Si dice il calcio sia lo specchio del belpaese da lustri immemori, una perfetta cartina tornasole economico-sociale dello stato di sviluppo o di decadenza di una fu potenza mondiale. Spagna 82 fu il diamante sulla corona del boom economico, Germania 2006 il canto del cigno di una generazione di campioni disperatamente in cerca di eredi, Sud Africa 2010 l’effetto immediato della fine della corsa all’oro occidentale, Russia 2018 e Qatar 2022 l’urlo tombale di morte della nazione. Dall’altra parte un campionato, quello di Serie A che visse gli anni 90 ballando e sbeffeggiando gli altri e che si trova ora ridotto  ad un cumulo di macerie tempestato da scandali e smangiucchiato dalla controparte anglosassone.

Forse la ricerca del perché il talento italiano sembri ormai scomparso va portata avanti proprio in questa direzione, in quella del perché l’Italia sembri arenata ai fasti di un tempo piuttosto che alle speranze del futuro. Lo dico subito, si, c’è un problema talento. Possiamo girarci attorno, possiamo dire che è colpa di tizio o di caio, la realtà è che in Inghilterra, pur se messi in competizione con i fenomeni esteri, i Foden e i Saka escono comunque, qui invece mi viene difficile nominare un qualche ragazzo in grado di fare il grande salto fin da subito e stupire a furia di inventiva, giusto il primissimo Zaniolo o magari Chicco Chiesa, entrambi poi calati rispetto alle aspettative iniziali.

Avrei voluto anche analizzare i problemi strettamente sportivi nella gestione del talento, troppo spesso lasciato a sé stesso in un mare di squali, o di quelli manageriali con allenatori incapaci di rischiare il nuovo ingresso o per motivi ideologici o per paura della gogna mediatica in caso di conseguente sconfitta: sarebbe stato troppo semplice, e ripetitivo.

Il punto è che i giovani italiani non giocano a calcio, bensì si allenano utilizzando un pallone. Due concetti diversi. Fin da piccoli vengono inseriti, pure nei paesi più piccoli, in un ambiente di odio e veleno dove anche a sette anni l’importante è vincere, non divertirsi. In un ambiente che uccide i numeri dieci perché troppo piccoli e magrolini, che strozza la tecnica in favore dello sviluppo fisico precoce e che prevede risse e ingiurie in misura quotidiana grazie al comparto genitori. Quelle due ore trascorse al centro sportivo diventano quindi più un prolungamento della volontà paterna che di quella del figlio, una vera costrizione sempre in cerca del superenalotto vincente, come se un altro essere umano non fosse altro che un possibile mezzo per la ricchezza.

Il ragazzino, però, è testardo, spesso il calcio lo ama veramente e allora, una volta terminato il supplizio, si reca al campetto con gli amici per poter veramente giocare a pallone come vuole. Peccato che il campetto non ci sia più e che sia stato sostituito con un bel complesso residenziale con avvallo del comune. Dovesse invece, miracolosamente, esserci -il campetto-, il ragazzino verrà prelevato forzatamente dalla famiglia per evitare che si faccia male, o che, peggio ancora, venga deviato dai suoi amici "teppistelli". Soluzione? Prendere in mano la play, sempre disponibile e poco problematica.

E così, in poco tempo, anche il più florido dei talenti nascosti sfiorisce, arriva alle superiori e viene annientato dalla didattica nozionistica liceale che gli impone di non poter dedicare più di 2 ore la settimana allo sport per non incorrere in voti di seconda fascia (risultatismo imperante) ovviamente rinchiuso nella sua stanza cupa, mentre all’estero è la stessa scuola a fornire strutture e organizzazioni pur di incitare la permanenza dello studente nelle sicure mura statali.

Ma supponiamo di avere in mano il futuro capitano della nazionale, supponiamo che la famiglia alle spalle sia di supporto e che sia tutto ottimale, cosa potrebbe succedere per fermare un’ascesa altrimenti incontrovertibile? Beh, posso nominare le raccomandazioni, gli infortuni dovuti a campionati giocati fino alla morte, i procuratori-squali, e solo in ultimo, il problematico passaggio al professionismo tramite girandole di prestiti e poca fiducia.

E poi abbiamo i fattori comportamentali con ragazzi che non hanno i mezzi per affrontare cosa li può attendere, voglio nominare in questo caso l’NBA, che con i propri atleti neo-draftati effettua corsi intensivi di money management e aiuta a creargli quella forma mentis che li proietta già in un mondo fatto di adulti, non più di ragazzini. In questo paese invece, dove, di nuovo, la scuola ha perso il suo valore educativo in senso latino e ha preferito concentrarsi sul sufficere, sul mettere dentro, un diciottenne che si ritrova milionario e non ha una famiglia con una certa esperienza alle spalle viene posto sul viale della perdizione, piuttosto che su quella del successo. Vedasi ciò che sta succedendo in questi giorni.

Chiudo lasciando un monito, si è spesso pontificato sul fatto che i calciatori siano ignoranti, non sappiano quando sia nato Dante o che altro. Poco importa. Ciò su cui dovremmo puntare è tirare fuori il meglio dalle persone e creare dei cittadini, e in questo caso calciatori, consapevoli di sé stessi e del mondo che li circonda. Magari questo li porterà a leggere seriamente la Divina Commedia.

P.S: In ultimo, piccolo problema statistico, i ragazzi italiani, di cui faccio parte pure io, sono pochi. Punto. Siamo in un rapporto 2:1 con chi ci ha preceduto e, soprattutto, mentre Francia, Inghilterra, Spagna etc. etc. bilanciano la perdita con l’integrazione di giovani asiatici o africani, noi urliamo non appena viene nominato il fatto che Moise Kean è italiano.