La passione per la propria squadra è per il tifoso qualcosa di drammaticamente serio. L'affezione che gradualmente si sviluppa nei confronti di quei colori e degli eroi che simboleggiano l'incarnazione di un credo calcistico, si radica fin nelle profondità dell'animo e si rinnova giorno dopo giorno, a prescindere dalle difficoltà. Soprattutto, i volti dei personaggi che nell'immaginario collettivo sono stati elevati al rango di icone, mai si smaterializzano, continuando ad alimentare un sentimento immortale. Il tempo passa, gli eventi possono precipitare, la squadra può trovarsi ad attraversare un lungo periodo di anonimato e desolazione, ma la memoria di quelle icone è come il faro nella notte buia, traccia il cammino e funge da inamovibile ed indelebile riferimento, nonché da speranza per un futuro più roseo.

E' con somma nostalgia e tristezza che mi sorprendo ad indugiare in tali riflessioni, osservando l'incertezza e l'estrema mutevolezza che sembrano caratterizzare il mondo del calcio attualmente.
In un passato non troppo remoto, il calcio era una questione di famiglia.
Il tifoso rilevava un'intima corrispondenza al proprio incondizionato sentimento nei confronti della squadra: come in uno specchio, rintracciava nelle espressioni dei presidenti, gli stessi segni, le medesime contrazioni del volto, prodotto di uno stato d'animo comune. Il presidente era anche un tifoso ed incrociarne idealmente lo sguardo nel corso delle interviste alla televisione, costituiva fonte di conforto anche dopo una sconfitta sul campo. Si era certi che la propria apprensione fosse condivisa, che la squadra fosse in mani salde e che il futuro, di conseguenza, fosse assicurato a prescindere.

Talvolta, il trasporto emotivo dei presidenti stessi, risultava trascendere l'etichetta e la formalità del momento, producendo simpatici siparietti e memorabili perle.
Mi sovviene, quasi cristallino, il ricordo dell'inossidabile presidente della Roma, Franco Sensi, il quale nel corso di un’intervista rilasciata nell’estate del 2002, manifestò tutto il proprio stupore, quasi costernazione, di fronte al rifiuto dell'ultima offerta avanzata dal club giallorosso, nel tentativo di concludere la trattativa di mercato che avrebbe consentito ad Edgar Davids di lasciare la Juventus per approdare nella Capitale. Sensi, frustrato ed esasperato, quasi sofferente in volto, non riusciva a capacitarsi di come la Juventus “avesse potuto rifiutare l’offerta di 13 milioni di Euro più la metà di D’Agostino e…. tutto Lanzaro!”. L’enfasi con la quale aggiunse “……e tutto Lanzaro!” sembrava esternare fisicamente la portata immane di uno sforzo interiore, sottolineato dal tono di voce che risultò essere quasi stridulo nell’esclamazione finale. Se si pensa a Davids, la congruità dell’offerta è in senso oggettivo molto opinabile, certamente; tuttavia, quel che mi colpì allora, fu il coinvolgimento emotivo del presidente. In quel preciso momento, Sensi era fermamente convinto di quel che diceva e tutta la sua persona, l’espressione, la voce, lo sguardo, erano tesi nell’esprimere l’inconfutabilità di quell’idea, in accordo col suo stato interiore: il pathos era palpabile.
Evidentemente, anche quella singola trattativa, era per il presidente una questione di cuore, come tutto ciò che riguardava la sua Roma.

Era una questione di cuore anche per Massimo Moratti e l’Inter, lo era per Silvio Berlusconi ed il Milan, lo è tuttora, per Agnelli e la sua Juventus. Quasi certamente, una delle chiavi del sempre attuale successo juventino è da rintracciare nell’appartenenza del club alla storica famiglia, così come, molto probabilmente, una delle principali cause del travaglio a cui il mondo rossonero e tutto il popolo milanista sono stati costretti, è individuabile nell’inconsistenza societaria divenuta una costante dell’era post-Berlusconiana. Tralasciando l’alone di mistero che aleggia intorno alle dinamiche societarie che hanno contraddistinto il breve intermezzo della proprietà cinese, non pochi interrogativi sorgono relativamente agli attuali avvenimenti. Il fondo Elliott ha rilevato il Milan solo l’estate scorsa ed è innegabile che i vincoli del Fair Play Finanziario, unitamente alle pesanti eredità di passivo di bilancio, abbiano condizionato e continuino a pregiudicare un’evoluzione degli eventi che possa reputarsi fin da subito virtuosa. Ciononostante, si percepisce quasi tangibilmente il distacco tra l’élite che detiene il possesso del Milan e il Milan stesso, una distanza che, di riflesso, si ripercuote sulla bontà e la lungimiranza delle strategie.

Inevitabilmente, il Milan non può che essere una mera questione finanziaria per Elliott, che per definizione è un fondo di investimento. Tuttavia, le scelte operate dai Singer, relativamente all’amministrazione del “patrimonio Milan”, sono alquanto opinabili.

  • Scelta delle figure dirigenziali di rappresentanza e con competenza amministrativa. La figura del presidente Scaroni sembra più vicina a quella di un ologramma: appare e scompare ad intermittenza e molto spesso si ha la sensazione che non ci sia una sostanza a supportarne le dichiarazioni (si prenda come esempio quanto ascoltato in occasione di una delle ultime comparse, relativamente al fatto che il Milan possa guardare la Juve attuale dall’alto delle sette Champions League: molto fuori luogo, soprattutto in relazione ai rendimenti a dir poco divergenti delle due squadre nel recente passato). L’amministratore delegato, poi, quell’Ivan Gazidis che idealmente dovrebbe tessere intricate e altamente proficue manovre di management sulla scorta di quanto proposto all’Arsenal, è un enigma ancora da svelare e le possibilità di ottenere pari successo in Italia, inoltre, sono tutte da verificare. Il contesto amministrativo in cui è stato chiamato ad agire, alla corte dei Gunners, era tutta un’altra storia: in Inghilterra si muovono ingenti somme di denaro, ci sono investimenti consistenti e le società sono più solide grazie a sponsorizzazioni ed introiti sicuramente di portata maggiore, a fronte di quelli di cui possono beneficiare i club italiani. Sorge spontaneo il dubbio che Gazidis sia in grado di ripercorrere al Milan gli stessi passi che gli hanno consentito di affermarsi in terra britannica, soprattutto in funzione degli eterni silenzi sul suo operato e della totale assenza di dichiarazioni o di feedback. Probabilmente, a parità di rendimento, avrebbe avuto più senso risparmiare sullo stipendio del dirigente sudafricano per affidarsi ad una scelta di minor blasone e, con poco sforzo, si sarebbe individuato un profilo di efficienza sicuramente non inferiore.
  • Gli stipendi dei dirigenti. Nel maggio di quest’anno, sono stati resi pubblici gli esborsi relativamente agli stipendi delle quattro figure di riferimento della società per la stagione appena conclusa: Scaroni, Gazidis, Maldini e Leonardo, sarebbero costati, complessivamente, qualcosa come 9,8 milioni lordi. Probabilmente una delle spese maggiori, se non addirittura la maggiore, nel panorama di tutta la serie A.
  • Scelta delle figure dirigenziali con competenze sportive. Questo punto risulta essere uno dei più dolenti, poiché, sebbene la presenza di personaggi direttamente riconducibili al “milanismo”, quali Maldini e Boban (anche Leonardo nella passata stagione, per quanto il suo ricordo come milanista destasse meno entusiasmo) scaldi comprensibilmente il cuore del tifoso, non si può tralasciare il fatto che l’esperienza da dirigente sia tutt’altra questione rispetto a quella da giocatore. Leonardo, nonostante potesse vantare nel curriculum il trascorso societario al PSG, è stato enormemente facilitato nel proprio operato dal quadro finanziario della società di Nasser Al-Khelaïfi: si è trovato a gestore ingenti fondi con estrema libertà ed autonomia. Relativamente a Maldini e Boban, le due bandiere rossonere sono dei neofiti in ambito dirigenziale: ingaggiare dei profili con più esperienza, magari affiancandovi, questo sì, una figura meno esperta e dal forte carico simbolico, in modo da garantire la crescita di quest’ultima, sarebbe stato sicuramente un piano d’azione più accorto e lungimirante.
  • Gestione del mercato. Complici l’incombenza della spada di Damocle del Fair Play Finanziario e un’estrema difficoltà nell’avviare e far decollare il mercato in uscita, il Milan è risultato affetto da un immobilismo pressoché totale in termini di investimenti che fossero veramente funzionali e mirati. Discutibile la cessione di Cutrone, soprattutto a cifre praticamente irrisorie in proporzione agli esborsi medi effettuati per altri giovani talenti in tutta Europa; forzate molte delle operazioni in entrata, che in senso assoluto non possono non apparire come operazioni di ripiego, al netto di quelli che avrebbero potuto e dovuto essere profili qualitativamente più adatti alla causa Milan. Dulcis in fundo, la cronica dipendenza palesata in relazione a tutto ciò che gravita intorno alla potente figura di Jorge Mendes e, soprattutto, ammesso di giustificare nel caso specifico tale condizionamento, il fallimento della cessione di André Silva.

La domanda retorica a questo punto sorge spontanea: se idealmente la gestione famigliare del presidente Berlusconi non fosse terminata, si sarebbe forse arrivati a tutto questo? Più in generale e più concretamente: una proprietà, che fosse stata animata nell’agire da passione profonda e non solo da esigenze di profitto a lunga scadenza, non si sarebbe forse preoccupata fin da subito, a partire dalle prime scelte, di propendere per quelle più adatte a garantire il bene del Milan anche nel breve periodo?

Rimpiango un’epoca in cui erano i presidenti stessi ad incarnare la profondità di un sentimento, di un credo calcistico, un’era in cui le emozioni provocate dalla passione per la propria squadra affioravano anche nelle dichiarazioni più marginali o nella specificità di un evento accessorio, come nel caso del presidente Sensi, arrivando ad incrinare la voce, tale era il trasporto.
L’amore per il club risultava tangibile e si rifletteva in ogni azione. Era una questione sentimentale.

Chissà se tornerà mai, qualcuno, a guidare il Milan amandolo veramente, garantendone così il bene incondizionato.


“L’amore vero vuole il bene dell’amato”, Umberto Eco.