E' trascorso molto tempo ormai, ma ricordo nitidamente quel pomeriggio del 5 novembre 2001. Ero un piccolo tifoso rossonero e la mattinata a scuola era stata condita da vivaci sfottò da parte degli amici di fede nerazzurra: Fatih Terim, infatti, non era più l'allenatore del Milan. In seguito al deludente avvio di campionato, culminato con l'inattesa sconfitta in casa del Torino, il tecnico turco soprannominato "l'imperatore", alla cui corte, non più di qualche mese prima, erano approdati Filippo Inzaghi e Manuel Rui Costa, veniva precocemente esonerato alla decima giornata di campionato.

Nubi grigie si addensavano all'orizzonte, la stagione pareva prematuramente e irrimediabilmente compromessa, a fronte del carico di aspettative e del dilagante ed incontenibile entusiasmo che avevano accompagnato la faraonica campagna acquisti estiva del presidente Berlusconi. Infatti, dopo l'avvincente duello scudetto del 1999, vinto all'ultimo respiro a spese della formidabile Lazio di Eriksson, le annate successive si erano rivelate avare di emozioni per il popolo rossonero, motivo per cui, le grandi manovre di mercato del 2001, erano state accolte come manna dal cielo, restituendo fiducia e riaccendendo le speranze dei tifosi di poter vedere il Milan, ancora una volta, battagliare per la vetta della classifica.

Tutti questi pensieri si addensavano nella mia mente, mentre mi accingevo, non senza una buona dose di pessimismo, ad accendere la televisione per sintonizzarmi sul canale dell'informazione sportiva pomeridiana, così da apprendere notizie fresche sull'investitura della nuova guida tecnica del Milan. Rammento perfettamente il volto di Galliani, intervistato dall'inviato del tg, sereno ed estremamente rilassato, nel presentare il nuovo mister, Carlo Ancelotti.  La frase che più mi colpì allora, pronunciata dall'amministratore delegato, che si stampò indelebilmente nella mia mente, fu la seguente: "Ancelotti è un ottimo allenatore, speriamo ci consenta di ottenere i 144 punti che ha portato alla Juventus nelle due stagioni precedenti".

In effetti, Ancelotti era reduce da due campionati alla guida della Juventus in cui la Vecchia Signora aveva dignitosamente ottenuto, rispettivamente, 71 e 73 punti su 34 giornate. Un ottimo risultato senza dubbio, se non fosse, e fu questo che per certi versi risultò stridere con l'ottimismo di Galliani, per il ricordo ancora fresco dell'amarezza che aveva accompagnato i piazzamenti finali: due secondi posti a vantaggio delle romane, bruciante quello patito nei confronti della Lazio, a causa del rocambolesco sorpasso all'ultima giornata scaturito dalla sconfitta di Perugia, in cui Calori, in regime di diluvio universale, costrinse gli uomini di Ancelotti alla sconfitta per 1-0.

A quel punto l'inviato rivolse qualche breve domanda ad Ancelotti e fu già da quelle prime parole, pronunciate non senza un po' di emozione, che cominciai ad apprezzare innanzitutto l'umiltà e la disponibilità del suo modo di porsi, tratti che sarebbero stati una costante della gloriosa carriera da allenatore finalmente vincente che si apprestava a cominciare, relegando ad una sbiadita e sperduta immagine nella memoria il ricordo delle cocenti delusioni patite alla guida della Juventus, insuccessi che rischiarono di etichettarlo come incompiuto, con l'appellativo di eterno secondo.

La Serie A 2001/2002 si concluse con il Milan al quarto posto, un piazzamento sicuramente al di sotto delle aspettative, ma condizionato dal deludente rendimento delle prime dieci giornate sotto la guida di Terim. Ma fu l'inizio dell'ascesa. Quel Milan, partendo dai preliminari di Champions League, si laureò Campione d'Europa l'anno successivo a Manchester, ottenendo una sofferta vittoria ai calci di rigore proprio contro la Juventus, senza ombra di dubbio lo scenario migliore che il destino potesse orchestrare per i protagonisti, dato che Ancelotti ebbe l'opportunità di riscattare con gli interessi il proprio passato e di raggiungere l'Olimpo del calcio, il tetto d'Europa, proprio a spese della squadra che lo aveva allontanato con forse eccessiva avventatezza.

Stava nascendo qualcosa di importante, la vittoria all'Old Trafford non era stata casuale, l'annata non era stata casuale: finalmente, il Milan pareva aver dato vita ad un nuovo ciclo vincente. Fu proprio in  questo frangente che Carlo diede libero sfogo al suo genio: una delle chiavi del successo del Milan era stato l'adattamento di Andrea Pirlo al ruolo di play maker basso, regista davanti alla retroguardia. Una scelta estrosa e per certi versi rivoluzionaria, in cui Carletto diede prova di grande versatilità e lungimiranza. Pirlo arrivò dall'Inter nell'ambito della campagna acquisti che aveva segnato l'ingaggio di Rui Costa: una convivenza che sarebbe potuta risultare veramente problematica, essendo entrambi interpreti del medesimo ruolo di trequartista, ma Ancelotti trovò una soluzione estremamente elegante per garantirne la coesistenza e allo stesso tempo ottenerne beneficio per tutta la squadra. Fu una mossa devastante. Il Milan imponeva il proprio gioco, i palleggiatori e i registi tessevano costantemente la trama offensiva, tenendo inesorabilmente le redini dello sviluppo dell'azione. La perfetta alchimia venne raggiunta anche grazie al lavoro silenzioso ma imprescindibile dell'infaticabile Gattuso, il muro di centrocampo addetto al recupero della palla, invalicabile barriera e avanguardia dei meccanismi di difesa. Gattuso non era sicuramente un'eccellenza sotto il profilo prettamente tecnico, ma il suo era sicuramente tra i contributi più preziosi, e Ancelotti, con ogni probabilità, avrebbe rinunciato più volentieri ad uno dei palleggiatori piuttosto che a "Ringhio" se, giocoforza, fosse stato costretto a scegliere. Quasi certamente fu in questa fase che tra i due nacque un'intesa speciale, un sodalizio a livello umano e professionale la cui autenticità non sarebbe mai stata scalfita.

Ancelotti completò la propria bacheca dei successi arricchendola con il tanto agognato trionfo in campionato, lo scudetto della stagione 2003/2004. La svolta fu la vittoria in casa della Roma, agguerritissima pretendente al titolo guidata da Fabio Capello, nel giorno dell’Epifania: Roma-Milan 1-2. Nel corso di quell’annata, Ancelotti dimostrò di disporre della fermezza e della lucidità necessarie per reagire alle avversità, anche alle più amare, come si rivelò essere la sconfitta patita in campo europeo ad opera del Deportivo la Coruna, quel 4-0 che estromise precocemente il Milan dalla massima competizione europea. Quell'episodio e l'infausta disfatta di Istanbul del 2005, cocente sconfitta inflitta dal Liverpool autore di una clamorosa rimonta da un passivo di tre reti, sono quasi certamente da considerare i frangenti più bui della gestione tecnica dell'allenatore di Reggiolo.

Paradossalmente, proprio in corrispondenza di quei difficili passaggi, fu possibile apprezzare pienamente la bontà e l'efficacia del lavoro svolto da Carletto. In primo luogo il suo esempio, lo stile: mai una parola fuori posto, disponibilità costante al confronto e al dialogo nel corso delle interviste, anche in corrispondenza delle domande più scomode e delle lecite piccole provocazioni che spesso condiscono le argomentazioni nel confronto giornalistico. Il massimo del disappunto, per così di dire, si sarebbe potuto esplicitare solo in un inarcamento più accentuato del sopracciglio sinistro, curioso e simpatico tratto tipico dell'espressione del suo volto, per poi essere prontamente stemperato in un sorriso. In secondo luogo, la compattezza del gruppo: Ancelotti aveva plasmato la squadra tanto a livello tecnico-tattico, quanto a livello umano. Una delle chiavi dei successivi successi del Milan, che culminarono con la vittoria della finale di Champions League ad Atene nel 2007, fu proprio la capacità di fare fronte comune e di non disunirsi di fronte alle difficoltà. L'ambiente era di tipo famigliare, vi era la consapevolezza di poter fare affidamento, reciprocamente, sui propri compagni e sull'allenatore nel momento del bisogno, il gruppo aveva inoltre i suoi inossidabili punti di riferimento. Maldini stesso ci fornisce una testimonianza del clima di unità e di conforto che si poteva palpare all'interno dello spogliatoio, dichiarando di aver patito forse più di tutti il carico emotivo, la tensione e la responsabilità derivanti dalla consapevolezza di dover vincere a tutti i costi la sfida con il Liverpool nella finale del 2007, la rivincita che il destino poneva, quasi beffardamente, immediatamente a disposizione dopo solo due anni dalla debacle di Istanbul, ma di aver impedito con sforzo sovrumano che l'umana debolezza e l'incertezza si esternassero e fossero percepite dai compagni.

Ancelotti gestiva con maestria i delicati equilibri di questo intricato meccanismo, la cui minima imperfezione avrebbe potuto compromettere il risultato di un'intera stagione. Continuava con diligenza ad instillare la propria idea di calcio e ad assicurarsi che i concetti fossero assimilati adeguatamente. Ulteriore prova della sua genialità, del suo estro, e della capacità di adattamento, fu il perfezionamento del cosiddetto modulo ad "albero di Natale", tanto osteggiato dal presidente Berlusconi, quel 4-3-2-1 con due trequartisti a supporto dell'unica punta che fece le fortune del Milan nel 2007 schiudendo trionfalmente le porte dell'atto finale ad Atene, dopo che andò in scena quella che, per molti addetti ai lavori, è da reputarsi la partita perfetta, il capolavoro ancelottiano: il 3-0 rifilato al Manchester di Cristiano Ronaldo nella semifinale di ritorno di Champions League. Furono proprio le mezze punte, Kaka e Seedorf, a ridosso di Pippo Inzaghi, a determinare quel rimarcabile successo, proiettando inesorabilmente Carletto verso l'apice della propria carriera da allenatore. Una carriera che sarebbe stata in seguito condita da altri importanti successi internazionali nel periodo post Milan, primo fra tutti la conquista della "Decima" Champions alla guida del Real Madrid. 

Tantissimi giocatori e molti campioni sono stati allenati da Ancelotti nel corso degli anni, la stragrande maggioranza si è ritrovata concorde nel riconoscere l'estrema piacevolezza di lavorare sotto la sua guida. Ha dimostrato di non essere esclusivamente un "tecnico" del calcio, un mero conoscitore della materia, ma un abilissimo didatta. Da eccellente "Maestro", si è sempre assicurato che gli insegnamenti, sia in termini di trasmissione di conoscenza calcistica, sia in senso lato, fossero veicolati con profitto e perfettamente assimilati. L'inossidabile presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, dichiarò, dopo aver assistito ad uno dei primi allenamenti a Castel Volturno del mister di Reggiolo, di aver avuto l'impressione di pendere parte ad una lezione universitaria. 


Ancelotti è un maestro a tutto tondo, un docente di calcio che possiede la materia e che, soprattutto, sa come insegnarla. Affronta con il sorriso le difficoltà, le provocazioni e costantemente dimostra che, a prescindere da esse, nella vita non è mai troppo tardi per arrivare alla vittoria.