Un mattino, al risveglio da sogni inquieti, Gregor Samsa si trovò trasformato in un enorme insetto. Sdraiato nel letto sulla schiena dura come una corazza, bastava che alzasse un po’ la testa per vedersi il ventre convesso, bruniccio, spartito da solchi arcuati; in cima al ventre la coperta, sul punto di scivolare per terra, si reggeva a malapena. Davanti agli occhi gli si agitavano le gambe, molto più numerose di prima, ma di una sottigliezza desolante. «Che cosa mi è capitato?» pensò. Non stava sognando. La sua camera, una normale camera d’abitazione, anche se un po’ piccola, gli appariva in luce quieta, fra le quattro ben note pareti.

I più attenti avranno riconosciuto in queste parole l’incipit de La Metamorfosi di Franz Kafka, caposaldo della letteratura europea. Kafka, in buona parte della sua produzione letteraria, dipinge come nessun altro (anche in maniera più o meno implicitamente autobiografica) l’alienazione, la depersonalizzazione e l’angoscia dell’uomo moderno ed in particolare del funzionario pubblico dell’Impero Prussiano che, schiacciato dall’imponente, ingombrante e disorientante burocrazia, finisce per sentirsi (e risultare effettivamente) inadeguato per compiere il proprio lavoro, smarrendo anche se stesso.
I più attenti sapranno (anche perché l’hanno letto poche righe sopra) che il protagonista del racconto si chiama Gregor Samsa e che la vicenda è ambientata a Praga, città dell’Impero Prussiano. Eppure, vi assicuro che non è così. Il protagonista si chiama Mesüt Özil, la vicenda è ambientata a Londra e descrive metaforicamente l’alienazione, la depersonalizzazione e l’angoscia del trequartista classico che, schiacciato dalle accortezze tattiche, dalla rapidità e dalla fisicità del calcio moderno, nel campionato più all’avanguardia del pianeta, finisce per sentirsi (e risultare effettivamente) inadeguato per svolgere i propri compiti, smarrendo anche sé stesso.
Se volessimo attingere dalla letteratura italiana, invece, si potrebbe tranquillamente immaginare Mesüt come uno dei personaggi del Ciclo dei Vinti di Giovanni Verga, lentamente ma inesorabilmente travolto dal progresso, dimenticato indietro come un Mastro don Gesualdo qualsiasi.

L'alienazione del trequartista classico

Mesüt Özil, trentadue anni, tedesco di origini turche, all’Arsenal dal 2013, vedrà scadere il proprio contratto a giugno 2021 e sarà finalmente libero di scegliere la sua prossima destinazione. In carriera ha giocato 381 partite su 506 da trequartista, segnando 71 gol e fornendo 159 assist. È stato, ed è tuttora, un giocatore d’altri tempi: elegante, tecnico, geniale, ma anche silenzioso, apparentemente svogliato, malinconico. Fra il 2013 e il 2018 il suo valore si aggirava attorno ai cinquanta milioni di euro. Oggi ne vale cinque: un decimo. Con la maglia dei Gunners, in tutte le competizioni, ha totalizzato 254 presenze, 44 gol e 77 assist. Nella sua ultima grande stagione, 17/18, ha realizzato 5 gol e 14 assist in 35 partite. Poi, un mattino, non ci è ancora dato sapere quando, Mesüt, al risveglio da sogni inquieti, si trovò trasformato in un enorme insetto. Qui inizia il suo lento, inesorabile e prematuro declino: un gol e tre assist nella stagione da poco conclusa, mentre in quella attuale non è stato inserito in lista. Non gioca dal 27 giugno (37 partite, 191 giorni) per presunte noie fisiche, o forse sarebbe meglio dire contrattuali, alla schiena. Al netto di ciò, anche nelle ultime stagioni che ha giocato è sembrato inadeguato, perso totalmente, schiacciato dalle magnifiche sorti e progressive del calcio moderno fatto di pressing alto, costruzioni dal basso, ripartenze veloci e tanta, tanta, tanta corsa.

Özil non è l’unico ad essersi perso negli ultimi anni ma se per lui, trentaduenne, il tempo, forse, è scaduto, gli altri possono ancora aspirare a ritrovare loro stessi. Parlo di Isco ed Eriksen, entrambi ventottenni, nel pieno della loro carriera. Lo spagnolo è al Real Madrid dal 2013: 318 partite, 51 gol e 55 assist. Nella sua ultima grande stagione, 2017/18, ha realizzato 9 gol e 10 assist in 49 partite. Poi è iniziato un tracollo graduale che lo ha portato, nella stagione in corso, a giocare 11 partite, senza segnare e fornendo una sola assistenza. Nel 2018 valeva novanta milioni di euro. Oggi ne vale venti: meno di un quarto.

Il danese è all’Inter da gennaio 2020 e da ormai un anno ha a che fare con i dogmatici isterismi tattici, efficacissimi, per carità, di Antonio Conte e del calcio italiano in generale. Il meglio di sé l’ha fatto vedere quando vestiva la maglia del Tottenham (anche lui a Londra, come Özil), dove però sono anche iniziate le sue fatiche. Con gli Spurs ha totalizzato 69 gol e 89 assist in 305 presenze, giocando soprattutto da trequartista, ma anche da esterno destro, mezz’ala e mediano. Nella sua ultima grande stagione, 18/19, culminata con la finale di Champions, ha realizzato 10 gol e 19 assist in 54 presenze. Per la verità, nemmeno il 2019/20 è stato da dimenticare (11 gol e 9 assist fra Tottenham e Inter) ma ora è finito fuori dai piani di Conte e dovrà presumibilmente cercarsi una nuova squadra, difficilmente di livello superiore al suo Tottenham. A fine 2018 era valutato 100 milioni e sembrava vicino al Real Madrid. Oggi ne vale 35: poco più di un terzo.

Infine, nella lista dei trequartisti in cerca di senso (stilata forse in ordine di bravura in termini assoluti e forse anche in ordine di possibilità di ritorno ad alti livelli), va inserito anche un giovane, giovanissimo per essere considerato una vittima del calcio moderno. Anche lui, casualmente, lo troviamo a Londra. Dele Alli è inglese, ha 24 anni e gioca nel Tottenham dal 2015, con cui ha realizzato 64 gol e 56 assist in 233 partite. È il classico trequartista inglese: ha i colpi del fuoriclasse, è un po’ troppo discontinuo ed è un po’ pazzerello, non a livello dei famigerati ed affascinanti Mavericks, ma quasi. Nella sua ultima grande stagione, 17/18, appena ventunenne, fece registrare sui tabellini 14 gol e 17 assist. Poi un inspiegabile quanto imprevedibile declino, culminato con l’arrivo di Mourinho in panchina, col quale non è mai scattato l’amore. Nella stagione corrente ha totalizzato solamente due gol e un assist in 11 partite e probabilmente cercherà di cambiare aria prima di febbraio. A maggio 2018, dopo la finale di Champions conquistata, valeva 100 milioni. Oggi ne vale 38: significativamente meno della metà.

Tre modi di essere un trequartista moderno (più uno)

Nella carriera di questi quattro calciatori c’è un anno che segna un punto di svolta, in negativo. È il 2018 e coincide con l’ascesa definitiva della filosofia di Klopp che, nella sua versione più attuale, non prevede l’uso del trequartista, casualmente. L’ex allenatore del Borussia Dortmund arriva al Liverpool nell’ottobre 2015 ma le cose iniziano ad andare fantasticamente proprio a partire da gennaio 2018 quando viene ceduto Coutinho, casualmente un formidabile trequartista anche lui (anche se utilizzato nel ruolo di mezz’ala), al Barcellona e quando parte dei soldi guadagnati vengono reinvestiti nell’acquisto di Van Dijk dal Southampton, che in breve tempo diventerà il miglior centrale di difesa del pianeta. Qui nasce il vero Liverpool di Klopp che a maggio arriverà secondo in campionato, a solo un punto dal Manchester City di Guardiola, e secondo in Champions League, sconfitto in finale dai galàcticos del Real Madrid di Zidane. Nelle due stagioni successive i Reds saranno campioni d’Europa, del mondo e finalmente anche d’Inghilterra, per la prima volta da quando la Premier League si chiama così. Il Kloppismo verrà ripreso in tutti i paesi da moltissimi allenatori e declinato in vari modi, sistemi e moduli, sempre però con un comune denominatore: il pressing, alto, a tutto campo ed asfissiante.

Da gennaio 2018 in poi anche il ruolo del trequartista dovrà evolversi, per sopravvivere alla rivoluzione kloppiana, adattandosi alle caratteristiche della nuova maniera di concepire il calcio. Il trequartista non è più un pendolo che oscilla da una linea laterale all’altra in attesa del pallone giusto da trasformare in un’opera d’arte. Diventa un trequartista-tuttocampista: un ossimoro. Deve essere bravo tecnicamente, (magari sacrificando un pizzico di quella costante ricerca estetica in nome della concretezza), forte fisicamente, sapiente tatticamente. Deve muoversi in tutto il campo e legare il gioco, venire in contro a fare il regista, buttarsi in profondità e negli spazi, recuperare palloni, controllare da vicino fino a soffocare il regista avversario, sapersi disimpegnare in più ruoli con uguale efficacia.

Il capostipite della nuova generazione di trequartisti è Kevin De Bruyne, da sempre pedina fondamentale del 4-3-3 del City di Guardiola, seguito in Premier League da Bruno Fernandes, Jack Grealish e Mason Mount e in Bundesliga da Dani Olmo. In Serie A, colui che interpreta il ruolo nella maniera più moderna è Calhanoglu, vero e proprio dominatore tecnico, fisico e tattico del centrocampo rossonero, ma è in ottima compagnia: Luis Alberto, Papu Gomez e Mkhitaryan su tutti ma anche Zielinski, Pessina, Zaccagni eccetera eccetera. Si tratta di giocatori molto diversi tra loro ma che in un modo o nell’altro soddisfano perfettamente le richieste che il nuovo calcio pretende dal loro ruolo. Non c’è ovviamente solo un modo di essere un trequartista moderno, anzi se ne possono individuare almeno tre (più uno), che variano non tanto in funzione delle caratteristiche dell’interprete, quanto in base al modulo ed al sistema di gioco a cui l’allenatore lo catechizza. Li potremmo chiamare così: il trequartista effettivo, il trequartista dislocato e il doppio trequartista, più il trequartista tattico.

Il primo tipo, il trequartista effettivo è probabilmente in Europa quello più frequente. Se volessimo tradurlo in numeri, potremmo farlo corrispondere a quei moduli che prevedono un trequartista dietro una o due punte, quindi sostanzialmente il 4-2-3-1 e il 4-3-1-2. Fra le prime dieci posizioni della classifica della Serie A troviamo tre squadre che utilizzano questo sistema: il Milan di Pioli con Calhanoglu, il Napoli di Gattuso con Zielinski ed il Sassuolo di De Zerbi con Djuricic. In Inghilterra invece il gruppo è molto più nutrito: il Mancheter Utd di Solskjaer con Bruno Fernandes, il Leicester di Rodgers con Maddison, l’Everton di Ancelotti con James Rodriguez prima e Sigurdsson poi, l’Aston Villa di Smith con Grealish, solo restando fra le prime dieci in classifica. In Spagna troviamo invece solo il Betis Siviglia di Pellegrini con Fékir, mentre in Germania i due Borussia: il nuovo Dortmund di Terzic con Reus ed il ‘Gladbach di Rose con Stindl.

Il secondo tipo, il trequartista dislocato, consiste invece nel decentrare il trequartista della propria squadra verso un ruolo generalmente più esterno, mimetizzandolo, evitando che venga ingabbiato, ma anche caricandolo di compiti tattici con l’obiettivo di non perdere equilibrio. In Italia questo sistema è utilizzato dalla Lazio di Inzaghi, nella quale Luis Alberto gioca da centrocampista centrale, leggermente decentrato sulla sinistra, con risultati fantastici, e dalla Juventus di Pirlo, con Ramsey che fa l’esterno sinistro di centrocampo, con risultati meno eclatanti ma, a detta dello stesso Pirlo, di grande utilità. Negli altri campionati è più difficile individuare sistemi di questo tipo. In Inghilterra, al Chelsea, Lampard ha trovato in Mount, se non il suo erede, sicuramente una pedina di grande affidabilità e duttilità: gioca sempre, in qualunque ruolo (ala destra, ala sinistra, mezz’ala e, a mio avviso, in futuro, anche centrocampista centrale) e sempre con prestazioni quantomeno sufficienti. In Spagna Koeman le sta provando tutte per risollevare le sorti del suo Barcellona. La sua ultima trovata è stata quella di abbassare il giovanissimo canario Pedri a fare la mezz’ala destra del suo spregiudicato 4-3-3 di stampo necessariamente Cruijffiano. In Germania, infine, Dani Olmo fa l’ala destra nel Lipsia di Nagelsmann, mentre al Bayer Leverkusen, complice anche l’infortunio di Palacios, il (fin troppo) visionario Bosz ha abbassato sia Wirtz che Amiri, entrambi trequartisti di ruolo, in un centrocampo a tre super offensivo e anche molto spettacolare.

Il terzo tipo, il doppio trequartista di memoria Ancelottiana, viene utilizzato quasi esclusivamente in Italia e consiste nell’affiancare ad un trequartista di ruolo, un trequartista adattato, che può essere un centrocampista centrale, un esterno d’attacco o una seconda punta. Se questo sistema deriva dal 4-3-2-1 ad albero di Natale di Carletto Ancelotti, oggi viene principalmente utilizzato dai profeti della difesa a tre nel 3-4-2-1. In Serie A Gasperini affianca al Papu Gomez – oggi a Pessina – una seconda punta come Ilicic. Il suo più infatuato discepolo, Juric, affianca a Zaccagni a turno uno fra Colley, Salcedo, (seconde punte), e Barak (centrocampista), ma talvolta anche un esterno come Lazovic e un mediano come Tameze. Nella Roma, infine, Fonseca fa convivere un trequartista come Mkhitaryan con un esterno d’attacco come Pedro o all’occorrenza con un centrocampista centrale come Pellegrini.

Il quarto tipo (o meglio, terzo più uno), il trequartista tattico, consiste nel far giocare in posizione di trequartista un giocatore (in genere un centrocampista centrale o una mezz’ala) di grande dinamismo, accortezza tattica e tempi d’inserimento, sacrificando l’inventiva, la classe, il genio e la tecnica di chi normalmente gioca in quel ruolo. Questo sistema ultimamente è molto caro a Mourinho, da sempre un riferimento per la corrente dei risultatisti: prima a Manchester nel 2017/18 con Lingard (19 partite su 48 da trequartista, con 7 gol e 3 assist) ed ora al Tottenham con Ndombélé, che in questa stagione è diventato il titolare del ruolo dopo l’infortunio di Lo Celso e a discapito proprio di Dele Alli. Per lui 14 partite su 22 nel nuovo ruolo, condite da un gol e tre assist.

L'eccezione e la speranza

Nonostante l’evoluzione del ruolo del trequartista come conseguenza dello sviluppo nel calcio moderno, c’è ancora un giocatore che, pur con caratteristiche tecniche, tattiche e fisiche che ormai potremmo definire malinconicamente retrò, riesce tuttora, anche a 31 anni, a interpretare il ruolo magnificamente. Si tratta di Thomas Müller, il capitano del Bayern Monaco campione di Germania e d’Europa (246 gol e 241 assist in 658 partite, tra parentesi), il quale oltre a due piedi da fuoriclasse, una visione di gioco da regista (del cinema però), un grande senso della posizione e un innato fiuto del gol, possiede una caratteristica senza la quale forse nemmeno lui sarebbe riuscito a sopravvivere per così tanto tempo: un’intelligenza fuori dal comune.

È l’eccezione che, oltre a confermare la regola, ci da un piccolo barlume di speranza. Ci fa credere che, forse, l’inarrestabile progresso si ricorderà di quella categoria di giocatori che è l’essenza dell’estetica del calcio e, invece di lasciarla indietro, l’accoglierà fra le sue braccia e l’aiuterà a ritrovare il suo posto e il significato della sua esistenza in un mondo governato dalla disorientante burocrazia della tattica: il calcio moderno.

Fonte per i dati: Transfermarkt.