Il fuoriclasse è colui che si pone al di fuori del comune flusso degli eventi. È colui che rende pensabile l'impensabile e che riesce laddove tutti gli altri non osano nemmeno – e anzi neanche immaginano – avventurarsi.

Ma nel calcio che ha spesso prevalso negli anni passati e che per molto, troppo tempo, è stato fatto passare come efficace e vincente, talvolta il fuoriclasse è stato relegato un po' ai margini, schiacciato dalla forza bruta del “guerriero”, il quale, eletto non di rado persino a idolo delle curve, tutto muscoli, gambe e polmoni, calcava il campo come fosse un'arena.

Questo almeno finché la Spagna prima e l'Inghilterra poi non ci insegnassero quanto ci sbagliavamo.

Il fuoriclasse è certo amato, nei suoi momenti migliori, ma non di rado mal sopportato dal pubblico nei momenti critici che talvolta attraversa. E dopo esser stato esaltato viene ancor più rapidamente scaricato. Perché il fuoriclasse, contrariamente al “guerriero” che sputa sangue e combatte su ogni pallone, racchiude una complessità spesso inafferrabile ai più. Il fuoriclasse è allo stesso tempo inutile ed essenziale. Le sue giocate travalicano in qualche modo il risultato puro, eccedono la concretezza nuda e cruda. Il fuoriclasse trova soluzioni a cui nessuno penserebbe mai ed evita il pensiero lineare. La sue giocate non possono essere programmate e le sue illuminazioni improvvise non possono essere allenate. Eppure proprio in questo il fuoriclasse coglie l'essenza del calcio, ciò per cui vale la pena di giocarlo e di contemplarlo e ne rivela a pieno le potenzialità e il mistero. “Il fuoriclasse è saggezza e gioventù” per parafrasare Edgar Lee Masters, l'incontro di infanzia e maturità: la spensieratezza e la gioia del fanciullo e la consapevolezza e la concentrazione dell'adulto.

Ma l'equilibrio tra queste due anime è estremamente fragile e rischia di spezzarsi a ogni minimo ostacolo. Ecco perché i fuoriclasse spesso sono incostanti, e perciò sono allo stesso tempo amati e odiati dalle folle. Laddove queste due componenti non sono perfettamente dosate, e una di esse prende troppo il sopravvento, ecco che egli rischia di smarrirsi. Se prevale troppo la parte fanciullesca, incapace di disciplinare il suo talento creativo, finisce per disperderlo e risultare inefficace. Se, al contrario, essa viene soffocata troppo dalla maturità, si incupisce, si deprime e, infine, si inaridisce.

Quest'ultimo è il caso di Paulo Dybala. Sacrificato alle esigenze di un calcio troppo pragmatico, relegato a compiti non suoi, che egli non vorrebbe e non ama svolgere, ha retto discretamente nella prima parte di stagione, grazie al suo enorme talento, ma poi, via via più insofferente al ruolo cui era stato relegato, ha finito per perdere tranquillità e sicurezza sul campo, e la qualità delle sue prestazioni ne ha risentito. Ma ciò era inevitabile. In chi, come chi scrive, è amante dell'estetica e non solo del risultato (come se le due cose, poi, chissà per quale motivo, non possano coesistere) sentire elogiare Dybala per un recupero palla, suscitava un fremito di orrore: non è ciò a cui il dio del calcio lo ha destinato.

Dybala ha bisogno di essere spensierato e di divertirsi, e nell'ultimo periodo era tutt'altro che spensierato e non si divertiva affatto, anzi, a dirla tutta odiava letteralmente ciò che faceva. Lo si vedeva nei suoi atteggiamenti e nelle reazioni nervose che a volte non riusciva a nascondere.

Come si può pretendere che, in queste condizioni, egli si inventi la giocata vincente? Eppure i tifosi, che sanno essere tanto generosi quanto cinici e spietati, non gli hanno mai perdonato il minimo errore. Ed ecco che ora molti di loro ne chiedono a gran voce la cessione, pronti a scambiarlo anche per un piatto di lenticchie o per aborti di giocatori, o al massimo per parodie di campioni, spesso esaltati e gonfiati dai media oltremisura.

Massimiliano Allegri ha cercato disperatamente e testardamente di cucire addosso a Dybala una veste che non gli si confaceva, prima di arrendersi all'evidenza e capire, quando era ormai troppo tardi, che ciò era impossibile. Il “tuttocampista” nel quale Allegri voleva trasformare Dybala era, in parole povere, una sorta di Messi all'italiana. Con un piccolo problema: la Juve non è il Barcellona; e con un problema ancora più grande: Dybala è un giocatore completamente diverso da Messi.

La pulce ama giocare a tutto campo, partire da dietro, farsi trenta metri palla al piede, o smistare per i compagni e poi proporsi in avanti, oppure partire da centrocampo e fraseggiare, seminando tutta la difesa prima di calciare in porta o servire il compagno smarcato.

Nulla di tutto questo si adatta a Dybala. C'è un altro giocatore, invece, cui può essere paragonato la Joya ed è (udite, udite) Alessandro Del Piero.

Sì, è un paragone molto ardito e probabilmente molti lettori a questo punto si saranno già indignati, rivolgendo verso chi scrive le peggiori invettive, ma, se avranno la pazienza di continuare a leggere, scopriranno forse che è una similitudine calzante sotto molti punti di vista.

In primis, i due si somigliano per ruolo e per caratteristiche. Il talento argentino, così come Pinturicchio, è un attaccante di fantasia, ciò che venti o trenta anni fa veniva chiamato seconda punta, ovvero non il classico bomber che vive e respira per il gol e non aspetta altro che l'imbeccata del compagno per depositare la palla in rete, ma un giocatore offensivo che gravita vicino all'area avversaria e che ha nel suo bagaglio tecnico non solo la finalizzazione ma anche la rifinitura, l'ultimo passaggio per il compagno smarcato, insomma un attaccante tecnicamente più dotato in grado di eludere i difensori con le sue giocate. In sostanza, una via di mezzo tra un trequartista (alla Zidane) e una prima punta (alla Inzaghi).

Inoltre, il profilo tecnico dell'attuale numero 10 bianconero è molto simile a quello del suo predecessore: Dybala è un giocatore molto abile nello stretto, un po' di meno a campo aperto, estremamente rapido ed efficace nel breve, non altrettanto sul lungo, dotato di un eccellente dribbling in spazi stretti, ma non si può chiedergli di sorvolare tutto il campo palla al piede come un Maradona o un Messi; dà il meglio di sé se impiegato nel fraseggio breve, palla a terra, nei pressi dell'area, dove poi può arrivare anche alla conclusione con una discreta facilità. Infine è dotato di un sinistro non comune, in grado di calciare in porta con potenza e precisione anche da lontano, sia su azione che su punizione, la sua specialità. Ebbene, non lo accomunano forse, queste sue caratteristiche, proprio a Del Piero? Non era forse anche Alex una mezza punta che agiva preferibilmente sul breve (seppure, poi, in età più matura, migliorò notevolmente anche in campo aperto) dotato di un dribbling funambolico, capace di giocare la palla nei pressi dell'area cercando l'intesa coi compagni, e anche lui abile nel tiro da fuori e su punizione dove spesso ci ha deliziato con le sue perle?

Certo, Del Piero è ormai una leggenda per il tifoso juventino, secondo forse (forse!) soltanto a Platini, e sicuramente Paulo deve mangiarne di polvere prima di raggiungere il suo livello! Ma lo era altrettanto all'età di Dybala? Tutt'altro. Ed è qui che troviamo un altro punto in comune tra i due. Perché anche Del Piero per lungo tempo fu incostante, anch'egli fu amato e odiato dal pubblico, prima della sua consacrazione definitiva. Tutti ricorderanno il grave infortunio che lo costrinse lontano dal campo per ben 9 interminabili mesi. Ma, quando finalmente tornò a giocare, non sembrava più lo stesso. E subito venne messo in discussione da coloro che solo pochi mesi prima lo osannavano. “Svogliato”, “discontinuo”, “sopravvalutato”, “senza personalità”, queste le accuse che gli venivano rivolte. Suonano familiari, vero?

Il 2 luglio del 2000, poi, la popolarità di Del Piero raggiunse forse i minimi storici. Era la finale degli europei di calcio, e l'Italia conduceva per 1-0 contro la Francia, a un passo ormai dalla vittoria finale. Del Piero, a tu per tu davanti al portiere transalpino Barthez, si ritrovò tra i piedi la palla per chiudere la partita, il match point che avrebbe decretato il trionfo degli Azzurri. Ma Pinturicchio, clamorosamente, fallì. Un errore fatale, perché tenne in vita i francesi che riuscirono infatti a pareggiare proprio all'ultimo secondo e, infine, a segnare il gol della vittoria insperata ai supplementari con, (ironia della sorte) colui che avrebbe composto proprio con Del Piero una delle coppie d'attacco più prolifiche della storia della Juventus: David Trezeguet.

Inutile elencare tutte le critiche, spesso ingiuste, che piovvero sul numero 10. Eppure Del Piero seppe gradualmente riprendersi e tornare a stupire il mondo.

Il percorso di Dybala è stato, fino a questo punto, sotto molti aspetti simile. Dopo un esordio fulminante, prima con la maglia del Palermo e poi con quella della Juve (con la quale segnò 23 reti e fornì 9 assist al suo debutto in bianconero) raggiunse l'apice finora della sua carriera verso la fine del 2017, a cavallo tra due stagioni: dalla doppietta spettacolare in Champions contro il Barcellona, fino a una sequenza di reti e giocate funamboliche in campionato nella prima parte della stagione successiva, tra cui due triplette, che gli permisero di concludere quell'anno con 26 reti all'attivo, tuttora il suo record, prima dell'annata deludente appena trascorsa. Ma sebbene i suoi critici non siano disposti a perdonargli l'unica stagione sottotono che finora ha vissuto, i numeri sono chiaramente dalla sua parte: 78 gol segnati finora con la maglia della Juve e 31 assist, 94 reti e 41 assist, invece, se si considerano tutte le sue partite in Serie A. Se prendiamo in esame la carriera di Del Piero fino all'età di 25-26 anni, quindi la stessa di Dybala, cioè fino al 1999-2000, i numeri sono molto simili: 89 gol segnati e 17 assist. Al netto dell'infortunio che lo tenne lontano dai campi per una stagione intera si può dire che non troviamo grande differenza. Non solo, ma il meglio di sé, fino a quel momento, Del Piero doveva ancora darlo, se si escludono la Champions League del '96 e la stagione '97-'98. Dai 26-27 anni in poi, infatti, sarebbe stato un crescendo, fino ad arrivare, punto massimo della sua carriera, alla stagione 2007-2008, nell'immediato post-calciopoli, quando vinse la classifica marcatori della Serie A con 21 reti insieme a Trezeguet, e alla stagione 2008-2009, che tutti ricorderanno per la storica doppietta al Bernabeu, con tutto lo stadio, tifosi del Real inclusi, in piedi ad applaudirlo. Quello fu il culmine della maturità calcistica, umana e professionale per Del Piero. Aveva la bellezza di 35 anni.

E c'è chi sostiene che per Dybala sia troppo tardi per fare il salto di qualità!

Esistono tuttavia della differenze: Del Piero ebbe la fortuna e certo anche la bravura (insieme a tutta la squadra) di vincere una Champions League da giovanissimo, cosa che a Dybala è mancato. Ma se quella finale di Cardiff fosse andata diversamente, noi tutti, forse, saremmo qui a osannarlo. Con i se e con i ma, è vero, non si fa la storia, e tuttavia a volte dei singoli eventi possono condizionare in maniera decisiva una carriera.

Inoltre Del Piero, a differenza di Dybala, non ha dovuto mai sopportare un impiego fuori ruolo, non ha mai dovuto arrangiarsi a fare il centrocampista, se non in circostanze eccezionali e sporadiche (in nazionale ai Mondiali del 2006 giocò alcune volte da esterno). Come sarebbe andata la stagione di Dybala se avesse fatto l'attaccante, cioè se avesse fatto quello che sa fare invece di quello che non sa fare? E quanto potrebbe evolvere, migliorare e perfezionarsi con un allenatore diverso, un allenatore, magari, che imprima un'altra identità alla squadra e che collochi Paulo al posto giusto?

Non avremo risposta a queste domande finché non lo vedremo sul campo. Ma una cosa è certa; le qualità di Paulo non possono essere liquidate così in fretta come fosse uno qualsiasi. Egli merita un'opportunità, le sue innegabili doti lo esigono. Se poi gli amanti del Wrestling preferiscono un'altra tipologia di giocatore, e sono così impazienti di dare il benservito al talento, abbiano almeno la pazienza di aspettare almeno un altro anno. In fondo sarebbe meglio che pentirsi, un giorno, di vederlo trionfare con un'altra casacca.