Il calcio, o "il gioco del pallone", espressione dal sapore classico e passionale con cui si è soliti identificarlo, ma in origine associata alla categoria più ampia degli sport cosiddetti "sferistici" (quelli basati sull'uso della palla), è prima di tutto una questione di emozioni per noi tifosi. Non sappiamo spiegare razionalmente come, né perché, ma la fede calcistica è qualcosa che sgorga dentro, che genera quasi un credo, al quale sin da bambini siamo portati a prestare ascolto. E allora cominciamo ad affezionarci a quella squadra, a quei colori, magari seguendo l'esempio di un famigliare o di un amico, per poi sviluppare quell'affezione inconscia così intensa da far addirittura palpitare il cuore.

E' incredibile pensare, allora, come quella che potrebbe erroneamente passare per una semplice simpatia nei confronti di un determinato club, possa produrre un condizionamento fisico concreto: sono ancora scolpiti nella mia memoria, ad esempio, i momenti gloriosi vissuti da tifoso ad ammirare le gesta del Milan allenato da Carlo Ancelotti. Ricordo nitidamente il sudore sulla fronte, il battito cardiaco accelerato e l'eco della voce di Sandro Piccinini, quasi a voler spingere il pallone toccato da Filippo Inzaghi, con una spaccata al limite dell'immaginazione per Super Pippo, fino ad oltrepassare la linea di porta per il definitivo 3-2 in quel Milan-Ajax del 2003. Si potrebbe dire che quel Milan fosse così vincente solo per una questione di testa, di cuore, di caparbietà nel volere raggiungere a tutti i costi il risultato fino all'ultimo respiro, ma a mio giudizio, sarebbe riduzionistico limitarsi ad una spiegazione del genere. Quel Milan ci faceva palpitare perché era determinato a non mollare niente, d'accordo, (basti pensare alla grinta di "Ringhio" Gattuso), ma ci piaceva tanto perché era anche meraviglioso da guardare. Ebbene sì, come in un vero e proprio innamoramento, anche l'occhio vuole la sua parte: l'estetica è ciò che per prima si presenta al giudizio del nostro sguardo quando si incontra qualcuno che non si conosce, ciò che inevitabilmente pone un iniziale sbarramento per poter poi decidere di impegnare, o meno, tutte le proprie energie in una conoscenza più approfondita.

Personalmente ero ammaliato dal Milan di Ancelotti: ciò che apprezzavo di più era la presenza di interpreti in grado di dettare le cosiddette "geometrie" in campo, i famosi numeri 10, una razza che nel calcio moderno sta progressivamente scomparendo. Non è un caso che abbia utilizzato il termine "geometrie", dato che il fantasista, più di tutti gli altri giocatori, deve possedere, in un certo senso, una visione matematica delle dinamiche in campo. Potremmo definirlo il "matematico" della squadra, il più predisposto a sopportare, non per niente, il peso della maglia numero 10, quella che una volta non veniva attribuita così alla leggera, ma aveva un significato e comportava una responsabilità ben precisa. Il 10 puro è quello che anticipa il passaggio, che guadagna il tempo sulla difesa e pertanto rende vana la maggior parte delle tattiche o dei blocchi difensivi, quello che estrae dal cilindro la magia in grado di stravolgere un match e che, con le sue geometrie, contribuisce a portare sul rettangolo verde una realizzazione concreta della manovra offensiva, molto vicina a ciò che idealmente si può pensare come l'azione da manuale.

Carlo Ancelotti è, secondo il mio modesto parere, uno dei maggiori cultori di questa categoria di giocatori, per lo meno ne ha dato costantemente prova nel corso della sua esperienza da allenatore del Milan: ha avuto la geniale intuizione di sfruttare in maniera duplice il ruolo del fantasista, quando ha reinventato Pirlo (inizialmente un 10 puro, un trequartista), playmaker, regista basso davanti alla difesa, con il compito di impostare con qualità già a partire dalle prime battute da cui scaturisce la manovra offensiva. E così il modulo era il 4-3-1-2, o se vogliamo, il 4-1-2-1-2, dove i due 1 sono i matematici della squadra, uno dei quali, strategicamente, in posizione più arretrata. Una delle peculiarità del 10 autentico, a maggior ragione nella veste di playmaker, è quella di disporre di una visione tridimensionale del campo. Per comprendere questo concetto, è sufficiente pensare a quella espressione tipica che fa tanto imbestialire noi tifosi: quando, cioè, si afferma che quel giocatore si è limitato a fare il compitino, vale a dire passare la palla sempre e solo al proprio vicino, diminuendo, ipoteticamente, in modo sensibile il rischio di errore (ahimè molto spesso neanche questo è più vero). Le trame di passaggio determinate da un simile atteggiamento, sono bidimensionali, nel senso che la palla si muove sempre e solo a terra e per brevissimi tragitti. Il fantasista, invece, sfrutta la propria padronanza del gioco del pallone, a livello tecnico e strategico, e immagina traiettorie che si sviluppano nello spazio, passaggi che si alzano da terra e descrivono delle traiettorie in lunghezza, profondità e altezza e raggiungono il destinatario tagliando ampie porzioni di campo, con il famoso contagiri, come si diceva una volta. Le azioni che si strutturano sulla base di questi principi, sono piacere puro da ammirare con gli occhi, caratterizzate da una tale precisione di esecuzione da poter essere paragonate ad una combinazione scacchistica, la cui evoluzione non può che condurre inevitabilmente al successo, sulla scorta di un meticoloso calcolo effettuato a priori. In effetti, il gioco dinamico, mellifluo, che solo i numeri 10 sanno orchestrare, è il più difficile da contrastare per le difese, le quali si trovano sempre nella condizione di essere un passo indietro (in senso letterale e metaforico), a livello di lettura dell'azione.

Nel calcio moderno è sempre più difficile poter apprezzare un simile credo calcistico: molti dicono che mancano gli interpreti, di sicuro c'è che la mentalità sta cambiando. Molte squadre, specialmente nell'ultimo periodo, hanno nel vero senso della parola fossilizzato la propria idea di gioco sul famigerato 4-3-3, un modulo che decentra la manovra e che punta tutto sul ruolo degli esterni, la cui prerogativa diventa poi, paradossalmente rispetto all'idea classica, non quella di raggiungere il fondo e crossare, ma di rientrare e tirare. Il famoso piede invertito che riduce, il seppur sconfinato spettro delle idee di gioco, a quella azione monotona di cui Robben è stato il migliore interprete, ma sulla quale non si può basare il buon esito di un'intera stagione, specialmente se in squadra non si ha Robben. Ben venga, allora, il ritorno al 4-3-1-2 per il mio Milan, dopo l'esperienza, a mio modo di vedere disastrosa, legata all'impiego costante di un cristallizzato 4-3-3 Suso-dipendente, vincente solo in quelle rare occasioni in cui allo spagnolo è riuscita la giocata sulla falsariga dell'azione prototipo di Robben. La speranza è che si possa rievocare quell'idea di calcio tanto gettonata e vincente di qualche lustro fa, in cui la fantasia era al potere e i vari Totti, Del Piero, Pirlo, Rui Costa e molti altri, ci deliziavano e sorprendevano costantemente con le loro giocate, innescando un'azione imprevedibile con un pensiero fulmineo, quell'intuizione che è propria dei veri geni del pallone. Da tifoso, vorrei che si tornasse ad insegnare questo stile di gioco, perché non ritengo verosimile che campioni del genere non nascano più: è una questione di predisposizione che deve essere sfruttata e di capacità che devono essere sviluppate, tramite l'opportuna riconsiderazione ed esaltazione di determinate filosofie di gioco.