Pablo Ruiz y Picasso, indiscusso protagonista della pittura del XX secolo, paragonava i colori ai lineamenti del viso che seguono e si adeguano ai cambiamenti delle emozioni. Già gli antichi Egizi conoscevano la vis positiva che i colori potevano esercitare sul nostro corpo e sul nostro spirito ed oggi sono noti gli effetti benefici della cromoterapia, per quanto la comunità scientifica, tradizionalmente resistente e ostile a qualsiasi forma di medicina alternativa, non ne riconosca l’efficacia.

“Vedere il mondo a colori”, “guardare la realtà in bianco e nero” non sono soltanto dei modi di dire, rappresentano degli stati d’animo che influenzano le nostre emozioni e attivano i nostri processi comportamentali.

Trasferendo questo assioma alla nostra esperienza di spettatori di eventi sportivi, nello specifico del gioco che maggiormente cattura le nostre fantasie e le nostre emozioni, è di tutta evidenza come l’entrata in scena del colore nelle trasmissioni televisive conferì, nel lontano 1977, un ulteriore e rinvigorito impulso alla nostra passione e alla nostra emotività.

Quando entrai, ancora bambino, per la prima volta in uno stadio, la prima immagine che affascinò i miei occhi fu la vista del prato verde. Rimasi a lungo a guardarlo, rapito come quando il nostro sguardo si abbandona all’incanto di un paesaggio panoramico. Colorate erano anche le magliette dei giocatori, gli striscioni dei tifosi, i tabelloni pubblicitari. Era tutto più reale, più vivo, più intenso e quel mondo per la prima volta mi apparve colorato e non a diverse tonalità di grigio come lo avevo sempre visto in televisione.

Un bambino di oggi, credo, potrebbe sorridere divertito a queste considerazioni. E’ incredibile come cose, che nell’attualità sono più che scontate, in un determinato momento del passato abbiano costituito delle rivoluzionarie novità.

E una sofisticata innovazione fu appunto, quell’anno, potersi specchiare nei colori degli schermi dei vecchi televisori a valvole.
I miei genitori dovevano badare ad altri tipi di priorità e non c’era molto spazio per il superfluo, cosicchè il testimone del progresso tecnologico dell’epoca, il nuovo tv color, fece il suo ingresso in casa nostra solo un anno dopo. La mia emozione, mentre il tecnico collegava fili e spinotti, era quella di un bambino che scartoccia un giocattolo a lungo desiderato.

Correva il tramonto del mese di maggio del 1978, nemmeno a dirlo il 2 giugno la nazionale italiana avrebbe fatto il suo esordio nei mondiali argentini. Fu sicuramente l’imminenza di quell’evento ad indurre mio padre a quella spesa extra-bilancio.
La sorte ci aveva inserito in un girone difficile con l’Argentina padrona di casa, la Francia di un emergente ma già temuto monsieur Platini e l’Ungheria temuta outsider. Tutto sommato era una buona notizia, tradizionalmente gli azzurri facevano sempre bene quando non partivano con i favori del pronostico e male quando erano accreditati come protagonisti.

I risultati e le prestazioni delle gare amichevoli che precedettero quella competizione non erano stati incoraggianti. Alla vigilia del Mondiale il C.T. Bearzot estrasse dal cilindro il coniglio magico: fuori Maldera e Graziani e dentro i giovanissimi Cabrini e Rossi.

Mai intuizione risultò più indovinata.

Debuttammo contro la Francia e non cominciò benissimo, dopo solo un minuto Lacombe portò in vantaggio i transalpini. Ma l’Italia reagì e cominciò a giocare bene, sembrando una lontanissima parente della squadra svogliata di qualche mese prima. Rossi e Zaccarelli firmarono il sorpasso: 2-1 per noi.

Nella seconda partita battemmo 3-1 l’Ungheria e ci apprestammo ad affrontare l’Argentina a pari punti e a punteggio pieno. Entrambe le squadre erano già qualificate, si trattava solo di giocarsi il primo posto nel girone.

Qui, secondo me, l’errore strategico che ci costò il mondiale. La vincente del girone restava a Buenos Aires a disputare i quarti di finale, la seconda migrava a Rosario. Scendemmo in campo con la formazione titolare tralasciando la possibilità di concedere un turno di riposo a molti titolari, opzione che forse sarebbe potuta tornare utile in una competizione dai ritmi serrati. Vincemmo quell’inutile partita con una meravigliosa rete di Bettega a seguito di una spettacolare triangolazione con Rossi e ci rendemmo invisi a un intero Paese per il fatto di aver allontanato la nazionale di casa dalla capitale argentina.

Ironia della sorte, quella vittoria ci catapultò in un girone più ostico con Germania Ovest, Olanda e Austria.
Iniziarono bene anche i quarti di finale: 1-0 all’Austria. Nella seconda partita il portiere tedesco Maier probabilmente aveva ancora nella sua testa il ricordo del gol del 4-3 di Rivera nei supplementari dell’Atzeca e compì più di qualche miracolo, mettici qualche palo di troppo a fermare gli attacchi azzurri e finì 0-0.
Nella partita decisiva affrontammo l’Olanda.
La nazionale arancione non aveva più Cruijff e non era più lo squadrone di quattro anni prima, ma restava una formazione molto temibile. Dominammo in lungo e in largo il primo tempo, avremmo meritato di condurre 3-0 ma riuscimmo a chiudere i primi 45 minuti in vantaggio di un solo gol. Nella ripresa Zoff perse memoria di essere uno dei migliori portieri al mondo e incassò due reti con tiri da distanze siderali.

Una sconfitta incredibile per l’andamento della partita che significò l’amara eliminazione da una finale che avremmo meritato. La finalina di consolazione con il Brasile non consolava nessuno e perdemmo anche quella.

Tornammo a casa con tanta amarezza ma con la consapevolezza di avere una nazionale giovane e forte.
In quella tristezza stava germogliando il seme del trionfo spagnolo di quattro anni dopo.