Mi sono imbattuto nella storia di Marinho mentre completavo le mie ricerche su Castor de Andrade e da quel momento ne sono rimasto rapito. Volevo raccontare il suo dramma da tempo. Non so perché, ho deciso di farlo oggi.

E' mattino presto, ma Mario José dos Reis Emiliano, a.k.a. Marinho, tracanna già un po' di liquore.  Per quell'uomo, un individuo mogio, dal volto scavato dalla vita e dall'espressione sofferta, i superalcolici sono un potente generatore di emozioni. Ogni volta, lo scarrozzano verso vecchi ricordi, preziosissimi e mai davvero invecchiati dallo scorrere del tempo. Belli come una volta. Ci sono i gol; tanti gol.  Alcuni sono splendidi. Altri sono anche importanti.  C'è la torcida del Bangu che lo venera, lo brama e intona sempre nuovi cori per esaltare le sue gesta. Ci sono i party scatenati, il carnevale di Rio, la samba: la metropoli carioca in tutto il suo folklore e le sue  meravigliose contraddizioni.  All'ombra del Cristo Redentore, Marinho ha trovato fin dagli anni '80 il suo habitat naturale.
Tra le conche e i bassorilievi che interrompono il tessuto urbano che costeggia la Baia di Guanabara, dove sorge la città, Marinho si trova perfettamente a suo agio. Si muove da un quartiere all'altro in un batter di ciglia e passa da un evento sociale all'altro con facilità e scioltezza. Un momento è lì, che danza a torso nudo su un campetto da calcio pavimentato dalla sabbia di Copacabana, con una bella birra ghiacciata in mano e un sorrisone stampato sul volto; un altro è là, a bordo campo, che bacia appassionatamente la moglie dopo l'ennesima, fantastica, prestazione monstre. Nel frattempo, sfilano davanti ai suoi occhi, come carri di una allegra e variopinta parata, i volti delle persone a lui note, che l'hanno amato o hanno avuto un forte impatto sulla sua vita. 
C'è la sorella Irene - ah la povera Irene. Colei che ha sempre creduto in Marinho e nelle sue doti calcistiche e per questo lo ha sempre incoraggiato a rincorrere il pallone, anche nei polverosi fazzoletti di terra del Bairro Betânia di Belo Horizonte, dove Marinho si sporcava i primi scarpini - <Irene, tutta la mia carriera la devo a te! Non c'è giorno che non pensi al tragico incidente che ti ha portata via mentre mi accompagnavi agli allenamenti dell'Atletico Mineiro. Avevo solo 12 anni quando ci hai lasciati e mi sono sempre sentito responsabile. Mi manchi!> -.  Ci sono i volti dei tanti compagni di gioco che hanno condiviso con lui le vicende di campo.  Ci sono gli avversari più forti. C'è Zico in persona che gli consegna la Bola de Ouro del 1985, l'ambito riconoscimento annualmente assegnato dalla rivista Placar al miglior calciatore del massimo campionato di calcio brasiliano. C'è Telê Santana che lo convoca in nazionale e lo inserisce nella lista dei pre-convocati alla spedizione mondiale 1986, salvo poi tagliarlo per l'agguerrita concorrenza.
Infine, c'è Castor de Andrade, il patron del Jogo do bicho. L'elegante criminale che negli anni '80 tiene in mano le redini di Rio, appassionato di calcio e presidente onorario del Bangu. Castor è stato come un padre per lui. Nel 1983 lo ha portato tra le fila della sua squadra, il Bangu, appunto, ed è lì che Marinho è sbocciato definitivamente. Dopodiché, Castor lo ha in parte tradito, cedendolo al Botafogo, ma questo, nell’economia dei fatti qui narrati, poco importa. Perché, nell’intervallo di tempo trascorso tra un avvenimento e l’altro, Castor ricoprì Marinho di denaro e attenzioni. Addirittura, lo protesse dai delinquenti comuni e, quando qualcuno di essi osò depredarlo dei suoi effetti personali, introducendosi nella sua dimora privata e spaventando a morte i suoi affetti, Castor si attivò immediatamente per recuperare la refurtiva. Pensate, ci mise soltanto 48 ore a restituirgli il maltolto, perché Castor governava il mondo del crimine di Rio con intelligenza e spietatezza, proprio come Marinho teneva in pugno le difese avversarie, colpendole in velocità e con freddezza. 
Formavano davvero una bella coppia quei due. Il delinquente e il suo braccio destro. Anzi, il delinquente e la sua  gamba destra preferita. Un duo implacabile. Uno invincibile nel sottobosco criminale, l’altro tostissimo da  affrontare sul manto erboso. Eppure, come ogni cosa bella, anche il loro sodalizio finì per rompersi.  Avvenne (si vocifera) per il controllo di un pugno di "pontos", i punti nevralgici in cui i re del gioco d'azzardo  avevano deciso di spartirsi le estrazioni delle lotterie clandestine carioca.  E' questo il valore che Castor attribuì al suo miglior calciatore: Castor valutò Marinho appena un paio di pontos!  Il patron del Jogo do bicho, l'appassionato di calcio che aveva sempre giurato di spendersi esclusivamente per donare un sogno sportivo alla sua gente, lo vendette alla concorrenza per questioni d'affari, per business, per vil denaro, insomma, altro che romanticismo!  Marinho, però, non cambiò mai la considerazione che nutriva per lui: un uomo violento e ambizioso, certo, ma al tempo stesso premuroso, determinato e affascinante, nei confronti del quale vantava pur sempre un debito di riconoscenza. Per questo Marinho gli rimase grato anche quando Castor lo derubò di un pizzico di coinvolgimento emotivo,  spedendolo lontano da Bangu, altrove, verso il Botafogo, verso una tifoseria che mai lo avrebbe amato o celebrato quanto quella del Bangu. Del resto, comprensibilmente, quell'operazione gli sembrava il definitivo trampolino di lancio verso l'olimpo del calcio brasiliano. Di certo, Marinho non sospettava di accingersi a imboccare un calvario senza fine. 

E invece, come spesso accade, è proprio quando tutto sembra andare bene che bisogna davvero guardarsi le spalle. In questo caso, Marinho avrebbe dovuto riporre maggiore attenzione, però, a qualcosa di diverso dalla propria pellaccia.  Avrebbe dovuto controllare con maggiore solerzia la propria prole. In particolare, il figlioletto Marlon. 
Marlon, un anno e sette mesi, è forse il piccolo al quale Marinho, agli albori del 1988, confida di tramandare le proprie conoscenze calcistiche e il proprio innato talento naturale. Non lo sappiamo. Ne parliamo al condizionale, perché davvero non conosciamo cosa l’ex campione del Bangu progettase per lui. Sappiamo solo che, in quel periodo, Marlon viveva con l'attaccante passato al Botafogo e la madre in una lussuosa villetta di Jacarepaguà, un sobborgo di Rio. E sappiamo che Marinho era lì con lui, il 12 febbraio, il giorno in cui l’esistenza di entrambi sarebbe stata profondamente segnata. In quel momento, però, Marinho non sospettava alcunché. Non temeva affatto di perdere per sempre il frutto del suo stesso sangue, né di dover rinunciare all'amore della propria moglie. Non aveva timore di niente, perché si sentiva forte, immortale, invincibile, e, principalmente per questo, riponeva altrove le sue priorità. Marinho era famoso, atletico, desiderato. Era il re di Bangu e pensava solo a tre cose: al divertimento, al calcio e al successo. Non prestava minimamente attenzione al proprio bambino. Gli voleva bene, certo, ma c'erano già le luci dei riflettori a illuminare le sue giornate e, per quel che concerne il resto, le cronache dei giornali sportivi a impegnare i suoi pensieri. Tant'è vero che, proprio quel giorno, una troupe televisiva si era recata a fargli visita per intervistarlo.
Ma le cose erano destinate a cambiare velocemente. Proprio mentre Marinho rilasciava inutili dichiarazioni ai  microfoni televisivi, Marlon si avvicinava pericolosamente a bordo piscina.
Fu questione di pochi attimi.
Gli adulti che dovevano vigilare sulla sua incolumità non prestarono sufficiente attenzione. Erano distratti. Il suo supposto angelo custode, il padre che l’aveva generato e aveva la responsabilità di crescerlo nelle difficoltà, era in un'altra stanza, a parlare di cose futili con qualche giornalista.  Nessuno, perciò, si avvide della pericolosità della situazione. Marinho non intuì che le acque stavano per inghiottire il proprio figlioletto. Marinho non realizzò che i piccoli polmoni di Marlon, di lì a poco, si sarebbero riempiti di liquido fino a farlo soffocare. Marinho non capì niente e non se lo perdonò mai. Su Rio calarono anzitempo le tenebre.

-Respira, prendi fiato e corri Marinho! Corri avanti e indietro nella memoria. Supera nuovamente gli ostacoli che la vita ti ha parato davanti, come solo tu sai fare, con la stessa agilità con cui ti sbarazzavi, quando eri ancora agile e veloce, dei calciatori avversari, aggirandoli come birilli e staccandoli di qualche lunghezza nella verticalità degli spazi-. E Marinho respira, prende fiato e infine corre, corre veloce come una volta, soltanto che lo fa lontano dai prati dei campi da calcio, e ognuno di quegli splendidi viaggi comporta per lui un prezzo enorme da pagare, carissimo. L'alcool lo logora nel fisico e nello spirito. Il suono dello scalda budella che scivola sul fondo del bicchiere lo avvelena nell'anima. Ogni volta la storia si ripete, ma le conseguenze sono sempre più gravi. Marinho non vive più di pallone ormai. 
Anzi, non vive più. 
Alle soglie del nuovo millennio ritorna sempre nel passato, alla ricerca di un fugace momento di gioia: un'isoletta di leggerezza in un mare di lacrime o un piccolo miraggio di acqua fresca in un deserto di vergogna. E prima di spiccare il volo verso la pace interiore e i bei tempi che furono, è costretto ad annegare col figlioletto in piscina ancora una volta, ogni singola volta, ciascuna come se fosse la prima. E' la pena che deve scontare per tornare ad essere felice. Ma è una punizione talmente severa che a un certo punto Marinho non riesce più a sopportarla.  Il dolore ha il sopravvento. Pian piano gli attimi di serenità si fanno sempre più rari, la sofferenza, invece, aumenta. 
Il senso di colpa lo consuma. Lo divora dall'interno come una bestia nera, potente, feroce e insaziabile: un animale al quale è impossibile opporsi.  In fuga dalla belva, Marinho riesce a rifugiarsi nel passato ancora qualche volta, ancora qualche secondo, finché  tutto si fa più confuso, sbiadito, distante dai colori sgargianti che siamo abituati ad associare a Rio. I bei ricordi  perdono i loro marcati contorni e si amalgamano con cose mai accadute, fino a formare nella mente dell’ormai ex calciatore del Bangu una dimensione parallela, diversa, irriconoscibile da quella che quest’ultimo era abituato a vivere. Marinho non riesce più a discernere la realtà che lo circonda da quella che si sprigiona dal fondo del bicchiere. Non riconosce più niente. tutto è caotico; tutto è incomprensibile; tutto è irrazionale.  L'alcool cancella i suoi punti fermi e annebbia i suoi ricordi. Le sue gambe si indeboliscono poco a poco, perdono di tonicità.
E del campione che fu, ben presto si smarriscono le tracce. 
Marinho diventa quindi uno scheletro vivente. Si rannicchia a bordo strada e ne emerge soltanto per cercare altro alcool, in un circolo vizioso senza alcuna soluzione di continuità. 
La morte, però, lo risparmia. Dio ha deciso che, almeno fisicamente, non è ancora giunto il suo momento. Marinho non merita ancora di morire. Qualcuno che in terra non ha mai smesso di amarlo, lo riconosce.  Alcune persone lo tolgono dal marciapiede e lo rimettono in sesto.  Il Bangu, sprofondato da tempo nelle serie minori, gli dona addirittura un alloggio e un ruolo di assistente tecnico.  Ma si può forse dare nuova vita a una persona già morta?  No, deve trattarsi di un inganno.  E in effetti, trascorso qualche anno, prima ancora che le sue condizioni di salute si deteriorino ulteriormente, tutti realizzano che il vecchio Marinho non c'è più. Se ne è andato da tempo. Tanto che, quando il suo cuore cessa effettivamente di battere, nel 2020, il sospetto che il referto ospedaliero sia sbagliato sorge legittimo.  Sulla cartella medica di Marinho si parla di pancreatite, ma è con tutta probabilità una menzogna.  Il cuore di Marinho, infatti, aveva già smesso di battere da anni. Aveva cessato di contrarsi un giorno di sole del 1988, mentre il calciatore si faceva bello e importante delle sue gesta nel calcio, abbronzato dal sole, incurante del figlioletto Marlon, pericolosamente avviato a cadere in piscina.

E' tardi, è notte fonda, e Marinho si versa un altro po' di liquore.