Pallone d'Oro: tra le tante decisioni assurde prese dalla giuria di France Football ci fu anche quella di preferire Papin a Savicevic

Riguardando i vecchi spezzoni delle partite in cui Dejan Savicevic si rese protagonista, balza subito all’occhio una cosa. Il montenegrino non dava mai l’idea di avere il pieno controllo della sfera, eppure riusciva sempre a sfuggire al pressing avversario portandosi appresso il pallone. A volte era necessaria una finta di corpo, altre un leggero cambio di passo, ma il risultato era sempre lo stesso: quando Savicevic sembrava prossimo a perdere la palla, risolveva la situazione con un’invenzione improvvisa; un’intuizione prodigiosa; un dribbling inedito.

Non importava da quale zona del campo partisse. Da esterno sinistro, da esterno destro, da mezzala, persino da falso nueve, a Savicevic bastava un allungo repentino per involarsi verso la porta avversaria; un cambio di passo fulmineo, magari; oppure un tocco di destro, il suo piede debole… (e ad avercene di piedini così!). I suoi movimenti, apparentemente irrazionali, erano in realtà assolutamente logici. I suoi tocchi leggeri e vellutati, erano figli di un talento purissimo ed elegante. I suoi guizzi imprevedibili, risultavano assolutamente incomprensibili agli avversari, perché partoriti da una intelligenza motoria sopraffina, totalmente fuori dalla portata dell’intelletto del calciatore comune. 

Non a caso, Dejan lo avevano ribattezzato il “genio”. Perché, quando era in giornata, si sbarazzava del proprio marcatore disorientandolo contro-intuitivamente; utilizzando pertugi invisibili ai più; anticipando l’intervento nemico come se fosse realmente dotato della capacità di leggere nell’immediato futuro. E quando non lo era, era spesso capace di segnare gol a grappoli, come quando al San Nicola ne mise a segno 4 con estrema naturalezza ed assoluta nonchalance.
Savicevic, più che di fantasia, era dotato di perspicacia e lungimiranza; astuzia calcistica, si potrebbe dire. E probabilmente, fu grazie a questa sue qualità che riuscì a conquistare il cuore di Silvio Berlusconi, un altro individuo capace di predire l’avvenire come pochi altri. Savicevic e Berlusconi parlavano un linguaggio comune, prodotto dalla stessa forma mentis, per questo si intendevano alla perfezione. Berlusconi stravedeva per il suo “genietto”, tant’è che lo difese sempre e comunque, nei confronti di tutto e tutti, ogni volta che se ne presentò l’occasione. E Savicevic gliene fornì tante, perché all’inizio della sua avventura in rossonero proprio non ne voleva sapere di ambientarsi. Capello lo aveva relegato ai margini delle rotazioni, dietro a Gullit, Rijkaard, Papin, Boban e Van Basten (non proprio gli ultimi arrivati, comunque). E non si creda che il tecnico friulano lo impiegasse col contagocce soltanto perché, in base ai regolamenti dell’epoca, di fenomeni stranieri ne potesse convocare soltanto tre; oppure per una questione di modulo, o, peggio ancora, perché mal lo sopportasse. La realtà era ben diversa. Dejan rimaneva in tribuna perché non aveva nessuna intenzione di correre per la squadra; di sacrificarsi per dare una mano ai compagni; di improvvisarsi “fabbro” o “manovale”; di rinunciare ad illuminare San Siro con i propri lampi. Semplicemente, perché non era l’individuo adatto per farlo; non era il calciatore capace di tenere volontariamente a freno le proprie pulsioni; non era l’uomo più malleabile od altruista del mondo (e forse non era nemmeno tanto buono, a dire la verità, perché le cronache giornalistiche dell’epoca ci raccontano spesso di frequenti eccessi d’ira; di ricorrenti alterchi coi compagni di squadra; di diverbi con gli allenatori; di violenti falli di reazione; nonché di misteriosi litigi con i portieri d’albergo).

D’altronde i geni sono così. Hanno quasi sempre uno spiccato individualismo ed un carattere molto particolare. Non sono influenzabili e spesso rifiutano le critiche. Inoltre, raramente riconoscono i propri errori. Ascoltano soltanto se stessi. Seguono esclusivamente la propria vocina interiore. E quella di Dejan sapeva consigliarlo bene sul manto erboso, ma gli impediva di accettare soluzioni di compromesso al di fuori di esso. Poco male, in ogni caso, perché oggi riveste poca importanza se Dejan si trovò spesso in aperto conflitto con Capello; se alla Stella Rossa fu reciprocamente invidioso di Stojkovic; se per un bel pezzo non riuscì mai ad avere una conversazione tranquilla con Boban, a causa delle rispettive e contrarie posizioni politiche. Riveste poca importanza, perché Savicevic seppe comunque compensare adeguatamente quel suo carattere fastidioso e complicato (sempre ostile al compromesso) con le movenze raffinate che possiedono soltanto coloro che sono venuti al mondo all’esclusivo scopo di danzare su un campo da calcio. 
E poi, diciamocelo, fu proprio la sua indole battagliera e tenace a condurlo nell’olimpo del mondo del pallone. Lo dice la storia. Furono le sue “p***e” (le stesse che gli avevano permesso di inimicarsi “la tigre Arkan” senza alcun timore reverenziale) a concedergli la chance di diventare per la seconda volta campione d’Europa (la prima, nel 1991 con la Stella Rossa Belgrado).
Senza rendersene conto, infatti, rifuggendo ancora una volta le mezze misure, Savicevic riuscì a garantirsi un posto nella squadra rossonera che tornò dalla Magna Grecia con la Coppa dalle grandi orecchie al seguito. Avvenne quasi per caso, proprio a causa di uno dei suoi numerosi comportamenti dettati dall’orgoglio. Accadde quando Dejan, dopo la sua prima, deludente stagione nelle fila del “diavolo” milanese, si rifiutò di partire in prestito verso altri lidi: «o mi cedete per sempre o resto e gioco!». E Berlusconi non ebbe dubbi in proposito: non solo si oppose categoricamente alla sua cessione, approfittò dell’occasione per rinnovargli pubblicamente la propria fiducia, risultando per l’ennesima volta profetico: «Dejan l'ho scelto io, è un campione e vedrete che lo dimostrerà». E quando il 18 maggio 1994 Dejan contribuì a fare in modo che il Milan calasse ad Atene un sontuoso poker sul presuntuosissimo Barcellona allenato da Cruijff (avverando, di fatto, la profezia qualche tempo prima pronunciata dal presidente del Milan), tutti ne presero definitvamente atto: milanesi e catalani assieme, ma soprattutto, il portiere blaugrana Andoni Zubizarreta, uccellato con un preciso pallonetto partito dalla fascia laterale destra del campo.

E allora oggi, che giustamente si parla tanto del mancato Pallone d’Oro assegnato a Lewandowski, non si può rimanere indifferenti di fronte allo scippo subito in passato da Savicevic, perché anche il montenegrino avrebbe sicuramente meritato di ricevere il più ambito riconoscimento individuale previsto al mondo per un calciatore. Due volte forse. Certamente quella volta in cui la Stella Rossa sconfisse l’Olympique Marsiglia in finale di Coppa dei Campioni a Bari. In quell’occasione, nella speciale graduatoria redatta annualmente dalla rivista francese France Football, Dejan giunse clamorosamente secondo, alle spalle del suo futuro compagno di spogliatoio, Jean Pierre Papin. L'attaccante dell'OM trionfò sul montenegrino con un tale vantaggio, che la gente di Belgrado e Podgorica considerò quella votazione un affronto. Naturalmente, anche Dejan non la prese affatto bene, ma non recriminò troppo contro la decisione presa dai giornalisti. Alla patriottica classifica stilata dalla giuria nominata dalla rivista francese, Dejan rispose con un laconico: «mah... non mi sembra molto giusto».

Ed in effetti, giusto non lo era affatto, ma forse era scritto nel destino che sarebbe andata così. D’altronde, non esiste al mondo nessun’altra categoria altrettanto predisposta a rimanere incompresa quanto quella dei geni.
E Savicevic un genio lo era davvero.