Non c’è relazione tra sentimento e ragione. Cuore e cervello interpretano quasi sempre la realtà da punti di vista distanti. Il calcio muove le nostre passioni e, quindi, risulta spesso impresa ardua conferire una dimensione razionale a fatti e comportamenti che vengono troppo spesso analizzati solo sotto l’effetto delle nostre pulsioni. Risiede probabilmente nella complessità di questo atavico dualismo la posizione fortemente critica che una parte della tifoseria del Napoli, una delle più appassionate d’Italia, sta esprimendo negli ultimi anni nei confronti dell’attuale dirigenza.

Per uno come me che segue le sorti della squadra azzurra da mezzo secolo lo scetticismo che accompagna molti tifosi appare un po’ surreale. La mia formazione classica mi ha sempre portato a non nutrire molta simpatia per tutto ciò che ha a che fare con formule matematiche, ma i numeri hanno una caratteristica, quella di costituire dei dati e i dati difficilmente possono mentire o essere confutati.

E allora facciamo un po’ di conti.

Nella sua storia quasi centenaria, prima dell’avvento alla presidenza di Aurelio De Laurentis e fino al 1984 (poi spiegherò il perché indico in quell’anno un’importante linea di demarcazione), il palmares del Napoli ci dice che gli azzurri hanno vinto 2 Coppe Italia (1962 e 1976). In quegli anni abbiamo vissuto annate indimenticabili, come il triennio 1973-76 che ha visto sulla nostra panchina il tecnico brasiliano Luis Vinicio (il primo, insieme all’allenatore della Lazio Tommaso Maestrelli, ad aver affrancato il calcio italiano dai dettami utilitaristici insiti nel suo dna), abbiamo visto calcare il palcoscenico del San Paolo campioni indimenticabili come Altafini, Sivori, Juliano, Zoff, Clerici, Savoldi, Krol, abbiamo anche sfiorato lo scudetto in svariate occasioni, ma i trofei vinti sono stati unicamente i due sopracitati e, nella maggior parte dei casi, i campionati del Napoli hanno fatto registrare anonimi piazzamenti finali a centro classifica. Eppure bastava una vittoria in trasferta che la domenica successiva allo stadio accorrevano 80.000 spettatori.

Nell’anno di grazia 1984 (ritorno a quell’anno) il Napoli prelevava dal Barcellona un giovane Diego Armando Maradona e da quel momento cominciava un’altra storia perché, nei 7 anni di permanenza del fuoriclasse argentino, vinciamo 2 scudetti, 1 coppa Italia, una coppa Uefa, 1 supercoppa italiana e arriviamo due volte secondi e una volta terzi nella classifica finale del campionato nazionale. Ma quegli anni costituiscono un capitolo a parte, perchè c'era in campo una specie di marziano che faceva la differenza quasi da solo (ricordo che Maradona nel 1986 vinse il Mondiale giocando in un’Argentina poco più che mediocre e che, a detta di tutti i critici, se avessi messo quel Maradona in qualsiasi delle prime 10 nazionali di quella competizione, quella nazionale avrebbe vinto il Mondiale).

La cattiva gestione economica di quel periodo di fasti e vittorie costò, però, negli anni a seguire prima due retrocessioni sul campo nella serie cadetta e poi il successivo fallimento con conseguente mortificante retrocessione in serie C.

Nel 2004 il presidente De Laurentis rileva il Napoli e in 3 anni lo riporta in serie A. Dopo un paio di annate di assestamento il Napoli si piazza in pianta stabile nei quartieri alti della classifica e, negli ultimi 10 anni, consegue 4 secondi posti e 3 terzi posto, partecipando costantemente alla Champions League. Ma è anche un Napoli vincente, arrivano infatti 2 coppe Italia (2012 e 2014) e una supercoppa italiana (2015) e se non riesce a riportare lo scudetto all’ombra del Vesuvio è solo perché si ritrova sul proprio cammino una Juventus più forte oltre che insaziabile e famelica.

Tirando le somme, il patron De Laurentis potrà risultare anche antipatico e, spesso, ci riesce molto bene soprattutto per un tipo di comunicazione difettosa, ma gli va riconosciuto l’indiscutibile merito di aver raccolto il Napoli dalle ceneri e di averlo collocato nell’élite del calcio italiano e in una posizione di rilievo nel panorama europeo. Oggi tutto questo potrà apparire scontato, fino a qualche anno fa era nella sfera dei sogni.

Lo si accusa di avere il braccino corto, di non voler fare il passo decisivo verso la conquista di una vittoria importante, dimenticando che passi falsi oggi non sono ammessi e che una gestione finanziaria oculata è l’unica strada per restare competitivi nel tempo e non costituire delle occasionali meteore, soprattutto per le dirigenze indigene che non hanno le potenzialità economiche di strutturati gruppi finanziari stranieri che, peraltro, non mi pare abbiano conseguito, allo stato, risultati apprezzabili.

A volte mi chiedo cosa dovrebbero dire i tifosi di squadre come Milan o Inter che hanno una storia molto più luminosa della nostra e che sistematicamente si piazzano alle nostre spalle negli ultimi anni. Eppure San Siro ha fatto registrare il pienone per la prima di campionato dell’Inter con il Lecce, per l’esordio di campionato con la Sampdoria invece l’entusiasmo a Napoli sembra tiepido.

Fatte salve le difficoltà di carattere finanziario che impongono a molte famiglie altri e più importanti tipi di priorità, è proprio lo strisciante scetticismo che è poco comprensibile.

Sarà che il possesso di certezze alla fine genera abitudine e alza l’asticella delle proprie aspirazioni, ma non siamo il Real Madrid e arrivare secondi non è poi così male, anche perché ad andarci tante volte vicini prima o poi l’obiettivo viene centrato.