"Ho visto Maradona, ho visto Maradona" era il refrain di uno dei nostri canti la domenica allo stadio. Ancora fino a ieri lo canticchiavo a mio nipote per trasmettergli la tua meravigliosa memoria che non mi ha mai abbandonato. Da domani lo farò con rinnovato amore. Non so se in questo momento, però, ci riuscirei perché ora la voce è rotta dal pianto: “o mamma, mamma, mamma sai perché mi batte il corazon? Ho visto Maradona, ho visto Maradona, oh mammà innamorato son”.
Quanti ricordi, Diego.
Ero tra le 80.000 persone, quel luglio del 1984, che accorse al San Paolo solo per darti il benvenuto. Ci emozionasti già a quel primo incontro, proprio come succede per i grandi amori, accade tutto in un attimo. E tu pure barcollasti per l’emozione e la sera confessasti alla tua amata Claudia: “aiutami, Claudia. Aiutami a sopportare questa gigantesca onda di amore, aiutami a non deluderli. Aiutami, perché sono così simili a me”.

Sì, Diego, eri così simile a noi e non ci hai mai delusi. E non ci hai mai delusi non per le vittorie sportive che ci hai regalato, ma perché eri uno di noi, con le tue debolezze, le tue fragilità, i tuoi difetti che ti rendevano umano perché, se no, saresti stato un marziano.

Ricordo la domenica in cui superasti le leggi della fisica e con una traiettoria impossibile infilasti l’incrocio dei pali della porta di Tacconi, mandando il portiere bianconero a sbattere con la testa sul palo nel vano tentativo di intercettare la punizione a due in area. Non indietreggiava alla distanza regolamentare la barriera juventina e allora tu dicesti a Pecci: “toccami la palla che faccio gol lo stesso”.
Erano 12 anni che mancava quella vittoria e tu l’avevi promesso nel giorno della presentazione: “Sono venuto per battere la Juventus e vincere lo scudetto”.
Quella domenica pioveva a dirotto e io smontavo da un turno di notte. Mi misi in macchina da Roma, senza nemmeno riposare un po’, con una sola meta nella testa: lo stadio San Paolo, quello stadio che ora illumina la tristezza di una città in zona rossa per salutarti. Lasciai l’auto all’uscita della tangenziale alle spalle della curva B. Di solito la parcheggiavo nei pressi della metropolitana a tergo dell’altra curva, ma il traffico era già impazzito nonostante mancassero ancora più di due ore all’inizio della partita e preferii lasciarla in una posizione insolita. Non ci crederai ma, quando uscii dallo stadio, la gioia era così forte che quel particolare lo avevo completamente rimosso e fui costretto a compiere la circumvallazione dello stadio, facendo il doppio del cammino sotto una pioggia ancora battente, prima di raggiungere la mia autovettura.

Quanti altri ricordi potrei citare, forse un giorno scriverò un libro per raccogliere le emozioni che mi hai regalato. Ora sono solo confuso, smarrito, in preda a un senso di vuoto che mi disorienta.
Lo so, molti non capiranno, perché nessuno potrà mai capire il rapporto viscerale che esisteva tra noi, la tua Napoli, e te. Forse qualcuno ci ammonirà anche con le sue sentenze, con le solite diagnosi sociologiche da dotti, medici e sapienti. Lasciate perdere, è qualcosa che va oltre la logica, oltre la ragione: si chiama amore.

Te ne sei andato, mio eterno amore, ma io continuerò a cantare: “o mamma, mamma, mamma, ho visto Maradona”, perchè, anche quando la morte bussa alla porta, l'amore resta sempre un'onda alta sulle onde.
Riprenderò a cantare domani, però! Forse.
Ora non ci riesco, ora la voce è rotta dal pianto.
Ciao Diego, amore mio.