Dal momento che siamo qui, potremmo anche provare a giocare a calcio
Jurgen Klopp

Una disputa che spesso sorge nel mondo del calcio, trasversale a tutti gli osservatori, dal tifoso, al tecnico, all'addetto ai lavori, è quella intorno al dualismo – vero o presunto – tra bel gioco e risultato. Da una parte i cantori dell'estetica del pallone, dall'altra i fautori del pragmatismo senza fronzoli. Questi ultimi sostengono che la piacevolezza dello spettacolo sul campo sia un accessorio del tutto superfluo a quello che è lo scopo dello sport; mentre gli altri ribattono che uno spettacolo, in quanto tale, perderebbe di significato se venisse meno la sua godibilità.

In realtà si tratta di una rappresentazione mediatica spesso fuorviante: ciò che è davvero in discussione non è il fine, che è il medesimo per tutti, la vittoria, bensì i mezzi attraverso i quali raggiungere questo fine. Ed è proprio intorno ai mezzi da impiegare che si sviluppano differenti teorie e svariati modi di interpretare questo sport.
Potremmo quindi dire, meno banalmente e cercando di raffinare i termini della questione, che da un punto di vista più pragmatico si possa sostenere la totale assenza di correlazione tra il fattore estetico e lo scopo: ossia il bel gioco sarebbe un mezzo inutile, o non sarebbe affatto un mezzo, ma soltanto una variabile indipendente rispetto all'esito dell'incontro. Mentre gli esteti affermano l'esatto contrario: e cioè che esso sarebbe il più efficace mezzo per il raggiungimento del fine, o comunque un mezzo almeno altrettanto efficace rispetto ad altri.

Ma che cosa si intende, di preciso, con l'espressione “bel gioco”?
È difficile dare una definizione univoca, dato che non si tratta di una locuzione specialistica, ma di un gergo popolare e giornalistico, che ha ben poco riguardo per le esigenze tattiche e tecniche di questo sport.

Tuttavia è possibile isolare, in modo analitico, alcuni caratteri basilari che questo termine raggruppa e che sono comunemente sottintesi da tutti i parlanti che lo usano:

  • la prevalenza del possesso palla rispetto al gioco di attesa e di rimessa;

  • la prevalenza della fase offensiva su quella difensiva e la predilezione per un baricentro della squadra alto;

  • la capacità di creare reiterata pericolosità all'interno dell'area avversaria, se non di trovare numerosi gol;

  • la velocità e l'intensità del ritmo;

  • la precisione tecnica nei passaggi e duelli individuali finalizzati a scavalcare o disorientare l'avversario guadagnando campo attraverso virtuosismi (dribbling, finte, colpi di tacco, scambi di prima e giocate varie).

Questi ultimi due punti non sono in realtà indispensabili alla completezza del concetto di “bel gioco”, ma possono esserne ulteriore indizio.

Recentemente il dibattito è stato ravvivato da alcuni avvenimenti sportivi, in particolare lo scontro di vertice dello scorso anno tra la Juve di Allegri e il Napoli di Sarri, dove quest'ultimo è considerato appunto come la massima espressione, in Serie A, del bel gioco, mentre il primo il suo più fiero oppositore. Tuttavia le radici storiche affondano in un passato ben più lontano.

Sicuramente una svolta in merito è stata segnata dalla rivoluzione attuata, dalla fine degli anni Sessanta e concretizzatasi nella prima metà dei Settanta, da parte di una nazione fino a quel momento calcisticamente marginale: l'Olanda. Si trattò una rivoluzione geografica, perché l'Europa calcistica in questo sport, almeno per quanto riguarda i livelli massimi, si limitava, all'epoca, ad appena quattro nazioni: la Germania, l'Italia, l'Inghilterra e la Spagna. Si trattò però anche di una rivoluzione tecnica, nel modo di stare in campo e di affrontare gli incontri. Ma si trattò soprattutto di una rivoluzione culturale: la maniera di intendere, di pensare e di giocare a calcio fu letteralmente sconvolta. Ed è da questo momento che l'idea di “giocar bene” prese sempre più piede anche a livello popolare. Il principale vessillo di questa rivoluzione fu il calcio totale con cui l'Ajax vinse due Coppe dei Campioni nel biennio '70-'72 e attraverso il quale la nazionale orange stupì il mondo ai Mondiali del '74, fermata in finale, a un passo dall'impresa, dalla Germania. E, come tutte le rivoluzioni, ebbe anche i suoi condottieri: uno, l'allenatore dei lancieri e dell'Olanda Rinus Michels, e l'altro, il fuoriclasse delle medesime compagini, nonché uno dei migliori calciatori di tutti i tempi, Johan Cruijff.

L'idea alla base del calcio totale è semplice ma geniale, eppure estremamente complicata da portare sul campo. Per capirla dobbiamo prima considerare che il calcio, a quei tempi, era molto più statico e avevi ritmi molto più compassati rispetto a quelli a cui siamo abituati oggi. I giocatori correvano di meno ed erano perlopiù relegati alle loro posizioni. I difensori restavano in difesa e gli attaccanti in attacco. Gli olandesi sconvolsero questo modo di pensare: i ruoli da fissi divennero adattabili, tutti i giocatori partecipavano a tutte le fasi di gioco, anche i difensori attaccavano e anche gli attaccanti difendevano. Ogni giocatore poteva spostarsi e abbandonare la propria posizione “naturale”, perché era subito sostituito da un compagno che andava a coprire la zona lasciata vuota. L'archetipo di questo tipo di calcio è proprio lo stesso Cruijff, centravanti di classe innata, ma anche all'occorrenza ala o centrocampista.
Era, di conseguenza, un calcio che richiedeva una preparazione atletica inusuale per quegli anni. Se ne accorsero a loro spese i brasiliani, quando, nella semifinale mondiale, vennero demoliti dagli olandesi che correvano come dannati sul campo, mentre i verdeoro pensavano semplicemente a far correre il pallone.

Michels esportò il suo calcio in Spagna, al Barcellona, che anche in anni recenti ha rappresentato l'erede più diretto del calcio totale. La sua opera fu continuata proprio dal Pelé bianco – come Gianni Brera aveva soprannominato il campione dei Paesi Bassi – che approdò anch'egli in terra catalana, prima in qualità di calciatore e, successivamente, da allenatore. Sotto la sua ala nacquero, nelle giovanili blaugrana, centrocampisti del calibro di Xavi, Andres Iniesta o Cesc Fabregas. Essi rappresentano l'applicazione, in chiave moderna, del calcio totale, con una nota ovviamente spagnoleggiante. Il concetto del centrocampista infaticabile, tutto corsa, grinta e sacrificio, veniva del tutto accantonato in favore di giocatori di tecnica sopraffina, ma anche di intelligenza tattica superiore alla norma, capaci di sfruttare gli spazi nel migliore dei modi.

Sotto la guida di Cruijff crebbe e apprese un personaggio destinato reinventare a sua volta il calcio: Josep Guardiola. Sebbene sia stato anche un ottimo calciatore, è sicuramente in qualità di tecnico che ha segnato – e sta segnando tuttora – una nuova era. Ma prima di lui un altro profeta del bel gioco sarebbe stato destinato a porre un'altra pietra miliare nella storia di questo sport; stiamo parlando di Arrigo Sacchi. La circostanza interessante è che Sacchi si trovava in un contesto del tutto diverso sia dai Paesi Bassi che dalla Spagna. L'Italia, seppure da nazione calcisticamente dominante e patria di club di successo, aveva sempre praticato un gioco fortemente incentrato su una difesa solida e organizzata, che attendeva l'avversario dietro la linea della palla, per poi innescare veloci contropiedi. Sacchi invertirà completamente questo approccio. Approdato al Milan nella stagione '87-'88, avrebbe trascinato i rossoneri verso la conquista di tutti i trofei possibili. Il tecnico di Fusignano può essere considerato in qualche modo un olandese del calcio. E molto di olandese c'è sicuramente nella sua squadra, in cui Berlusconi portò giocatori come Marco Van Basten, Ruud Gullit e Frankie Rijkaard, i quali erano i protagonisti della nazionale orange guidata da Michels che avrebbe conquistato il titolo di Campione d'Europa nel 1988.

Il gioco proposto da Sacchi si basava sui tre seguenti presupposti: difesa a zona, pressing aggressivo e possesso palla. La zona prevedeva la copertura da parte dei difendenti di determinate zone del campo, contrariamente alla tradizionale difesa a uomo, preponderante allora in Italia, che invece si basava sulla marcatura del singolo giocatore, preso in consegna da un determinato difensore per tutta la partita. Il pressing era invece una delle armi fondamentali per vincere la partita, soprattutto quando la squadra perdeva il possesso del pallone. Invece di retrocedere indietro, ai giocatori veniva impartito di aggredire immediatamente il portatore di palla e di tagliare tutte le linee di passaggio, in modo da impedire la ripartenza degli avversari e riconquistare subito il controllo della sfera. Per dominare nel possesso i giocatori dovevano coprire il campo in un certo modo, accompagnando il portatore di palla, lasciando due uomini vicini a quest'ultimo, avanzando attraverso triangolazioni e passaggi di pochi metri molto difficili da intercettare per gli avversari.

Questi concetti sarebbero stati sviluppati e perfezionati ad arte dal succitato Josep Guardiola. Egli è uno dei principali interpreti del bel gioco moderno, assieme a un altro allenatore con un retroterra culturale differente: Jurgen Klopp. Sono loro due i principali esponenti della filosofia del “giocar bene” contemporanea. Cerchiamo di analizzare nello specifico la loro dottrina.

Guardiola cominciò ad allenare la squadra giovanile barcellonese, storica fucina di talenti e futuri campioni. Approdato in prima squadra, prese il posto sulla panchina di un altro olandese, Rijkaard (il blu-granata ha sempre avuto, in tutti questi anni, dei riflessi arancioni). Lo stile di gioco sfoggiato dalla squadra di Guardiola riprendeva le idee sacchiane, ma esasperandole per alcuni versi e nello stesso tempo portandole a un livello di scientificità mai visto prima e reso possibile anche dalla perizia fuori dal comune dei suoi interpreti sul campo.

Il possesso palla è ricercato con ancor più ossessione rispetto al Milan di Sacchi. Un simile dominio del gioco veniva reso possibile dalla vicinanza di due o più giocatori al portatore di palla. Questo permetteva da un lato, una fitta rete di passaggi difficilmente arrestabile dall'altra squadra, dall'altro, facilitava lo scarico sul compagno in caso di pressing sul portatore da parte degli avversari. Infine, questa disposizione rendeva più facile e veloce il recupero del pallone una volta perso. In fase di possesso tutta la squadra avanzava, disponendosi a formare dei triangoli o dei quadrilateri, conquistando campo man mano, attraverso un giro palla estenuante per gli avversari. Tutta la squadra in questo modo seguiva la manovra e si alzava (è il cosiddetto salir jugando) lasciando inalterate le posizioni. Per ogni uomo che si staccava dal triangolo o dal quadrilatero c'era un altro che veniva a ricucire la figura: ciò assicurava una continuità impressionante nel possesso. Un altro scopo di questa manovra era attirare gli avversari sul pallone come fosse una calamita. Il portatore, data la disposizione geometrica della squadra, aveva sempre più di una soluzione di passaggio e poteva sfruttare gli spazi lasciati scoperti dal tentativo di pressione; ciò creava superiorità e permetteva di penetrare in area per mezzo di scambi a uno o due tocchi.

Un simile stile di gioco ha trovato la sua massima espressione non solo nel Barcellona, ma anche nella Spagna Campione d'Europa e del Mondo ininterrottamente dal 2008 al 2012. Questo è stato il quadriennio d'oro nel quale il guardiolismo puro ha trionfato incontrastato monopolizzando non solo ogni modo di pensare al bel gioco, ma affermandosi anche come il calcio più vincente.

Tuttavia nel frattempo Jurgen Klopp, un altro brillante tecnico dalle idee innovative, stava sperimentando la sua idea di gioco in terra di Germania, prima alla guida del Magonza e poi del Borussia Dortmund, con cui avrebbe vinto due Bundesliga.

Pur trattandosi sempre di un calcio aggressivo e spregiudicato, il possesso palla, sebbene ancora importante, non era lo scopo principale del Borussia di Klopp. La fase centrale, invece, era il pressing, che non veniva inteso soltanto come uno strumento difensivo, ma anche e soprattutto come arma di offesa. Il gegenpressing, è una forma di contro-pressing in versione tedesca.

Il contro-pressing è il pressing che viene esercitato nell'immediato istante in cui si perde il pallone. Il gegenpressing ne è una forma modificata e ulteriormente perfezionata. Come funziona? Il concetto di base è il medesimo applicato dal Milan di Sacchi e dal Barcellona di Guardiola e lo stesso Klopp ha dichiarato di ammirare questo aspetto, più che la fase di possesso, del suo collega catalano; una volta persa palla, invece di ripiegare, si va immediatamente alla riconquista della stessa. Il pressing viene esercitato sul portatore, che viene aggredito da più lati, e sugli spazi, per interrompere le linee di gioco, impedendo lo scarico.
Ciò può portare a tre tipi di conseguenze: a) il portatore è costretto a passare a un compagno ai lati, verso le fasce, dove si finisce ingabbiati e si arriva ugualmente a perdere palla b) rilancio lungo, alla cieca c) riconquista del pallone e ripartenza veloce.
Ed è proprio quest'ultima la principale innovazione del gegenpressing. Perché invece di proseguire la circolazione di palla, una volta riconquistata si effettuano subito rapide verticalizzazioni a cercare la profondità. In altre parole si impedisce all'avversario di organizzare il possesso e lo si coglie impreparato, rendendo più facile la penetrazione offensiva.

Questa è una delle principali differenze rispetto a Guardiola: mentre per il guardiolismo il contro-pressing è finalizzato a recuperare e a mantenere il possesso, per il kloppismo lo scopo invece è attaccare immediatamente, occupando i “buchi” creatisi nella disposizione degli avversari.

Un'altra differenza è nella disposizione degli uomini sul campo: le squadre di Guardiola prediligono la vicinanza di più elementi al portatore, in modo da rendere possibile il fraseggio breve, mentre nelle squadra di Klopp coloro che ricevono il passaggio sono anche distanti e attaccano la profondità: verticalizzazioni o cross dalle fasce invece che scambi sul corto.

In linea generale si può dire che il calcio di Guardiola sia maggiormente finalizzato al controllo del gioco, mentre quello di Klopp ad attaccare la profondità con transizioni veloci.

Si tratta di due filosofie differenti di bel gioco: l'una predilige il ricamo e la manovra, l'altra la velocità e l'intensità. Questo affascinante confronto non è rimasto soltanto teorico, ma si è proposto anche sul campo, perché i due tecnici si sono affrontati più volte, prima in Germania, quando il tedesco allenava il Dortmund e lo spagnolo il Bayern Monaco, e poi più recentemente in Inghilterra, storia a tutti certamente nota, nelle numerose sfide tra Liverpool e Manchester City. Forse è stato anche grazie a questo ripetuto confronto che i due approcci hanno potuto evolversi ulteriormente e contaminarsi reciprocamente. È stato infatti in terra inglese che ciò si è manifestato in maniera lampante, forse per la differenza degli interpreti sul campo, forse per mettere più in difficoltà il rivale, fatto sta che quel che si può notare oggi è che il City fa sicuramente maggiormente uso delle verticalizzazioni e delle transizioni in velocità rispetto al Barcellona di Messi, Xavi e Iniesta, così come il Liverpool ha ormai iniziato a giocare un calcio più manovrato e meno frenetico rispetto ai primi anni.


Per concludere possiamo dire che esistono e si sono susseguite varie interpretazioni del “giocar bene” ma nessuna rinuncia a una componente essenziale: il dominio del gioco e la tendenza offensiva. Da una fase storica in cui prevaleva il fraseggio sul breve si è giunti a una fase in cui, col dominio delle squadre inglesi, si è affermato un calcio maggiormente incentrato sulla velocità e l'intensità, senza tuttavia rinunciare a un compromesso col gioco manovrato. Quel che è certo è che l'idea che il bel gioco sia in contraddizione con l'efficacia è totalmente infondata, come dimostra il breve excursus storico fin qui tracciato. Anzi, l'obiettivo è proprio quello di massimizzare l'efficacia mettendo sotto pressione l'avversario sfruttandone i punti deboli e minimizzare, invece, il rischio di subire gol attraverso il monopolio del pallone e la neutralizzazione delle possibili ripartenze dell'altra squadra. Sebbene votato all'attacco, infatti, il “giocare bene” vuol dire (come mostrato del resto dalla centralità del pressing) provvedere allo stesso tempo non solo alla fase offensiva, ma anche a quella difensiva; prova ne è il Liverpool – squadra che ha sicuramente nella propulsione offensiva uno dei suoi punti di forza – che ha concluso l'ultima stagione di Premier League con la miglior difesa.