da Castor in persona e dai suoi inseparabili scagnozzi.
Il linciaggio collettivo perpetrato dagli uomini e dalle donne del patron venne ripreso in diretta televisiva, eppure Castor, intervistato dai giornalisti poco tempo dopo l'accaduto, non ebbe alcun problema a minimizzare l'episodio: «L'arbitro non ha inteso correttamente le mie intenzioni. Mi sono avvicinato a lui per proteggerlo. Gli stavo urlando “non uscire dal campo, non uscire dal campo!”, ma egli deve aver male interpretato qualche mio gesto. I filmati mostrano un'aggressione, ma io non ho visto nulla di tutto ciò. La verità è che nessuno ne è uscito contuso o ferito. L'integrità fisica dell'arbitro è stata protetta e garantita».

Castor era questo. Piegava la realtà dei fatti alle sue azioni malandrine e non esitava a farsi strada, anche sui campi da calcio, tramite la violenza e/o l'intimidazione.
Nel 1966, ad esempio, dopo aver assistito ad un arbitraggio particolarmente di parte, Castor era andato su tutte le furie: era entrato sul rettangolo di gioco brandendo una pistola e l'aveva puntata contro il direttore di gara per scoraggiarlo dal convalidare un dubbio penalty assegnato in favore dell'América, avversario, per l'occasione, del suo Bangu. La security, fortunatamente, gli impedì di fare fuoco, ma l'arbitro rimase talmente impaurito dalle minacce ricevute che, all'ultimo minuto di gioco, assegnò in favore degli uomini di Castor un calcio di rigore platealmente inesistente. Volete sapere come andò a finire? Che il Bangu vinse quell'incontro per 3 a 2, ovviamente.

D'altronde Castor otteneva sempre tutto ciò che voleva. Riusciva a farsi strada nella vita e nella società, sia con le buone, che con le cattive, e spesso e volentieri erano i suoi stessi calciatori a farne le spese.

Uno degli episodi più celebri in tal senso si verificò agli albori degli anni 80', quando Castor decise di riportare il Bangu ai fasti del passato e, per farlo, investì parte del suo denaro in alcuni calciatori in evidente parabola discendente. Una delle prime vecchie glorie chiamate ad inaugurare il nuovo corso biancorosso fu Marco Antônio, un terzino sinistro dotato di raro talento e di tecnica sopraffina, campione del mondo nel 1970. Marco Antônio aveva tutte le carte in regola per imporsi in quella formazione, ma si dimostrò troppo pigro e indolente per riuscirci. Inoltre, questa sua riluttanza al sacrificio lo fece immediatamente finire sotto l'acuta lente di ingrandimento del boss.
Un giorno, durante una seduta d'allenamento, Castor fece visita alla squadra e si accorse che Marco Antônio, invece di allenarsi assieme agli altri, stava beatamente dormendo sugli spalti del centro tecnico. Castor, diede in escandescenze. Estrasse immediatamente la pistola dalla fondina e sparò un colpo in sua direzione. Il proiettile mancò la testa di Marco Antônio per un soffio. Inutile a dirsi, da quel momento in avanti, Marco Antônio non si riposò più sul posto di lavoro.
Ma Castor non esitava ad utilizzare le armi anche per difendere il proprio onore o la propria reputazione. Quando, ad esempio, nel 1967 l'opinionista João Saldanha affermò che Castor era un “contravventore” e aveva corrotto il portiere del Botafogo, Manga, affinché il Bangu potesse uscire vittorioso contro la “Estrela Solitária”, il patron del jogo do bicho fece irruzione negli studi televisivi dai quali Saldanha stava trasmettendo, e non con una, bensì con due pistole in pugno, provò a farlo ritrattare. Ovviamente, Saldanha accusò il colpo, tant'è che molti anni dopo, il patron del Bangu parlò così a proposito del giornalista: «Saldanha si considera un mio nemico, ma non lo è. Io lo ritengo un amico. Quando mi accusò di aver corrotto Manga, non spesi neanche un minuto a discutere con lui. Ho chiamato le mie guardie del corpo ed ho fatto irruzione negli studi televisivi dai quali stava trasmettendo. Avevo con me due armi e le tenevo saldamente in pugno... sarei scappato persino io, fossi stato in lui, e invece Saldanha fu un vero macho. Non indietreggiò di un passo, anzi, mi sfidò apertamente! ...Però, quando anni dopo gli inquirenti si rivolsero a lui per ottenere prove contro di me, lui disse: "il nostro Castor è un patrimonio del calcio brasiliano! Non conosco la sua vita privata e non ho nulla da dire in merito”. Che dire, questa è dignità!».

Saldanha capitolò alla vista delle armi come Don Abbondio capitolò di fronte ai “bravi” e la stessa sorte, in seguito, toccò a molti dirigenti sportivi. Il caso più eclatante di tutti, probabilmente, si verificò nel 1983. I biancorossi erano appena usciti da una stagione discreta, ma non eccezionale, e Castor aveva definitivamente compreso che non sarebbero stati pochi elementi d'esperienza a condurlo alla vittoria. Nossignore, servivano forze fresche. Il Bangu necessitava di alcuni calciatori fortemente motivati, oltre che di talento. Piccoli astri nascenti del calcio brasiliano come Mário José dos Reis Emiliano, a.k.a. Marinho do Bangu (da non confondersi con Marinho Chagas, biondo terzino dalla lunga ed elegante falcata che solcava la fascia sinistra della Seleção verdeoro al mondiale 1974). Marinho do Bangu era per certi versi l'opposto del suo quasi omonimo. La sua frequenza di corsa era invidiabile. Il suo passo era stretto, la sua conduzione del pallone era ottima. Il rapporto col gol, lo era altrettanto. E Castor stravedeva per lui.
Castor si era innamorato dello stile di gioco di Marinho e nutriva per lui un'ammirazione profonda, ma c'era un piccolo problema. Le trattative imbastite per portarlo in biancorosso stentavano a decollare, sicché, Castor capì che se avesse voluto veramente metterlo sotto contratto, avrebbe dovuto agire coi suoi tipici metodi poco ortodossi. E difatti, indovinate un po'? Quando una pistola dal manico in madreperla comparve sul tavolo delle trattative, tutto cambiò. I dirigenti dell'América mollarono la presa e l'affare finalmente si sbloccò.

Con Marinho in squadra, Moisés a dirigerlo da bordo-campo, e una nutrita pattuglia di ottimi calciatori a supportarlo, il Bangu visse un'epoca d'oro. Dopo aver concluso il campionato brasiliano del 1983 al terzo posto, infatti, i biancorossi si confermarono ad alti livelli anche nel biennio successivo, tanto da raggiungere, nel 1985, sia la finale del campionato carioca (persa a vantaggio della Fluminense) sia la finale del Brasileirão, il massimo campionato brasiliano per club.
L'ultimo atto del Brasileirão, in particolare, fu un epico scontro tra outsider. Di fronte a novantamila spettatori, il Bangu e il Coritiba, assolute sorprese del campionato, si diedero battaglia senza esclusione di colpi.
Indio, centrocampista offensivo dei biancoverdi, aprì le danze con un potentissimo calcio di punizione. Un missile di rara precisione chirurgica che il portiere del Bangu non poté far altro che ammirare incastrarsi nel sette, impassibile ed attonito. Lulinha, un giocatore di tanta corsa e parecchia grinta, trovò il pari grazie ad una conclusione sporcata dalla difesa avversaria. Poi il portiere del Coritiba, già decisivo su un calcio di punizione di Marinho, salì in cattedra: sbarrò nuovamente la strada agli uomini di Castor e garantì ai biancoverdi la possibilità di rientrare all'interno degli spogliatoi sul punteggio di 1-1.

Nel secondo spezzone del match lo spartito del gioco fu molto simile. Il Bangu macinò calcio, gli ospiti agirono di rimessa. Ma se nella prima frazione di gioco il Coritiba era perlomeno riuscito a rendersi minaccioso in contropiede, gettando un po' di apprensione nella difesa avversaria, nella seconda parte dello scontro abbassò troppo il baricentro, finendo rovinosamente alla mercé dei biancorossi. Di conseguenza, le occasioni da gol in favore del Bangu si sprecarono.
Ad un certo punto della la ripresa, infine, il match sembrò avviarsi verso il suo più logico epilogo: Marinho, scattato in profondità, si involò verso la porta avversaria. Giunto in prossimità dell'area di rigore, scartò Rafael con un'azzeccata finta di corpo, e poi, dopo aver ingannato l'unico difensore prodigatosi in un disperato tentativo di recupero, depositò il pallone in rete: era il trentottesimo minuto di gioco e per il Bangu si stava profilando all'orizzonte il primo titolo nazionale della sua insolita, ma importante storia. Fu proprio allora, però, che accadde un vero e proprio colpo di scena. Marinho era scattato in fuorigioco. Il gol era irregolare. Il punteggio, dopo un paio di minuti di evidenti proteste, venne riportato sull'1 a 1.

Per il Bangu fu una vera e propria mazzata psicologica. Spogliati della convinzione necessaria ad ammazzare l'incontro all'interno dei novanta minuti regolamentari, i biancorossi decisero di rinviare i loro assalti ai tempi supplementari, senonché, giunti alle soglie della terribile lotteria dei calci di rigore, gli attaccanti del Bangu sbatterono nuovamente su Rafael, trovandosi nella delicata situazione di doversi giocare il tutto per tutto all'ultimo stage della competizione.
La tragedia giunse a compimento al sesto rigore della serie. Ado, un talentuoso centrocampista mancino, si recò sul dischetto. Prese una lunga rincorsa. Calciò potente e angolato. Troppo angolato, però, per impensierire Rafael. Il pallone si spense sul fondo. Assieme ad esso, si spensero le speranze di trionfo dei suoi compagni.
Da quel momento in avanti, il Bangu non ebbe più alcuna occasione di conquistare il Brasileirão, e anche la vita del patron del jogo do bicho, come quella di Marinho, per uno strano scherzo del destino, si avviò verso un lento, ma inesorabile declino.
Entrambi, tuttavia, fecero ancora in tempo a regalare al loro “pubblico” alcuni lampi di assoluta grandezza.
Marinho, infatti, a suon di gol e ottime prestazioni, convinse il c.t. della nazionale verdeoro, Telê Santana, ad aggregarlo al gruppo di calciatori dal quale, assieme al resto dello staff, il selezionatore scelse i 23 rappresentanti che avrebbero difeso i colori del Brasile ai Mondiali di Messico 1986. E anche se alla fine non prese parte alla spedizione, l'attaccante brasiliano riuscì a portare in dote al Bangu una Taça Rio e anche qualche nuovo “ponto”, la singolare merce di scambio per cui fu spedito al Botafogo di Emil Pinheiro, nel 1988.

Castor, invece, per giustificare alla legge il fatto di essere diventato il secondo uomo più ricco del Paese, inaugurò uno stabilimento metallurgico, rinnovò i suoi impianti di lavorazione del pesce, comprò varie stazioni di servizio e assunse il controllo di alcune concessionarie di automobili.
Lo scopo di quei movimenti era chiaro, ripulire le sue tasche dall'afflusso di denaro sporco proveniente dal jogo do bicho, ma non servì a evitargli la galera. Le autorità, infatti, controllavano da tempo le sue mosse e aspettavano soltanto l'occasione propizia per arrestarlo. Castor era sospettato di associazione a delinquere e riciclaggio, di aver commissionato parecchi omicidi e di essere direttamente coinvolto nel traffico internazionale di sostanze stupefacenti. Eppure, per ironia della sorte, alla fine scivolò su una piccola buccia di banana. Furono i videopoker a inchiodarlo. Le forze dell'ordine scoprirono che i suoi uomini importavano slot-machine contraffatte dall'estero e li colsero in flagranza. Castor venne individuato come il capo delle operazioni e il resto venne di conseguenza. Il patron del jogo do bicho fu arrestato, venne condannato a 4 anni di reclusione (poi scontati a due), e infine, fu affidato alla custodia della Polinter.

I tempi non erano ancora sufficientemente maturi, tuttavia, perché la giustizia facesse pienamente il suo corso.
Sfruttando amicizie potenti e corrompendo alcuni secondini, il patron del jogo do bicho riuscì ad isolarsi dai delinquenti comuni e a ottenere un trattamento più favorevole di quello riconosciuto ai suoi pari. Castor non venne sistemato in una gigantesca villa munita di otto camere da letto, un'immensa sala giochi, cinema privato e cinque uomini di servitù (come invece era accaduto quando era stato deportato nell'isola-penitenziario di Ilha Grande, nel 1969), ma si ritrovò comunque confinato in una suite dotata di tutti i comfort, una di quelle stanze che i turisti in visita alla metropoli carioca sarebbero stati felici di pagare a peso d'oro, nel caso in cui avessero desiderato ottenere le sue stesse comodità.

I suoi carcerieri, inoltre, gli concessero davvero di tutto: gli diedero un televisore, gli installarono l'aria condizionata, gli misero a disposizione un frigo-bar e gli garantirono persino il diritto di accogliere il presidente della FIFA João Havelange (e altri ospiti importanti) ogni volta che avesse voluto, facoltà di cui Castor, ovviamente, si avvalse a piene mani.
Politici, imprenditori, ballerini di samba, calciatori, e dirigenti sportivi, di conseguenza, allietarono la sua permanenza in galera e Castor ebbe molteplici occasioni di organizzare balli, giochi e festini per intrattenerli. Ma per quanto Castor non si annoiasse e non sentisse saudade di vita mondana tra le mura di quella fantastica suite, un pensiero cominciò ad attanagliarlo. Partì in sordina, ma si fece strada come un tarlo. E in poco tempo diventò una vera e propria ossessione. Castor iniziò a pensare che, uscito di galera, la gente avrebbe cominciato a guardarlo con occhi diversi. Cominciò a temere che la sua reputazione sarebbe stata per sempre compromessa dalle vicende di cronaca giudiziaria che lo stavano vedendo protagonista. Che tutti avrebbero smesso di rispettarlo e che gli affari sarebbero andati a rotoli. E così, dopo essere stato il primo cittadino brasiliano a beneficiare degli arresti domiciliari (nonché il primo ad infrangerli, con tanto di trucco e barba posticcia, solo per assistere ad uno spettacolo di David Copperfield) decise di uscirsene con una grandiosa dimostrazione di forza. Decise di appropriarsi della festività più cara al popolo carioca.
Danzatrici dal fisico statuario ed esotico, vestite di colori sgargianti, danzarono per lui al carnevale di Rio nel 1990; uomini coperti di pesanti scafandri, improbabili palombari del futuro, sfilarono davanti ai carri della sua accademia di samba, l'anno successivo.
La Mocidade Independente di Padre Miguel vinse a mani basse le prime due edizioni del carnevale di Rio degli anni novanta, ma le magnifiche coreografie inscenate dai suoi ballerini servirono soltanto a indurre Castor a commettere un grave errore di valutazione. Il patron del jogo do bicho, infatti, fece il passo più lungo della gamba.
Approfittando della visibilità garantitagli dal carnevale del 1993, sentendosi invincibile, si lanciò in un lungo, quanto emozionante sproloquio nel quale condannava tutti e tutto, tranne i bicheiros ovviamente, capri espiatori, a suo dire, di una giustizia profondamente corrotta e inadeguata. Pensava, così facendo, di attirarsi le simpatie della gente, ma in realtà, si attirò soltanto le ire dei giudici.

La magistratura non ci mise troppo tempo a reagire. Tre mesi dopo quel violento discorso, pronunciato da Castor nel bel mezzo di un sambodromo pieno zeppo di persone, il patron del jogo do bicho venne condannato a 6 anni di reclusione. Contemporaneamente, vennero condannati Emil Pinheiro, Luizinho Drummond, Antonio Petrus Kalil (a.k.a. Turcão) e un'altra decina di bicheiros. Formalmente, i magistrati attribuirono al gruppo 53 omicidi, ma è molto probabile che le vittime della cupola del jogo do bicho fossero molte di più. Ciò nonostante, il presidente onorario della Mocidade venne inspiegabilmente scarcerato pochi mesi dopo essere stato arrestato.
Una nuova retata, tuttavia, colpì il suo quartier generale nel marzo del 1994. Un'unità delle forze speciali di polizia militare dello stato di Rio de Janeiro, costituita per l'occasione, si introdusse nella sua roccaforte e mise a soqquadro le stanze in cui Castor viveva la sua quotidianità. I poliziotti gli sequestrarono carteggi, hard disk e libri contabili. Frugando tra essi, gli inquirenti fecero scoperte sorprendenti. Tra i personaggi di spicco coinvolti nel jogo do bicho c'erano l'ex presidente dello Stato, Fernando Collor de Mello, il sindaco di São Paulo, Paulo Maluf, e quello di Rio de Janeiro, Cesar Maia. Inoltre, sul libro paga di Castor, figuravano anche giudici, imprenditori, deputati federali, parlamentari dello Stato di Rio e persino un centinaio di ufficiali di polizia. L'inchiesta che ne scaturì fu un vero e proprio terremoto. Per qualche mese sembrò che il sistema potesse crollare. Qualcuno cominciò a crederlo seriamente. Mai speranza, tuttavia, fu così mal riposta.

I bicheiros condannati per associazione a delinquere nel 1993, infatti, vennero pian piano scarcerati, e nemmeno la morte di Castor, colto da un infarto fulminante mentre violava gli arresti domiciliari nel 1997, arrestò la loro rinascita. Gli ex rivali in affari di Castor tornarono quasi tutti più forti di prima. Si limitarono a diversificare i loro interessi, per riuscirci. Abbandonarono il gioco del calcio in favore delle slot-machine e dei videopoker. Affiancarono alle lotterie clandestine il traffico d'armi e quello di sostanze stupefacenti. Portarono avanti nuovi business illeciti. E anche se non trascurarono mai il jogo do bicho, lo relegarono al ruolo di semplice paravento dietro al quale nascondere altre attività criminose, nella maggior parte dei casi molto più gravi.
Diversamente, invece, la gente comune continuò ad essere terribilmente attratta dal richiamo degli animali di Vila Isabel. Molti continuarono a considerare il jogo do bicho un passatempo dal sapore romantico, altri addirittura una ragione di vita. Tant'è che ancora oggi, per le strade di Rio, è facile incrociare decine e decine di allibratori. Siedono ai lati della strada, in attesa di qualche disperato da spennare. Indossano camicie dai colori sgargianti o dalle fantasie floreali, solo per farsi meglio individuare. Celano i loro occhi al riparo di un bel paio di lenti scure, impenetrabili come le favelas in cui operano. E i poveracci che abitano all'interno di quei giganteschi alveari, derubati da tempo di qualunque altra via d'accesso all'opulenza, continuano a spulciare con estrema attenzione le pagine delle riviste e dei quotidiani. Cercano al loro interno qualche fredda combinazione numerica da rivestire di precisi significati. Pensano che un paio di numeri assolutamente casuali possano condurli verso la ricchezza terrena. Confidano che gli animali di Vila Isabel li aiuteranno a fuggire per sempre dalla miseria.
Ma si sbagliano di grosso. Sono stati proprio gli animali, infatti, ad essersi approfittati della povera gente. Gli animali hanno ingannato tutti. Si sono impadroniti di Rio e ora la tengono in scacco. Sono sopravvissuti alla morte del loro re e nessuno potrà mai rimetterli in gabbia.

 

(questo mio lungo articolo dedicato a Castor è stato pubblicato qualche mese fa nel primo numero della rivista Sportellate.it, un magazine riservato ai membri dell'associazione culturale di Sportellate. Il secondo numero della rivista uscirà a breve e sarà interamente dedicato al Napoli del terzo scudetto)