"Prima ero più rigido. Ero più portato a pensare che la tattica fosse un valore assoluto. Ora so che il bambino che c'è in ogni giocatore non va mai spento. Non va mai represso l'aspetto ludico, quello per il quale il calcio si chiama, appunto, gioco del calcio. Quando un giocatore si diverte rende il doppio, ed è uno spettacolo meraviglioso"

Maurizio Sarri

Il più odiato
Maurizio Sarri non piace ai tifosi della Juve. Gli hashtag #sarriout hanno invaso la rete persino prima della nomina ufficiale del nuovo allenatore. Mai si è vista una tale opposizione nei confronti di un tecnico appena arrivato sulla panchina bianconera. Nemmeno con Allegri, che pur non era gradito ai più per sostituire Conte, si era visto un simile rancore e una tale avversione. Freddezza, diffidenza, nel peggiore dei casi, ma mai si era arrivati a simili parossismi di collera. Negli ultimi giorni l'insofferenza della tifoseria sembra lievemente smorzata, o forse solo sopita, con l'imminente campagna acquisti cui si prepara la Juve, che sta catalizzando l'attenzione di tutti. Ma permane comunque una forte contrarietà rispetto alla scelta operata dalla società riguardo al successore di Allegri. Pesa, in gran parte, la rivalità del recente passato, nel corso del quale Sarri col suo Napoli ha rappresentato la versione più agguerrita dell'anti-juventinità, sul campo e fuori. Nessuno dimentica certe dichiarazioni dell'ex allenatore del Napoli, che se da un lato caricavano ed esaltavano l'ambiente partenopeo, dall'altro innescavano, comprensibilmente, una reazione rancorosa nel pubblico juventino.

Nella sua conferenza stampa di presentazione il neo-tecnico bianconero ha avuto modo di chiarire come certe uscite fossero riconducibili al tentativo di tirare fuori il massimo non solo dalla squadra ma da tutto l'ambiente circostante, al fine di perseguire un'impresa storica e fino a quel momento non riuscita: battere la Juventus, la squadra più forte d'Italia e detentrice da anni del massimo titolo nazionale. Certo, è lecito pensare che all'uomo Sarri non si addica la diplomazia e che certe esternazioni sanguigne siano connaturate al suo carattere. Pur tuttavia non è stata la prima e non sarà l'ultima volta che un allenatore ricorre anche alla provocazione pur di tirar fuori quell'1% in più dai suoi. Come non citare José Mourinho, un professionista di questa strategia espressiva, seppure con stilemi comunicativi differenti rispetto alla spontaneità a volte, se vogliamo, anche un po' naive di Sarri. Il tecnico napoletano ha tuttavia chiarito come quel periodo sia ormai terminato e pertanto sia il caso di accantonarlo e di intraprendere un nuovo percorso per il bene di tutti. Insomma, come direbbero a Napoli, scurdammoce 'o passato. Pur senza rinnegare i suoi trascorsi e la rivalità sportiva nei confronti della Juventus che ha caratterizzato un momento significativo della sua carriera, si è scusato per i suoi eccessi (il famoso dito medio) chiarendo allo stesso tempo come anche certe accese esternazioni non fossero rivolte ai tifosi della Juve in generale, ma a uno sparuto gruppo che lo aveva reso bersaglio di ingiurie ingiustificabili. Da quello che poteva rappresentare per lui un girone infernale, data la spinosità di certi argomenti, Sarri è emerso come un uomo schietto e verace, che ha affrontato tutte le perplessità attorno alla sua figura senza trincerarsi dietro frasi di circostanza o diplomatiche bugie, mostrandosi realmente intenzionato ad andare oltre il suo passato e a migliorarsi, donando tutta la sua professionalità e le sue capacità, come ha ribadito un paio di volte, per la Juventus, così come in passato lo ha fatto contro la Juventus.

Dunque ogni persistente perplessità su questo punto merita di essere accantonata. Non ha più senso, nel calcio moderno, impuntarsi oltremisura su certe simpatie o antipatie nei confronti di alcuni personaggi. Del resto sappiamo bene che, per parafrasare la celebre aria del Rigoletto, “il tifoso è mobile, qual piuma al vento” e fa presto a mutare le sue disposizioni d'animo. Ne è un esempio proprio il predecessore di Sarri: Allegri giunse a Torino nello scetticismo generale e con un certo fastidio da parte della tifoseria che lo considerava ancora come il rivale milanista, per poi ricredersi a fine stagione e giungere riporre in lui la massima fiducia per i successivi tre o quattro anni, per poi nuovamente raffreddarsi fino a chiederne l'esonero, quando il gioco espresso dalla squadra iniziava a latitare. Il giudice supremo, anzi l'unico giudice, è dunque, e sempre sarà, il campo. Se e solo se il suo verdetto sarà positivo, in termini di risultati e di qualità del gioco, di conseguenza la riconciliazione tra l'ex tecnico del Chelsea e i tifosi juventini sarà inevitabile e forse addirittura preludio a una felice convivenza.

Sì, ma ha vinto poco!”
Esistono tuttavia dei dubbi differenti e di natura più tecnica – e pertanto degni di maggiore considerazione – avanzati da molti. Può sedere su una panchina prestigiosa come quella della Juve, si domandano in molti, un allenatore che ha vinto un unico trofeo nella sua carriera? Possiede sufficiente esperienza e carisma per poter condurre una squadra di vertice ai massimi traguardi in Italia e in Europa?

Per rispondere a questa domanda servirà un rapido ragguaglio storico. Mostreremo come non solo è possibile che un allenatore inesperto e con un palmares povero possa guidare una grande squadra con profitto, ma anzi che questa è un'eventualità tutt'altro che remota e a dir poco frequente nella storia del calcio. Basti pensare alla stessa storia del club bianconero; quanti furono i nomi “di grido” giunti sulla sua panchina? Ben pochi. Se si guarda alla storia recente ce n'è solo uno, Capello. Gli altri erano dei perfetti sconosciuti o nulla più che dei tecnici promettenti: Trapattoni, Lippi, Conte... Pronunciare questi nomi oggi fa un certo effetto, ma al momento del loro primo approdo in bianconero il loro prestigio era persino inferiore a quello di Sarri il quale, se non altro, può almeno fregiarsi di una Europa League.

Se si guarda oltre Torino la storia non cambia, ad esempio se si considera il club più vincente al mondo, il Real Madrid, che ci ha talvolta abituato a scelte di allenatori emergenti e tutt'altro che affermati. Il caso più emblematico è quello di Zidane; tutti conoscevano il francese per le sue giocate funamboliche quando era giocatore, qualcun altro, più maliziosamente, lo ricordava per la testata ai danni di Materazzi nella finale del Mondiale; ma certo pochissimi ne conoscevano le doti di allenatore quando sedette per la prima volta sulla panchina dei blancos. L'unica esperienza l'aveva avuta in qualità di tecnico della squadra B del Real. Non certo quel che si dice un curriculum invidiabile. Eppure quel curriculum, nel giro di pochi anni, si sarebbe riempito dei più prestigiosi trofei.

Ma in questa sede prenderemo in esame tre casi, forse i più clamorosi, di allenatori che, partendo da zero, hanno scalato il cielo: Arrigo Sacchi, Marcello Lippi e Josep Guardiola.

Nella stagione 1986-'87 Arrigo Sacchi allena il Parma, squadra che ha condotto dalla Serie C alla B. Affronta in Coppa Italia il Milan di Liedholm e lo batte. Silvio Berlusconi, da poco divenuto proprietario del club rossonero, ha un'illuminazione e decide di portare quello che fino a quel momento era solo un oscuro tecnico di periferia, sulla panchina della propria squadra. Tutti conosciamo il seguito della storia. E di certo molti obietteranno che Sacchi i suoi successi li deve a una rosa formidabile ricca da talenti di inestimabile qualità, perché Berlusconi non si limita solo a cambiare allenatore, ma compra alcuni dei più forti giocatori dell'epoca. E questa è senz'altro una parte della verità. Si potrebbe ribattere che, d'altro canto, esistono allenatori che, pur con squadre altrettanto agguerrite, non hanno vinto lo stesso. Ma anche questo sarebbe solo una parte del vero. Il punto è un altro. Che Sacchi non è soltanto un allenatore vincente. È molto di più. È un innovatore. È l'erede del calcio totale e non a caso si avvale dei migliori calciatori olandesi.

Con una squadra del genere, ci si potrebbe domandare, anche un allenatore meno brillante e con un gioco meno scintillante avrebbe ottenuto gli stessi risultati? Non avremo mai la risposta a un simile quesito. Quel che certo è che Sacchi introduce concetti nuovi per l'Italia e a volte anche per il calcio in quanto tale. Cambia i metodi di allenamento, la preparazione atletica, il modo di stare in campo, il modo di attaccare e di difendere e soprattutto il modo di concepire il gioco nel suo complesso. In un campionato dove regnavano il catenaccio e la zona mista quasi incontrastati il tecnico di Fusignano porta una ventata di aria fresca. Prima di tutto nella fase di non possesso: una squadra tutta raccolta con linee strettissime, una difesa sempre a zona, una linea difensiva molto alta, movimenti sincronizzati dei difensori che mettono costantemente in fuorigioco gli attaccanti. È in questo contesto che Franco Baresi si afferma come padrone assoluto della difesa per la sua intelligenza tattica e la capacità di leggere i movimenti e di guidare il reparto. Il pressing diviene l'arma per eccellenza per trasformare l'azione da difensiva in offensiva: quando il pallone viene perso scatta subito la riaggressione per non dare tempo agli avversari di organizzare l'attacco, in modo tale da avere sempre il controllo del gioco, anche quando non si ha la palla tra i piedi. Gli avversari sono costretti a lottare su un terreno a cui non sono abituati e si trovano inevitabilmente in difficoltà. Quando è in possesso il suo Milan è inarrestabile con i suoi movimenti codificati, la squadra si muove come un tutto unico, ogni volta che un giocatore abbandona la sua posizione viene sostituito dal compagno e così attraverso il gioco corto, reso possibile proprio dall'organizzazione, il Milan conquista il dominio del campo e diventa inarrestabile. Gullit è il grande trascinatore della squadra, per la sua prorompenza atletica, il suo dinamismo e la sua intelligenza che gli permettono di diventare l'interprete ideale delle idee sacchiane.

Ma sia in attacco che in difesa la filosofia è la stessa: I calciatori non sono dei solisti che giocano ognuno per conto proprio ma degli ingranaggi di un sistema che si muove e funziona all'unisono, un corpo unico. È proprio questa filosofia che rende Sacchi indigesto a giocatori, giornalisti e tifosi. Verrà spesso accusato di sacrificare il talento individuale alle sue idee e a un gioco eccessivamente meccanizzato che lascia poco spazio alla fantasia dei talenti. E questo effettivamente diventa quando Sacchi viene nominato c.t. della nazionale: in un contesto totalmente diverso e che funziona secondo logiche differenti da quelle di un club non è più in grado di trasporre quei principi che avevano reso grande il Milan. Ma nel momento della sua più alta espressione il gioco sacchiano ha valorizzato, non sacrificato, i grandi talenti di cui disponeva e di cui non a caso tutti ricordiamo le gesta.

Se l'arrivo di Sacchi al Milan ha rappresentato un momento di rottura, altrettanto si può dire dell'approdo di Marcello Lippi sulla panchina della Juventus.

Il tecnico viareggino presenta molte affinità con Sarri: entrambi toscani, l'uno di nascita, l'altro di adozione, entrambi allenatori del Napoli prima di arrivare alla Juve, entrambi costretti a confrontarsi con la pesante eredità di un predecessore vincente: Allegri, nel caso di Sarri, Trapattoni, nel caso di Lippi. Quest'ultimo approda in bianconero in coincidenza con una mezza rivoluzione societaria che vedrà la composizione della triade Moggi-Bettega-Giraudo. Quando Lippi diventa bianconero a Torino sono abituati allo stile difensivista del Trap, con le sue marcature a uomo dure a morire. Lippi non rinuncerà del tutto ai vecchi concetti; ma Sacchi non è passato invano ed egli saprà costruire un efficace amalgama tra tradizione e modernità. La Juventus propone un calcio spumeggiante e votato all'attacco, con un 4-3-3 fondato sul dinamismo e le doti atletiche dei suoi giocatori disposti sia a difendere che ad attaccare. A questo proposito due attaccanti, Gianluca Vialli e Fabrizio Ravanelli, impersonano perfettamente, nello spirito e nelle qualità, questa giovane Juve lippiana. Non sono semplicemente dei finalizzatori e dei terminali offensivi, ma delle figure chiave che permettono di avviare l'azione e consentono alla squadra di salire, occupando ogni zona del campo. A supportarli la classe di Roberto Baggio. Ma il divin codino, talento purissimo, si accorge suo malgrado che Lippi non è Trapattoni e mal si adatta alle richieste del nuovo allenatore. Non è disposto allo stesso sacrificio e allo stesso dinamismo dei suoi compagni di reparto. Illumina sempre con le sue giocate, ma è pigro in fase di non possesso. Così Lippi decide di lanciare un ragazzo poco più che ventenne, ma nel quale già si intravede l'indole del campione: Alessandro Del Piero. La Juve trova il suo nuovo fuoriclasse e Baggio è ormai di troppo: andrà al Milan.

Nel primo anno di Lippi la Juve torna a vincere lo scudetto dopo 9 anni di astinenza con 10 punti di distacco su Lazio e Parma. Vince la Coppa Italia battendo in finale proprio gli emiliani allenati da Nevio Scala, ma sono questi ultimi a prevalere in finale di Coppa Uefa, unico trofeo di cui il tecnico viareggino non potrà mai fregiarsi. L'anno successivo è quello della consacrazione a livello internazionale. La Juventus si conferma la corazzata inarrestabile che aveva dimostrato di essere in Serie A l'anno precedente: supera agevolmente il suo girone, poi elimina Real Madrid e Nantes, prima di giocarsi la finale con i campioni in carica dell'Ajax di Van Gaal, contro cui i bianconeri trionfano ai rigori, dopo 120 minuti conclusi sull'1-1. Lippi otterrà con la Juve altri quattro scudetti e altre tre finali di Champions, che però questa volta perderà, prima di sedersi sulla panchina della nazionale e diventare campione del Mondo, nel 2006.

Il trait d'union di tutte le sue esperienze è sicuramente la malleabilità: Lippi ha saputo cambiare, rimettere in discussione ciò che sembrava acquisito e adattarsi a mutate situazioni. È passato dal 4-3-3 al 4-4-2 al 4-3-1-2, ha alternato marcature a uomo e difesa a zona, ha mostrato di sapere contrattaccare ma anche di dominare il gioco, ha proposto un calcio fondato sulla verticalità ma che non disdegnava la manovra. Si deve proprio a questa sua malleabilità, questa sua estraneità a ogni integralismo e a questo suo eclettismo se la sua carriera ha potuto essere più lunga di quella di Sacchi e anche leggermente più vincente, non essendo riuscito, l'ex tecnico rossonero, a replicare i suoi successi in nazionale. Ecco un'altra caratteristica dunque che accomuna Lippi a Sarri: come quest'ultimo ha espresso nella sua conferenza stampa, le idee sono importanti, ma esse devono adattarsi al materiale a disposizione, ai giocatori, e non il contrario.

Se Sacchi può essere considerato uno degli allievi migliori del calcio totale, altrettanto può dirsi di Josep Guardiola, cresciuto da giocatore alla scuola di Cruijff. Dopo una stagione al Barcellona B viene promosso sulla panchina della prima squadra, come successore di Rijkaard. Ecco tutta la considerazione che hanno gli spagnoli per il curriculum di un allenatore: prendono il tecnico della seconda squadra e lo mettono ad allenare uno dei più forti club europei. E noi ci chiediamo se una Coppa Uefa possa essere abbastanza per sedere sulla panchina della Juventus! Tra l'altro si tratta di una squadra che solo due anni prima aveva vinto Liga e Champions e che vuole tornare a ripetersi, non certo un club privo di ambizioni. E Guardiola non tradirà le aspettative, anzi, andrà ben oltre, vincendo tre campionati, due Coppe di Spagna e due Champions League in soli tre anni.

Guardiola ha esasperato ulteriormente l'ossessione sacchiana per il possesso e il controllo del gioco. La fitta rete di passaggi che mirano a non perdere il controllo del pallone può apparire ad alcuni a volte stucchevole e troppo orizzontale, ma permette di attirare l'avversario sul portatore di palla, in modo da permettere agli altri giocatori di inserirsi negli spazi così lasciati scoperti. Due o tre elementi seguono sempre il portatore e avanzano con lui, se qualcuno si sposta viene sostituito dai compagni e tutta la squadra può avanzare senza perdere palla. Le formazioni avversarie così sono costrette a disperdere energie non solo fisiche ma anche psichiche, perché la minima perdita di concentrazione può essere fatale e provocare una penetrazione in area. Naturalmente un simile gioco impone degli interpreti adeguati: centrocampisti tecnici di grande intelligenza, visione di gioco e capacità di lettura dei movimenti quali Xavi, Iniesta, Pedro, che non vedono solo il pallone ma anche gli spazi. E sì, poi c'è Messi, ovviamente. La necessità di affidarsi a interpreti con determinate caratteristiche e con qualità tecniche difficilmente reperibili, oltre che di estrema perizia tattica, ha fatto sì che il calcio totale in salsa catalana del Barcellona non fosse riproducibile sic et simpliciter in altri contesti. Sia perché la Bundesilga e la Premier sono diverse dalla Liga, sia perché i giocatori a disposizione possiedono doti differenti, sia perché le altre squadre si sono evolute tatticamente e hanno appreso, almeno in parte, la lezione. Del resto questa è la storia del calcio: ad ogni innovazione seguono delle contromisure che a loro volta richiedono ulteriori innovazioni, e così via. Ma Guardiola non è rimasto fermo alla sua idea iniziale, anch'egli si è evoluto, contaminando i suoi principi, cercando molto più la verticalità e la profondità di quanto il suo Barca non avesse mai fatto.

Il curriculum non è tutto
Questo rapido excursus ci dice una cosa: il curriculum conta poco nel determinare quanto un allenatore sia all'altezza della sfida. Contano molto di più due caratteristiche: in primo luogo la capacità di innovare, di porre in atto delle rotture rispetto al passato o di reinterpretare in modo originale vecchi concetti; in secondo luogo la capacità di essere flessibili, di non intestardirsi in idee granitiche: se le idee si scontrano con la realtà a vincere è sempre la realtà. I principi sono importanti (l'innovazione) ma bisogna anche saperli applicare e calare nei diversi contesti cucendoli sui diversi giocatori come degli abiti di sartoria. Tutti e tre gli allenatori che abbiamo esaminato sono stati a loro modo degli innovatori. Tutti e tre hanno proposto delle idee diverse. Ma mentre Sacchi non è riuscito a essere flessibile, e perciò non è stato in grado di replicare i trionfi dei primi anni, Lippi e Guardiola, due allenatori molto diversi tra loro, hanno saputo, ognuno dal suo punto di vista, rimettersi in discussione e cercare di modellare i loro principi sulle caratteristiche delle loro squadre.

E Sarri? È sicuramente un innovatore: lo testimonia il gioco che ha sempre proposto e su ciò non ci dovrebbero essere grandi dubbi. Ma è anche, e su questo forse c'è più incertezza, un tecnico flessibile? Alcuni lo considerano un integralista, ma non solo egli in conferenza stampa ha respinto una tale nomea, ribadendo che le tattiche si costruiscono partendo dalle attitudini dei giocatori e non viceversa, ma la sua stessa esperienza in Premier testimonia il contrario. Egli ha cambiato, come Lippi, più volte modulo; si è reso conto inoltre che non avrebbe mai ritrovato le stesse condizioni che ha trovato a Napoli. Lo stile di gioco del Napoli, così come quello del Barcellona di Guardiola – fatte le dovute proporzioni, naturalmente – non poteva essere riproposto ingenuamente altrove. Il Chelsea con solisti d'eccellenza come Hazard o Willian non avrebbe mai potuto giocare a uno o due tocchi come il Napoli di Mertens e Callejon. D'altra parte la costante pressione che veniva esercitata su Jorginho, ha imposto a Sarri di cercare soluzione alternative per non vedersi privato dell'unica fonte di gioco.

Che Juve sarà?
Chiunque pensi di vedere una Juve napoletanizzata rimarrà deluso. Proprio per le ragioni sin qui spiegate, non si possono trasferire impunemente meccanismi da un contesto all'altro. C'è sempre uno scotto da pagare. E questo scotto è il compromesso da trovare tra la teoria e la pratica, tra principi astratti che compaiono su una lavagnetta e giocatori in carne ed ossa che corrono su un prato. Non bisogna sacrificare, si badi bene, né gli uni né gli altri, ma armonizzarli. Ed è proprio qui che l'abilità dell'allenatore diventa cruciale.

Certamente vedremo una Juve decisamente più offensiva e votata all'attacco. Una Juve generalmente padrona del campo e molto più incline al possesso palla di quanto non sia mai stato con Allegri. La difesa verrà alzata, e questo è già un cambiamento non banale, perché impone un adattamento dei vecchi giocatori, in particolare di Bonucci, a giocare in questo modo. Impone inoltre l'acquisto di un altro centrale, oltre a Bonucci, appunto, e Chiellini, che sia adatto allo scopo. È per questo che la Juventus sta tentando di assicurarsi De Ligt. Il giovane olandese sarebbe perfetto per Sarri. Con lui e Bonucci la squadra potrà anche impostare da dietro, sgravando Pjanic di questo compito quando è marcato e offrendo quindi più soluzioni. Proprio Pjanic è una pedina chiave e Sarri l'ha già accennato, riferendosi al numero di palloni che secondo lui dovrà giocare. Egli andrà a sostenere il compito che era di Jorginho. Continuerà a giocare davanti alla difesa – escludendo perciò le ipotesi di chi lo voleva veder tornare a fare la mezzala o il trequartista – ma più avanzato e quindi maggiormente propenso a cercare la verticalità, ma anche lo scambio con gli esterni.

Gli esterni offensivi, che possono essere Douglas Costa e Bernardeschi (scordiamoci il Bernardeschi mezzala, a proposito) o Douglas Costa e – con altre caratteristiche più simili a quelle di Insigne, per intenderci – Dybala, si muoveranno in orizzontale, accentrandosi, per lasciare spazio all'incursione dei terzini. Ronaldo farà invece il centravanti. Un centravanti di manovra, ma anche un finalizzatore implacabile, secondo quelle che sono le sue qualità e secondo quanto richiederà la partita. In mezzo al campo, a parte Pjanic, tutto è ancora da decifrare, e dipenderà da come la società intenderà intervenire sul mercato. Del resto anche in attacco e in difesa potrebbero esserci cambiamenti che andrebbero a sconvolgere il quadro.

In ogni caso vedremo una Juve meno episodica e più armonica. L'estetica ne trarrà vantaggio. Alcuni tifosi, abituati a considerare il risultato come un monarca assoluto, staranno già storcendo il naso, ma in cuor loro gioiranno quando vedranno la squadra giocare. E questa sarà l'ultima scommessa di Sarri: persuadere che si può vincere e allo stesso tempo giocare bene. E che, anzi, giocare bene è la premessa più probabile della vittoria.