A mente fredda
Dopo aver lasciato decantare le emozioni del primo impatto - di felicità, di delusione, di sorpresa, di speranza, di amarezza, di curiosità, a seconda dei punti di vista - che ha avuto la notizia del congedo di Massimiliano Allegri dalla panchina più ambita d'Italia, è il momento propizio per tentare un'analisi a mente fredda della guida tecnica di colui che ha segnato un'epoca della società bianconera. Un'epoca fatta di molte luci, ma anche di ombre, nonostante la scia di trionfi e trofei che lascia dietro di sé.

Chiuso ufficialmente questo capitolo della storia juventina, occorre cercare di distanziarsi dalle più accese reazioni umorali degli ultimi mesi che hanno caratterizzato l'ambiente bianconero, e non solo, in merito alla figura controversa - perché non è uomo che mette tutti d'accordo - del livornese scanzonato che un giorno approdò, quasi per sbaglio, alla corte del calcio sabaudo. 

E' stato un anno burrascoso per la Juventus. Prima il trambusto per l'arrivo inaspettatto e insperato di Cristiano Ronaldo, con tutte le speranze e, come poi si è visto, le illusioni che egli ha portato con sé a Torino. Poi il dominio, quasi umiliante, della Juventus sul campionato italiano, praticamente mai messo in discussione, senza un avversario che abbia neppure tentato di contendere un titolo che sembra diventato ormai ereditario. 

Infine il cammino in Champions, cammino insoddisfacente, bisogna dirlo, nonostante le ottime premesse iniziali (vittorie convincenti col Valencia e a Manchester) conclusosi con la cocente eliminazione ai quarti di finale per opera degli enfants terribles dell'Ajax, non prima di essersi illusi (per l'ennesima volta in questi cinque anni) con la rimonta ai danni dell'Atletico Madrid. 


Un Allegri bifronte
Massimiliano Allegri, con le sue convinzioni, le sue scelte, le sue affermazioni, ha diviso l'opinione pubblica. Da una parte coloro che lo accusano di non produrre un calcio apprezzabile e di non essere riuscito a conquistare il più prestigioso trofeo europeo, nemmeno nell'anno di Ronaldo, dall'altra gli strenui difensori che non vogliono sentire ragioni e si limitano a snocciolare, come un mantra, il palmares dell'allenatore: 5 scudetti, 4 Coppe Italia, 2 Supercoppe... 

Questa doppia faccia della tifoseria juventina, e in generale di tutti coloro che guardano alla figura di Allegri, rispecchia un po' l'ambivalenza dello stesso tecnico pluricampione d'Italia; Non solo nella sua bacheca trofei personale che, per quanto di lusso e comune a pochi, è tuttora incompleta, essendo quell'unico scaffale, ma proprio quello più grande e più importante, ancora desolatamente vuoto. Ma, pur addentrandoci più nel tecnico, ritroviamo ancora un Allegri bifronte: da un lato il successore di Conte, colui che ne ha portato avanti e perfezionato l'opera, rasserenando un ambiente saturo dell'atmosfera adrenalinica portata dal suo predecessore (foriera di successi ma alla fine di quel ciclo stressante) eppure esprimendo un calcio per molti versi simile, seppur con qualche modifica e attenuandone gli aspetti più radicali: insomma il "giovane" e camaleontico Allegri dei primi due anni in bianconero, capace di ambientarsi in un nuovo contesto, quello della finale di Berlino e della clamorosa rimonta per lo scudetto; dall'altro lato della medaglia c'è l'ultimo Allegri, quello delle due stagioni appena trascorse, l'avversario del sarrismo, nemico giurato dell'estetica in nome della concretezza pura, quello che confina il divertimento e la bellezza al "circo" e sicuramente al di fuori del calcio, quello del gioco asfittico, quello del calcio muscolare e poco elegante ma molto pratico di gente come Mandzukic, Matuidi e Khedira.

Nel mezzo c'è il terzo anno, che è un po' uno spartiacque. Il maledetto anno di Cardiff doveva segnare, e ha effettivamente segnato, un po' una svolta nell'evoluzione della squadra. Doveva rappresentare il passaggio di consegne dal contismo (per molti anni un dogma in casa bianconera) all'allegrismo, cioè a un modo di intendere la squadra radicalmente diverso, un modo propriamente e tipicamente allegriano, che doveva essere, almeno nelle intenzioni, un modo migliore. Perché fino a quel punto Allegri si era adattato a situazioni pregresse, continuando il lavoro cominciato da altri, modificando, rattoppando, ricucendo come più gli conveniva. Il suo era stato il lavoro del sarto che rammenda capi già finiti, più che del vasaio che lavora la creta e tira fuori l'opera dalla materia informe. Un tentativo di elaborazione da parte di Allegri di una personale idea e identità di calcio ci fu, davvero, per la prima volta, proprio quell'anno: non a caso fu un anno di grandi acquisti: da Benatia a Higuain, da Dani Alves a Pjanic, ma anche di grandi cessioni: Pogba e Morata su tutti; fu però un tentativo che finì per infrangersi drammaticamente contro uno scoglio durissimo che si chiamava Real Madrid.

Di lì cominciò la parabola discendente di Massimiliano Allegri alla Juventus. L'incapacità di plasmare una squadra e di dargli una sua propria identità, è stata la cifra che ha contraddistinto l'ultimo biennio in bianconero, fatto di continue sperimentazioni sia sul piano del modulo (dal 4-2-3-1 dell'anno di Cardiff al 4-3-3, con incursioni nel 4-4-2 e nel 3-5-2) che della posizione dei singoli giocatori: uno su tutti, Paulo Dybala. Arrivato come punta dal Palermo, il talento argentino è stato via via arretrato da Allegri, fino ad occupare stabilmente, nella stagione appena trascorsa, la posizione di mezzala de facto. Ma si potrebbe citare il caso di Mandzukic, prima adattato a esterno, poi spostato nuovamente centravanti ma con compiti difensivi. E cosa dire di Bernarardeschi, adoperato un po' in tutte le zone del campo, e il cui vero ruolo non si è riusciti ancora oggi a capire (esterno? trequartista? mezzala? attaccante di supporto?)! Per non parlare di tutti i giocatori, spesso anche di un certo calibro, che il buon Max ha rispedito indietro o ha fatto scappare, perché non riusciva ad adattarli alle sue convinzioni: Evra, Dani Alves, Llorente, Tevez, per finire con Cancelo e Dybala che, in caso di permanenza sulla panchina juventina, avrebbe probabilmente accompagnato all'uscita.

Queste continue sperimentazioni, che riflettono la mutevolezza della rosa stessa della Juventus in questo quinquennio, segnalano un problema: la difficoltà a dare una propria impronta alla rosa, insomma, a creare una squadra e non una semplice somma di singoli. La Juve degli ultimi due anni, infatti, è quanto di più lontano possa esserci da una squadra: è più vicina a un accrocchio di individualità, magari molto ben dotate, ma senza un amalgama collettivo capace di indirizzarne le qualità in una direzione ben precisa. 

Allegri, ha finito per accettare questo limite senza cercare più di correggerlo, arrivando persino a rivendicarlo come carattere fondante della sua Juve. L'anarchia, a suo dire, permetterebbe ai giocatori di esprimere meglio la loro inventiva, laddove gli schemi e le tattiche servirebbero solo a imbrigliarne l'estro. Pertanto bisognerebbe preoccuparsi, per lo più, di inculcare nella testa e nelle gambe dei calciatori la fase difensiva, perché a quella offensiva ci pensano da soli. 

Ma questa sua teoria (perché di teoria si tratta, sebbene egli non ami questa parola) si scontra contro la realtà: Nell'anarchia o nel "casino", come lo ha soprannominato lo stesso Allegri, i giocatori sembravano perdersi, parevano disorientati quando si trovavano col pallone tra i piedi, indecisi sul da farsi, incapaci di leggere in anticipo i movimenti dei compagni, timorosi e incerti nelle scelte: questo causava due generi di conseguenze: il notevole rallentamento del ritmo, che permetteva alle difese avversarie di riorganizzarsi e ripartire e gli errori tecnici (spesso bollati dallo stesso Allegri ma attribuiti esclusivamente all'imprecisione dei singoli giocatori) che sono il risultato dell'insicurezza oltre che della scarsa abitudine a sviluppare trame di passaggi e a innescare verticalizzazioni. 

La realtà del campo, checché ne dica Allegri, ha mostrato il contrario di ciò che egli asseriva: sono proprio le squadre meglio organizzate in fase di possesso, oltre che di non possesso, le squadre più allenate e plasmate a una precisa idea tattica di gioco quelle che mettono in grado i singoli di esprimere maggiormente la propria creatività, e in questo senso l'esempio delle inglesi, in particolare il Liverpool di Klopp e il Manchester City di Guardiola, fa scuola.


Pregi e difetti di Allegri
Come abbiamo già espresso in precedenza, il tentativo di Allegri di mettere a punto una squadra a sua immagine e somiglianza non è andato a buon fine. In questo senso non si può parlare di allegrismo così come si parla, ad esempio, di contismo, o di guardiolismo, cioè non c'è ad oggi un modo di stare in campo a livello di squadra riconducibile alle idee di Allegri. Esisono, però, delle pratiche, delle convinzioni e degli atteggiamenti che si riflettono nei comportamenti dei giocatori in campo.

Allegri non è un allenatore capace di dare un'identità di gioco alla squadra, non è Guardiola, non è Klopp, non è Conte, non è Sarri. E non lo sarà mai. Non è certo nella perizia tattica e nella messa appunto maniacale di meccanismi di gioco il suo punto di forza.

La capacità di Allegri è invece nell'adattarsi a un contesto di gioco già avviato, intervenire ritagliandosi un proprio spazio, emendare ciò che c'è da emendare, smussare le asperità, attenuare gli eccessi, togliere ciò che c'è da togliere e aggiungere ciò che c'è da aggiungere, ma conservando l'impianto precedente, senza mai operare rivoluzioni. Questo spiega come mai si sia trovato così bene nella prima fase, quando si trattava di intervenire su una squadra ancora, essenzialmente, forgiata da Conte. E spiega il perché delle difficoltà della seconda fase, quando avrebbe dovuto creare un proprio prototipo di squadra diverso da quelli precedenti. 

Ecco perché il più grande pregio di Allegri è stato proprio, paradossalmente, l'antiallegrismo, il suo essere peregrino a ogni fissità ideologica e a ogni convinzione prestabilita, adattandosi invece ai contesti che via via trovava, contrariamente a quanto ha fatto l'ultimo Allegri, testardamente e pervicacemente convinto dei propri assiomi e deciso a portarli avanti contro tutti e senza riguardo per il contesto in cui operava e spesso anche a dispetto della modernità calcistica. Non è affatto un caso, dunque, se, in ogni squadra che ha allenato, la sua migliore stagione è sempre stata la prima: così al Cagliari (dove raggiunse il nono posto), così al Milan (scudetto) e così alla Juve, l'anno di Berlino, che resta il migliore della sua gestione, andando invece via via peggiorando col tempo.

Il divorzio con la Juventus deciso dalla società era pertanto non semplicemente giusto, ma inevitabile, ed anzi persino in ritardo su quella che è la fisiologica evoluzione di questo allenatore che stava diventano ormai sempre più vittima di se stesso.