Nel cuore della Bosnia, tra il 1992 ed il 1996, il male prevalse sul bene e sfigurò l’unico posto al mondo in cui la gente poteva camminare pacificamente tra chiese, sinagoghe e moschee: Sarajevo. A distanza di anni, la minaccia che la città possa venire investita da un nuovo conflitto è ancora reale. La storia della scuola calcio Bubamara, a prescindere da come sia andata a finire, dimostra infatti che la multietnicità è ancora malvista dai politici locali.

«Vorrei davvero sapere che cosa pensano, ma proprio non riesco ad entrare nelle loro teste» - sospira Ivona, nome di fantasia di una delle ragazze protagoniste del documentario “Sarajevo, the living and the dead”, filmato dal regista croato, Radovan Tadic, nel 1993.

Guardandola, non si direbbe affatto che Ivona sia bosgnacca. La sua chioma biondo cenere ed i suoi tratti delicati farebbero pensare a tutt'altre origini. Invece, Ivona è una delle tante discendenti delle popolazioni balcaniche che si sono convertite all'Islam durante la dominazione ottomana ed è per questo che, mentre parla, ha gli occhi lucidi, gonfi di lacrime inesplose. Nel momento in cui Tadic la intervista, infatti, ricorre il primo anniversario dell'inizio dell'assedio di Sarajevo.
Mentre Ivona viene ripresa dal regista, alcune violente sparatorie si susseguono in breve lontananza ed Ivona è visibilmente agitata, ma non sono gli echi dei proiettili dei cetnici ad angosciarla. Evidentemente, ad un anno esatto dallo scoppio delle ostilità, ormai si deve essere abituata a quei suoni sinistri, preludio di ulteriore distruzione e morte. No, c'è qualcos'altro che la turba. Il suo sguardo triste, infatti, si posa sulla realtà circostante in cerca di risposte. Inquadra il presente, ma legge nel passato. Indaga i sorrisi dei tanti conoscenti che hanno preso parte alla sua esistenza lasciandole un bel ricordo, come a volersi sincerare della loro genuinità. Si raffigura i loro volti come se fosse ancora in loro compagnia, quando invece, nella piccola stanzetta in cui si trova, appena illuminata dalla luce calda e fioca di una debole lampada, è rimasta a lungo isolata, sola in compagnia del suo dolore.
Ivona si domanda che ne è stato di tutte le persone che hanno arricchito la sua vita. Se sono ancora vive e cosa pensano. Vorrebbe soprattutto sapere che fine hanno fatto gli amici con cui ha condiviso le gioie ed i dolori della sua gioventù; i compagni del liceo con i quali non ha più alcun contatto da tempo. È preoccupata per loro. Spera che stiano tutti bene, ma allo stesso tempo, ha paura che anche loro possano aver deciso di utilizzare le armi contro i bosgnacchi; che siano irrimediabilmente cambiati e che un domani potrebbe non riconoscerli più, trasfigurati come l'agglomerato urbano che si estende al di fuori del suo appartamento. Al di là del suo rifugio precario, infatti, la capitale bosniaca ha mutato aspetto. È diventata irriconoscibile. La vecchia Sarajevo, l'unico posto al mondo in cui la gente poteva camminare pacificamente tra le chiese, le sinagoghe e le moschee, sentendo contemporaneamente le campane ed i canti dei muezzin, non esiste più. Nell'arco di 365 giorni, la città è stata ripetutamente violentata e ora sanguina copiosamente. È una copiosa emorragia di laterizi, vetri infranti, carcasse d'auto e blocchi di cemento rovinati al suolo...
Niente si è salvato dai proiettili dei cetnici, i soldati che combattono per la “grande Serbia”.
Le strade, prese di mira dai mortai, sono piene di voragini. Gli edifici, anche quelli più massicci, sono stati sventrati dalle bombe e dai colpi d'artiglieria. Alcuni sono stati orribilmente mutilati, altri hanno cambiato colore, anneriti dal fumo provocato dalle esplosioni, oppure arsi dagli incendi. Altri ancora, crivellati di colpi, appaiono simili a delle vere e proprie gruviere. Tantissime case sono ridotte in macerie. Eppure, molte persone non hanno potuto abbandonarle. Non hanno fatto in tempo. E tra la povera gente rimasta intrappolata in città, si aggirano anche tanti serbi.

«Laggiù, nel quartiere serbo, le luci sono accese. La gente ci abita ancora – indica Ivona - sono persone in carne ed ossa. Persone che ci odiano per il gruppo etnico al quale apparteniamo» - afferma sicura.

La odiano perché è bosgnacca e quindi musulmana, sostiene Ivona. Del resto, non ha tutti i torti. Credere in Allah è una colpa gravissima per chi è appostato sulle colline circostanti: uomini e donne serbi guidati dal generale Mladic, a sua volta comandato dal politico Karadžić.
I soldati della Repubblica Srpska sono a centinaia e sparano ad ogni bersaglio mobile che si aggira per le vie del centro. Fanno fuoco persino sui cani, se vi è carenza di materiale umano da colpire. Ed il bello è che tra questi spietati assassini, fino a poco tempo prima, si nascondeva anche una persona che Ivona reputava una cara amica.
La traditrice lavorava in un'azienda ospedaliera. A gennaio del 1992, prima che il conflitto esplodesse in tutta la sua violenza e crudeltà, si era presa un mese di ferie, ma non era andata in vacanza. Aveva usufruito del tempo libero per ricevere l'addestramento militare necessario per prendere parte attivamente alla battaglia. Fino a fine marzo, mentre in città venivano erette le prime barricate, aveva rassicurato Ivona che non se ne sarebbe mai andata di casa, “perché tanto non c'era di che preoccuparsi, nessuno avrebbe sparato, era impossibile”, quando, in realtà, aveva già pianificato di recarsi al fronte il giorno seguente. L'avrebbero pagata 500 marchi a vittima (questo era il valore che le forze della Repubblica Srpska attribuivano alla vita di un bosgnacco) e forse si sarebbe anche arricchita in fretta, se solo i miliziani della Repubblica di Bosnia ed Erzegovina non l'avessero catturata...
Ivona non l'ha mai perdonata e non è mai riuscita a comprendere come abbia potuto compiere un gesto simile, ma alcuni individui sono anche questo: per la supremazia della propria etnia sarebbero pronti ad ingannare chiunque, anche gli amici più intimi.

«Non posso credere che tutti i serbi, dal pastore analfabeta allo scienziato, la pensino allo stesso modo. Come può essere? Forse è l'odio che li unisce...» - a causa del comportamento della sua ex amica, Ivona ha perso ogni residua fiducia nei serbi, ma non avrebbe dovuto smarrirla, perché anche tra loro è sopravvissuto un briciolo di umanità. Non tutti i serbi rimasti nella capitale bosniaca, infatti, sono pronti a spararle addosso. Qualcuno di loro è rimasto a Sarajevo per difendere la propria casa, la propria attività ed i propri amici, combattendo al loro fianco ed al fianco dei bosgnacchi. Qualcun altro, come l'ex stella dell'Fk Sarajevo, Predrag Pašić, non ha imbracciato le armi, ma si è messo a disposizione della comunità facendo ciò che gli riesce meglio: insegnare calcio ai bambini, per ridare alle loro esistenze una parvenza di normalità. Perché in fondo, l'essere umano non è tagliato per vivere costantemente in preda alla paura, ogni tanto ha bisogno di svago; di sollievo psicologico, e figuriamoci se, a maggior ragione, non ne hanno bisogno i bambini.

«Sono nato a Sarajevo, e qui ho sempre vissuto - dice Pašić - Non ho mai desiderato andarmene. Allo scoppio della guerra ho scelto di rimanere qui, con i miei concittadini. Mano a mano che passavano i giorni, pensavo a cosa potessi fare per loro. Io ero un calciatore, la gente mi conosceva per quel motivo: ho giocato a lungo per l’FK Sarajevo, con la Jugoslavia ho partecipato ai mondiali di Spagna. Con alcuni amici ho pensato, ‘creiamo una scuola di calcio’. Per dare un segno di normalità, per fare capire che la vita andava avanti. Siamo andati a fare l’annuncio alla radio: ‘Predrag Pašić apre a Sarajevo un’accademia per futuri campioni’ – “Bubamara” [“Bubamara” significa “coccinella”, nda.]. Pensavamo che non sarebbe venuto nessuno. Al massimo ci aspettavamo sei, sette persone. [E invece], si presentarono in più di duecento».

L'iniziativa di Pašić riscuote un successo inimmaginabile. Ancor più incredibile se si pensa che il campo di allenamento dei bubamara boys si trova a Skenderija, a due passi dal fronte, e per raggiungerlo è necessario attraversare un ponte costantemente tenuto sotto tiro dai cecchini cetnici. Tuttavia, in città la voglia di giocare è ancora tanta e non sono soltanto i bambini musulmani ad avvertirla (bambini come Ervin Zukanović, poi calciatore professionista in Italia, con Chievo, Sampdoria, Roma, Atalanta, Spal e Genoa), la avvertono anche molti ragazzini serbi e croati, per l'immenso stupore di Predrag: «fuori ci si sparava, per queste differenze. Io insegnavo loro che erano proprio queste a renderci forti. Insegnavo loro a pensare come una squadra.».

Pašić insegna ai suoi ragazzi esattamente ciò che gli aveva insegnato Karadžić quando quest'ultimo aveva lavorato come motivatore per l'Fk Sarajevo: «non riuscirò mai a capire cosa sia successo a Karadžić. Per me esistono due persone: uno è il preparatore psicologico che [...] ci insegnava ciò che anch’io, oggi, tento di trasmettere ai miei ragazzi: che la nostra diversità è una risorsa. Che siamo tutti parte della stessa squadra e che, come squadra, si vince. L’altro Karadžić è quello che è purtroppo passato alla storia, il leader dei cetnici [processato all’Aja]. Sono due uomini che non hanno nulla in comune. Non saprò mai cosa ha spinto l’uno a diventare l’altro, è una domanda che mi porterò nella tomba».

Pašić si pone le stesse domande che si era posta Ivona durante l'assedio. Cosa spinge qualcuno a cambiare così tanto? Ad utilizzare le armi contro i suoi stessi vicini di casa? A rinnegare il suo stesso passato di persona per bene e socialmente integrata? Sono domande a cui non è facile fornire una risposta, forse perché, nel caso dei Balcani, alla base del ricorso alla violenza non ci sono soltanto motivazioni razionali, c'è dell'altro. C'è un astio atavico che solo coloro che appartengono ai principali tre gruppi etnici che popolano la Bosnia possono capire. Un astio che dura da un millennio e che, a quasi 30 anni di distanza dallo scoppio della guerra e a 27 anni dall'accordo di pace di Dayton che la chiuse, non è ancora tramontato.
La tensione tra le varie etnie che popolano il Paese, infatti, è ancora alle stelle. I bosgnacchi spingono perché al governo centrale vengano devoluti più poteri, forti del fatto che la loro etnia supera il 50% della popolazione totale. Al contrario, i serbi della Repubblica Srpska, nonché i croati-bosniaci, rivendicano maggiori autonomie e sotto questa duplice spinta accentratrice e federalista il resto della popolazione si sta ulteriormente frammentando. Si tratta di un processo in corso da tempo, sicuramente già dal 2014, quando Pašić, intervistato a proposito dello stato di salute della sua scuola calcio disse: «Dal 2001, ci siamo sempre allenati in un campo vicino all’aeroporto, nella municipalità di Ilidža. Era un campo di proprietà di una vecchia impresa pubblica jugoslava, fallita negli anni ottanta. C’è sempre stata molta confusione, dopo la guerra, riguardo al catasto e alle proprietà immobiliari. Per anni abbiamo sfruttato la possibilità di allenarci lì. Abbiamo investito dei soldi, circa 500 mila marchi (250.000 euro), per realizzare gli impianti, gli spogliatoi… poi all’ufficio comunale ci hanno garantito la possibilità di metterci in regola pagando un condono di 30.000 marchi, che io ho regolarmente sborsato. Eppure, alla fine di aprile [2014, nda.] il sindaco di Ilidža, Senaid Memić (SDA) ci ha sfrattato. Non è la prima volta che si cerca di mettere ai margini la mia scuola con delle scuse».

“Ci ha sfrattato perché mi chiamo Predrag e sono serbo”, accusa Pasic nel 2014. Del resto, L’SDA (partito tradizionale bosgnacco, nda) aveva la maggioranza nella municipalità e delle fortissime connessioni con l’FK Sarajevo. «Qui è tutta politica, anche nel calcio purtroppo. Da quando ce ne siamo andati noi, i nostri impianti sono utilizzati regolarmente dalle giovanili dell’FK Sarajevo. È piuttosto ironico, considerando che si sta parlando della mia vecchia squadra, della quale sono stato la bandiera. Ma questi sono i tempi».

Tempi duri, che a distanza di 7 anni e mezzo da quando Pašić rilasciò queste dichiarazioni, non sembrano essere affatto migliorati, né per lui, né per il Paese. Non è facile, infatti, capire cosa sia successo alla Bubamara di Sarajevo (il sito della scuola calcio non è più raggiungibile e gli ultimi aggiornamenti su facebook risalgono proprio alla metà di luglio del 2014, quando Pašić lanciò le sue accuse). Né è facile stabilire se occorre prendere sul serio le minacce formulate dal membro serbo della Presidenza tripartita della Bosnia ed Erzegovina (nonché leader dell'Unione dei socialdemocratici indipendenti, SNSD), Milorad Dodik, il quale si è detto pronto a proclamare l'indipendenza della Repubblica Srpska dalla Federazione, se le forze di governo bosgnacche non accetteranno le sue richieste (su tutte, la restituzione alla Republika Srpska di alcune competenze trasferite alle istituzioni centrali, in particolare quelle riguardanti le forze armate della Bosnia Erzegovina).
Dodik, però, formula le sue minacce periodicamente, ogni qual volta gli altri partiti discutono il trasferimento di nuovi poteri al livello centrale, pertanto, secondo il premier croato Zoran Milanović non sussisterebbe nulla di cui preoccuparsi. A suo giudizio, è altamente improbabile che in Bosnia Erzegovina scoppi una nuova guerra: i tre principali gruppi etnici che la popolano sarebbero troppo poveri per potersela permettere. “Potrebbero combattere soltanto lanciandosi castagne”, dice.
Ciò nonostante, la storia insegna che il passato tende spesso a ripetersi e, forse, una delle “bubamare” che portavano tanta fortuna alla capitale, ormai non esiste più, spazzata via da chi a parole promuove una società multietnica, ma in realtà non la desidera.