Come era già noto da tempo, il 2022 si sta rivelando un anno a dir poco particolare per il mondo del pallone. Per la prima volta nella storia ultracentenaria di questo sport, assisteremo ad un campionato del mondo a dicembre, nel periodo invernale. A metà novembre tutte le competizioni per club subiranno un improvviso ed inusuale stop, chiudendo un anomalo rush della durata di tre mesi, per poi ripartire con una sorta di secondo campionato da gennaio. Già di per sé, tutto ciò è quanto meno discutibile. Se giocare ogni tre giorni (con annesse partite di Nations League) per la quasi totalità di questo breve arco temporale può essere piacevole per i tifosi, non lo è altrettato per le squadre di club, le quali stanno già pagando il conto di tutto ciò a suon di infortuni. Infortuni sempre più frequenti nonché gravi (vedi Florenzi o Berardi), figli di un calcio i cui ritmi sono sempre più elevati, con impegni, per l'appunto, sempre più frequenti. Il tutto coadiuvato da una preparazione che non è stata (e non poteva esserlo viste le dinamiche) adeguata.

Quello che però, per più di tutto mi fa storcere il naso (per usare un eufemismo) non è tanto la tempistica del mondiale con annesse problematiche, quanto la sede dello stesso. Potrebbe suonare come un'affermazione discriminatoria ed irrispettosa nei confronti degli Emirati Arabi e del Qatar. In parte lo è, e spero, perdonerete la franchezza e la libertà che mi sto prendendo, ma non riesco a nascondere il mio dissenso e la mia delusione per la scelta di tale realtà come sede del più prestigioso evento calcistico al mondo. Stiamo parlando di una realtà in cui la Sharia è la principale forma legislativa riconosciuta dalla costituzione. Essa viene applicata alle leggi in materia di diritto di famiglia, eredità e svariati atti criminali. 
Detto così sembrerebbe non esserci nulla di male. Per l'appunto... sembrerebbe. Basti pensare che, in diversi tribunali familiari della Sharia, la testimonianza della donna vale la metà di quella di un uomo.
Volendo andare avanti, possiamo "ammirare" come la fustigazione e la deportazione siano tutt'ora usati in Qatar come punizione per il consumo di bevande alcoliche o per rapporti sessuali ritenuti illeciti. Il tutto ben codificato dall'articolo 88 del codice penale.
Ma questo sembra quasi ragionevole se pensiamo che la lapidazione è tutt'ora una punizione legale in Qatar anche se, fortunatamente, non è mai stata utilizzata.
Ovviamente anche la blasfemia ed il proselitismo (la conversione a qualsiasi religione diversa dall'Islam) sono considerati reati e punti con la reclusione tra i 7 ed i 10 anni.
E cosa dire dell'omosessualità? Essa è considerata un crimine in Qatar e, per i maschi consenzienti, si parla di una reclusione fino ai 5 anni. Questo che già di per se è una follia, in verità risulta quasi un atto di benevolenza, considerando come secondo la Sharia si tratta di un crimine punibile con la pena di morte per i mussulmani.

Davvero il calcio vuole portare la sua massima espressione, ossia il mondiale, in un posto così?
Davvero vogliamo vedere i migliori giocatori del mondo esibirsi in questi cimiteri? Sì, perché quelli che per noi sono stadi, per oltre 6000 lavoratori hanno rappresentato la morte. Lavoratori, per lo più provenienti dal sud est asiatico, sfruttati ed usati come carne da macello per realizzare "cattedrali nel deserto" atte ad arricchire chi volutamente ignora l'esistenza dei diritti umani, ancor prima che civili.
A tal proposito, leggendo quanto dichiarato da Infantino in risposta alla denuncia lanciata dal 'The Guardian' sui lavoratori morti in Qatar, si intuisce come la FIFA sia complice silenziosa di questo scempio. Quella stessa FIFA che si batte per la parità, per eliminare il razzismo ed ogni forma di discriminazione sul terreno di gioco e sulle platee. 

Di fronte a tutto ciò non basta limitarsi ad azioni di denuncia come fatto dalla nazionale danese, la quale presenterà due maglie monocromatiche dal colore rosso e nero. E' una presa di posizione da parte dello sponsor tecnico della Danimarca che non accetta le abbaglianti luci della ribalta offerte dal Quatar. Un gesto isolato e, comunque, non sufficiente vista la gravità della situazione.
Rincaro la dose dicendo che, se nel calcio vigessero realmente, anche solo in parte, quei valori che si propone di rappresentare, il mondiale invernale negli Emirati Arabi si sarebbe trasformato in un "one man show" con la sola nazionale qatariota a presenziare a tale manifestazione (ad onor del vero forse, in questo idilliaco scenario, non sarebbe nemmeno stato scelto il Qatar come paese ospitante). Un gesto forte quanto utopico, perché nessun calciatore, nessuna nazionale e nessuna federazione avrebbero mai potuto rinunciare agli introiti ed alla visibilità offerti da un mondiale, anche se ciò significa andare contro ogni principio morale ed etico.
A tal proposito gradirei non vedere più spot e slogan targati  FIFA sull'inclusività e sul rispetto, perché è chiaro che non sono principi cari a questa organizzazione.

Nel mio insignificante piccolo eviterò di guardare, anche solo per un istante, qualsiasi evento legato a questo mondiale.
Lo avrei fatto anche laddove l'Italia fosse stata tra le 32 nazionali partecipanti, perché ci sono principi che vanno ben oltre una partita di calcio della propria nazionale. 
Spero e mi auguro che non sarò l'unico ad eseguire questo boicotaggio (più che altro simbolico), anteponendo dei principi etici e morali a quello che può essere lo spettacolo offerto da un evento meraviglioso come un mondiale di calcio.
Potrà sembrare ipocrita e moralistico tutto ciò ma, personalmente, non capisco come si possa godere di uno evento offerto in stadi sporchi di sangue.