Non voglio a tutti i costi mostrarmi come uno di quelli che va contro la massa per scelta, non foss'altro che a forza di essere fuori dal coro per un fatuo ed insipido senso elitario si ottiene solo di diventare antipatici, noiosi ed improduttivi. Tuttavia, io proprio non riesco ad esimermi dal notare che in tutto quel trionfalismo nazionalistico nostrano di questi giorni olimpici c'è pochissimo di quello spirito sano ed elevato che caratterizzava i Giochi nell'antichità. Le Olimpiadi nacquero nell'antica Grecia con lo scopo di glorificare lo spirito agonistico dell'uomo, la sua capacità di ritrovare un'armonia con la natura e gli dei, e non certo con la meschina idea di esaltare la città o la civiltà a cui un atleta appartenesse (che fosse ateniese o spartano, ad esempio, poco importava). Era questo, ovvero il confrontarsi dell'uomo con la vita, con l'altro e i propri limiti, il senso autentico dei giochi olimpici nella patria della cultura e del sapere. Nella umiliante e piccolo-borghese Italia di oggi - basta guardare le trasmissioni Rai dove si parla esclusivamente degli atleti italiani - vi è invece l'insana trasformazione di un rito fondamentalmente religioso in una becera esaltazione nazionalistica, alla quale partecipano, e senza alcuna distinzione nei modi, tutti i ceti, le classi e le culture del paese; un po' tutti gli italiani, insomma, dagli operai ai membri delle classi dirigenti, con una ritualità ed un orgoglioso sfoggio di appartenenza etnica da evocare una visione tribale della vita umana piuttosto che richiamare il tragico senso del rapporto uomo-mondo alla base di quella grande Civiltà del passato. Un nazionalismo per giunta a tinte provincialistiche che mette in evidenza, come dimostrano peraltro gli ultimi populismi in politica, quanto l'italiano (e non solo) sia ben lontano da quell'idea di transnazionalismo che riporterebbe, come nella sana antichità greca, l'uomo al centro del mondo, lontano da quell'essere schiavo di istinti nazionalistici che lo hanno ricondotto ad uno stadio di sviluppo spirituale, nonostante il progresso scientifico, di gran lunga inferiore rispetto a quello di Atene.

Non è retorica la mia, ma una considerazione che si inquadra in quel generale allarme che da anni viene lanciato da tante parti del mondo intellettuale intento a studiare l'uomo contemporaneo, dai filosofi agli storici, dai sociologi ai politologi. Questo nazional-populismo a cui assistiamo, insomma, è solo una immagine di qualcosa di più profondo, di più nascosto, di più grave. Entrando nel merito dei giochi, quanta pochezza di spirito c'è nel parlare solo ed unicamente delle atlete e degli atleti italiani, come fanno le trasmissioni Rai a proposito delle singole discipline. Si è arrivati a livelli di nazional-populismo così parossistici e perversi che se chiunque di voi, scendendo in strada, chiedesse ad un italiano qualunque chi sia l'uomo capace di saltare più in alto di tutti nel mondo questi risponderebbe citando solo l'atleta italiano, ignorando persino che sono stati in due a vincere la medaglia d'oro. Al centro di quelle attenzioni mediatiche non c'è affatto, come invece si vuol far credere, l'esaltazione del sacrificio che ciascun atleta italiano ha compiuto per poter raggiungere il proprio traguardo, ma la mera celebrazione del risultato nazionale, se è vero, come è vero, che la stessa presunta esaltazione per il sacrificarsi degli atleti non emerge affatto per gli quelli degli altri paesi, neanche per coloro che trionfano in modo clamoroso. E in maniera ancor più deprimente questa ipocrisia emerge nel fatto che, mentre solitamente (vedi il Calcio) si dice che "vincere non è importante, ma è l'unica cosa che conta", e che chi arriva secondo "è solo il primo degli sconfitti", alle Olimpiadi queste logiche agghiaccianti vengono abbandonate, se non addirittura capovolte, considerato il trionfalismo con cui vengono commentate le prestazioni di quegli italiani che si sono guadagnati medaglie d'argento o persino di bronzo. Per fare una battuta, d'improvviso a questi commentatori solitamente cinici sembra tutto oro quello che luccica, anche l'argento ed il bronzo. Vorrei tanto chiedere a questi opinionisti calcistici, che sentiamo abitualmente e ripetutamente affermare che solo la vittoria conta davvero, come mai, durante le Olimpiadi, cambino radicalmente fronte. Vorrei tanto credere a questa loro conversione alla sportività, ma io, che non sono ingenuo, so bene che si tratta, per evocare Charles Darwin, di un mero adattamento alle circostanze. Siamo o non siamo anche noi uomini una "specie"?!

Spero non si legga in questo mio breve articolo una qualche forma di invidia per i trionfatori italiani alle Olimpiadi. Io vorrei, anzi, che le loro imprese venissero vissute con lo stesso spirito con cui i greci antichi seguivano le imprese dei loro eroi. Allora sì che essi apparirebbero in tutta la loro grandezza, come uomini, cioè, capaci di confrontarsi con i propri limiti e le forze della natura, e che sanno affrontare tragicamente il senso del vivere umano, come fulgidi esempi di umanità e spiritualità. Altro che quella miserevole e triviale esaltazione dei loro corpi per aver fatto risuonare l'inno della propria nazione più forte di quello delle altre, una esaltazione con la quale la massa in realtà non vuole affatto onorare quegli atleti ma solo assecondare il proprio inconscio e puerile senso di rivalsa fantozziana per quella sua miseria quotidiana, un senso di rivincita che trasforma in una insensata lotta contro altre etnie, portando alla luce semplicemente la pochezza del suo vivere, l'incapacità di guardarsi dentro, di essere uomini nella totalità del loro esserci, secondo il vero senso dell'umano.