Oggi 2 ottobre del 1935 nasceva a San Nicolas de los Arroyos Enrique Omar Sivori, uno dei più grandi talenti della storia del calcio. Quando nel 1965 l’allora presidente del Napoli Roberto Fiore prelevò il fuoriclasse argentino dalla Juventus, “el cabezon”, soprannome attribuitogli per le dimensioni della testa che spiccava sulla sua figura esile, aveva già espresso il meglio delle sue potenzialità e realizzato il suo periodo di gloria maggiore. Nel club torinese, dove era arrivato all’età di soli 21 anni andando a comporre un trio d’attacco esplosivo col gallese Charles e l’italiano Boniperti, Sivori aveva infatti segnato quasi 170 reti in otto stagioni, vinto 3 scudetti, 3 coppe Italia, 1 titolo di capocannoniere e il prestigioso riconoscimento del Pallone d’oro. Ma quel folletto che calcava il prato verde coi calzettoni sempre abbassati era genio e sregolatezza. Raffinato e sublime artista in campo con i suoi dribbling e i suoi tunnel beffardi con i quali si divertiva ad irridere i malcapitati avversari, ma anche carattere inquieto, collerico, vendicativo, incline a facili e rancorose reazioni che gli costavano spesso pesanti turni di squalifica (alla fine della sua esperienza italiana avrebbe collezionato ben 33 turni di squalifica). Soprattutto, come tutti i geni, non amava troppo il sacrificio e le regole. Pertanto, quando sulla panchina bianconera si sedette Heriberto Herrera, tecnico paraguayano che della disciplina faceva il suo dogma di lavoro, le cose cominciarono a mettersi male per il nostro angelo ribelle che era invece abituato ad allenarsi, a mangiare e a uscire di sera come pareva a lui.

Ne approfittò, come si diceva, il Napoli, risalito nell’estate del 1965 dal Purgatorio di due campionati in serie B. In quegli anni la squadra azzurra era ben lontana dalla dimensione di grande realtà nazionale ed europea che avrebbe raggiunto nei decenni successivi. Il presidente Fiore era animato da grande passione ma il vero proprietario della dirigenza azzurra era don Achille Lauro, armatore dell’omonima flotta, di fatto più interessato ai suoi poliedrici interessi di imprenditore, editore ed esponente politico nazionale di primo piano del Partito monarchico che alle vicende sportive. E’ risaputo, però, che la passione della “città del sole” regna da sempre sovrana intorno ai colori azzurri. Quale migliore cassa di risonanza della squadra di calcio poteva esserci allora per portare acqua al mulino degli affari del navigato Comandante! E in siffatto quadro la strategia più efficace risultava essere proprio il colpo di mercato ad effetto che serviva alla proprietà per rinvigorire le proprie promesse di grandezza futura ma che, quasi mai, portò a risultati degni di nota. Se compri Sivori la gente ti ama e ti vota. Se poi, nello stesso anno, prendi dal Milan anche Altafini assurgi al rango di capopopolo. Cosicchè quando i due campioni sudamericani giunsero a Partenope, prima l’aeroporto di Capodichino per il centravanti brasiliano e poi la stazione di Mergellina per il “10” argentino furono invasi dalla passione di migliaia di tifosi che cominciarono a sognare lo scudetto. Coniando i versi iniziali della canzone “Torna a Surriento”, uno dei testi di maggiore spessore lirico della tradizione canora classica napoletana, la gente cominciò a cantare: “Vide Omar (‘o mare nella canzone) quant’è bello, spira tantu sentimento”, la fantasia è stata sempre una delle note di maggior vigore di questo popolo.

Lo scudetto ovviamente non arrivò perché intorno ai due fuoriclasse ruotava una squadra modesta, composta per lo più da umili comprimari, ma quegli anni rappresentarono i primi bagliori che videro il Napoli affacciarsi nell’elite del panorama calcistico nazionale e dare fastidio alle grandi tradizionali. Sivori avrebbe lasciato Napoli durante il campionato 1968-69 in seguito a una delle sue squalifiche dopo un parapiglia nel corso di una partita con la Juventus al San Paolo. Non portò lo scudetto, ma portò e lasciò in eredità la fantasia del suo calcio funambolico, artistico, irridente che ben si sposava con le caratteristiche della città che trionfalmente lo aveva accolto e ne aveva accompagnato le gesta. Soprattutto rappresentò una sorta di “Annuncio” perché, qualche anno più tardi, dalle nostre parti sarebbe sbarcato un altro argentino, anch’egli angelo ribelle, anch’egli genio e sregolatezza. Ma quella sarebbe stata un’altra storia, una storia di vittorie e di trionfi, una storia intramontabile che ancora oggi vive e che sempre vivrà, al di là di eventuali future affermazioni, nel cuore di coloro che l’hanno assaporata domenica dopo domenica, una storia che si chiama “DIEGO”.