Fra qualche anno, analizzando i risultati eccellenti della Juventus di Allegri, non si potrà fare a meno di esaltarne le virtù: la continuità, l'equilibrio, la concentrazione, l'applicazione. Tutto giusto e tutto vero, eppure nei supporters bianconeri rimarrà sempre un retrogusto amaro, una sensazione di incompiutezza che, inevitabilmente, farà riferimento alle imprese in Europa, desiderate, sognate, quasi assaporate ma sempre e soltanto sfiorate.

Le occasioni mancate per un soffio cominciano a essere troppe per non suggerire un filo conduttore, un elemento comune che le associa e che faccia pensare a una mancanza di fondo, un difetto congenito e, a quanto pare, irrimediabile.
A prescindere dai presunti errori arbitrali e dagli episodi sfortunati; perché una società come la Juventus non deve mai, ripeto, mai e poi mai spiegare le sconfitte o le mancate vittorie con alibi che, giustamente, ha l'abitudine di attribuire ai perdenti del nostro campionato. Molti ricorderanno l'espressione "colorita" che Carlitos Tevez indirizzò a Max Allegri negli ultimi minuti della semifinale di andata di Champions League con il Real Madrid nel maggio del 2015. Quel "cagon" (cacasotto) sibilato dall'attaccante argentino al momento della sua sostituzione apparve ai più un appellativo troppo duro anche in virtù della successiva, e meritata, qualificazione alla finale ottenuta nel ritorno.

Tuttavia, a posteriori e con l'evidenza dei fatti, appare oggi come una sorta di sentenza.
A Berlino, in finale, dopo il pareggio realizzato da Morata, il Barcellona ebbe dieci minuti di sbandamento ma la Juve non ne seppe approfittare.
A Monaco, l'anno successivo, la squadra aveva compiuto un mezzo capolavoro andando in vantaggio per due a zero e rendendo sostanzialmente inoffensivo per 70 minuti il Bayern di Guardiola, ciononostante anziché chiudere la pratica cercando di segnare il terzo goal, negli ultimi venti minuti la formazione di Allegri decise di chiudersi in difesa della propria area, con i risultati che conosciamo (emblematica fu la sostituzione di un fin lì stratosferico Morata con un acciaccato e molto più difensivo Mandzukic).
Sino ad arrivare all'atroce beffa di ieri sera.
Si spenderanno fiumi di parole ed epiteti più o meno espliciti nei confronti dell'arbitro Oliver (e del potere del Real Madrid), ma un'analisi un po' più lucida della partita dovrebbe indurre a cercare i motivi di un'eliminazione assai bruciante in scelte tattiche e tecniche che forse sono state, per l'ennesima volta, troppo conservative. In vantaggio di tre reti a mezz'ora dalla fine dei tempi regolamentari la Juve avrebbe avuto tutti le ragioni per continuare ad attaccare e cercare il quarto goal, quello della quasi certa qualificazione perché in tal caso il Real avrebbe dovuto segnare due goal per accedere alla semifinale. Invece, ancora una volta, si è scelto di difendere il risultato per giocarsi le chance di passaggio del turno ai supplementari assoggettandosi a tutti i rischi del caso.
Inserire Cuadrado al posto di uno stanchissimo Mandzukic, per esempio, avrebbe portato nuova linfa e velocità. Né costituisce una valida argomentazione il fatto che la squadra fosse stanca e quindi non avesse le forze per attaccare perché, a maggior ragione, andare ai supplementari avrebbe aggravato il problema.

Insomma, nelle partite da dentro o fuori la tenacia e la resistenza sono necessarie ma non sufficienti, ci vuole il coraggio di rischiare il tutto per tutto per assestare il colpo di grazia agli avversari, altrimenti si finisce per vanificare tutti gli sforzi precedenti. Ed è proprio questo che alla Juventus di Allegri è sempre mancato in questi, per il resto, magnifici quattro anni.