Molti conoscono il cartone animato "Holly e Benji", ma in pochi sanno che il personaggio di Tsubasa Ozora trae ispirazione da Mario Kempes, l'Oliver Hutton del calcio argentino.

Evoluzioni circensi, Telstar ovalizzati e roventi, catapulte infernali: c'è un posto al mondo che non conosce le ordinarie leggi che governano la fisica terrestre.
Trattasi di una vera e propria dimensione parallela, all'interno della quale i campi da calcio sono delle lunghissime distese verdi, quasi infinite, ed i calciatori inseguono il pallone per l'intero arco tracciato dalla crosta terrestre, alla stregua di instancabili maratoneti.
Dato che non esiste fisicamente, questo luogo non è raggiungibile a piedi, né tramite l'ausilio di mezzi di trasporto meccanici. Ciò nonostante, può comunque essere esplorato: basta scorrere le pagine del manga Captain Tsubasa, un fumetto che racconta la storia di Tsubasa Ozora (Oliver Hutton nell'edizione italiana), un attaccante a dir poco formidabile che, assieme ad una generazione di talentini d'oro, riesce a portare il Giappone Under 17 sul tetto del mondo.
Tra rovesciate impossibili, giocatori che si arrampicano sui pali e reti che si bucano, Captain Tsubasa, del quale esiste anche una versione animata (nota in Italia come “Holly e Benji”), oltre ad essere una bellissima favola, è il prodotto di una nazione in costante crescita, vicina, negli anni ottanta, a raggiungere il vertice dell'economia mondiale. Ed è proprio per questo che funziona, perché i giovani lettori giapponesi, in quel momento, sono convinti di poter primeggiare in qualsiasi ambito, persino in uno sport in cui hanno pochissima tradizione come il calcio.
Il sogno di Ozora, nel loro fervido immaginario, non è troppo distante dalla realtà. E le vignette dinamiche e accattivanti create da Yoichi Takahashi, il suo creatore, fanno il resto. Catturano l'attenzione a ritmo di splash-pages e riescono a conferire al gioco pathos, suspense ed epicità.

Captain Tsubasa (che verrà pubblicato su “Shonen Jump” a partire dal 1981) racconta, così, i pensieri, le emozioni ed i sentimenti provati dai calciatori durante le varie azioni di gioco e contribuisce definitivamente a cambiare la concezione di sport in capo al popolo nipponico.
Sacrifici, disciplina e fatica rimangono ancora elementi imprescindibili per l'affermazione sportiva di un giovane giapponese, ma spuntano all'orizzonte anche la passione ed il divertimento, vere e proprie pulsioni del giovane Hutton. È una rivoluzione concettuale che si compie in oriente, ma che parte dall'estremo occidente: la scintilla che finisce per ardere sotto il Sol Levante, proviene dalla terra di un altro sole, quello di “Mayo”.

Nasce tutto dal mondiale argentino del 1978, infatti: il torneo dei sospetti accordi intergovernativi che portano alla “marmelada” peruviana. Quell'estate, Yoichi Takahashi non conosce ancora bene il gioco del calcio, perché in Giappone sono popolari le arti marziali ed il baseball, ma decide comunque di dar vita ad uno “spokon” calcistico, perché le riprese di quelle partite, letteralmente, lo catturano. Si immedesima nei calciatori, così simili a lui: li ritiene tutti artisti e non li trova affatto distanti dagli illustratori, perché li percepisce altrettanto creativi e liberi di esprimersi. La loro diversità, risiede soltanto nei diversi codici d'espressione, pensa Yoichi.
Più di tutti, lo affascina la “grande speranza bianca”, il beniamino dei tifosi del Valencia: un calciatore mancino che quando progredisce palla al piede assomiglia ad uno stallone purosangue, è inarrestabile e travolge tutto ciò che incontra.
Il disegnatore giapponese è così colpito dalle sue movenze, che decide di ricamare addosso al protagonista del suo racconto le stesse caratteristiche possedute da quell'attaccante argentino così rapido e potente, caratterizzato da un criniera folta, crespa e scura.
Non è dunque un caso se Hutton è longilineo, porta i capelli lunghi fin quasi alle spalle, possiede un tiro micidiale e vanta un repertorio di finte e cambi di direzione niente male, perché Hutton è Mario Kempes, il giocatore che, segnando due gol contro l'Olanda nella partita finale dei Mondiali, per primo contribuisce ad introdurre l'Argentina sulla mappa del calcio che conta (parola di Diego Armando Maradona).
Soprannominato “El matador” per via della sua letalità sotto porta, Kempes all'apice della carriera è un vero e proprio cavallo di razza, tanto che viene ritenuto addirittura più forte di Cruyff.
Eccelle nel primo controllo di palla orientato, salta gli avversari con leggerezza e fa a fette le difese nemiche con estrema naturalezza, anche partendo da molto lontano: non ce ne sono altri come lui.

Ciò nonostante, la sua popolarità durerà ben poco. L'attaccante retrocederà ben presto tra le divinità calcistiche minori e finirà praticamente nel dimenticatoio, stritolato proprio dalle ingombranti icone del maggior interprete del Totaalvoetbal e dalla “mano de Dios”, il suo futuro compagno nell'albiceleste, Diego Armando Maradona.
Kempes, infatti, ha avuto la sfortuna di aver conquistato pochi trofei con le squadre di club del vecchio continente (negli anni trascorsi al Valencia, arriveranno solo una Coppa del Re, una Coppa delle coppe ed una Supercoppa europea, un palmares decisamente inferiore rispetto a quello vantato da altri, più illustri colleghi) e di aver spopolato in un campionato mondiale rinnegato in parte anche dagli stessi argentini, poiché direttamente organizzato da un regime militare particolarmente oppressivo.
Kempes nel 1978 porta al trionfo l'Argentina, ma lo fa in un'atmosfera tesa e cupa, con la complicità di arbitraggi discutibili e tra le accuse mosse al regime di aver esercitato forti pressioni sulle compagini rivali, per questo il suo successo passa in secondo piano rispetto a quello ottenuto dal “pibe de oro” nel 1986.
Un vero peccato, perché, analizzando la sua storia con senno di poi, “El matador” fu un vero rivoluzionario e meriterebbe certamente maggior considerazione. Forse non quella che il "pueblo" riconosce a Diego, ma comunque simile.

Se la “terra del sol levante”, infatti, ha fagocitato il pallone a trame pentagonali restituendoci Hidetoshi Nakata ed un'intera generazione di calciatori capace di portare la nazionale nipponica a trionfare in coppa d'Asia nel 1992 e a centrare la sua prima storica qualificazione alla fase finale dei mondiali nel 1998, non è solo merito di Yoichi Takahashi o dei suoi personaggi di fantasia, è indirettamente merito suo.
Bisogna ringraziare Mario Kempes, l'Oliver Hutton del calcio argentino.