Ed è semifinale. Diremmo anche "senza rischi" se non fosse che davanti avevamo ancora le immagini di Sergi Roberto che esulta dopo aver rifilato il sesto gol a Trapp.
Catalani e gli italiani vestiti di blaugrana apriliano si aggrappavano alla speranza di una nuova "remuntada" nell'Inferno dei 90.000 tifosi spagnoli che avrebbero certamente spinto Messi & Co. verso una nuova epica impresa.
Juventini che avevano accantonato l'esaltazione perché "non si sa mai... aspettiamo almeno il primo tempo a Barcelona".
Ma difficilmente i miracoli avvengono due volte, per di più se distanziati da un solo mese; soprattutto se davanti si ha una squadra che non si sarebbe mai presentata con le mani in tasca fischiettando in Catalogna, memore di quanto successo ai parigini. L'atteggiamento della Juventus era ed è stato diverso da quello avuto dal Paris Saint German, subito impaurito al punto di darsi due pugnalate in 30 minuti praticamente da solo e spianando la strada al Barcelona (e all'arbitro) verso una partita che, di diritto, è entrata nella storia della Champions League.
La Juventus non è il Paris Saint German. Non lo è per mentalità e forza. Non lo è per efficacia, determinazione e cuore.
La classe offensiva è paragonabile, per carità: Cavani, Draxler e Di Maria, sospinti all'andata dal trio Verratti-Rabiot-Matuidi, che hanno fatto faville al Parco dei Principi e non sono poi di tanto sotto al quartetto offensivo di Massimiliano Allegri, anzi.
Ma è dietro e dentro la differenza, in difesa e nella testa.
Nessuna armata all'arrembaggio, nessun attacco scriteriato ma nemmeno 5-3-2, marcature ad uomo e falli sistematici.
Semplicemente Equilibrio! Fioretto e spada, pressing asfissiante e arroccamento in area, coprire gli spazi centrali concedendo ai nanetti catalani i cross dalle fasce laterali in cui Bonucci e Chiellini avrebbero fatto meno fatica di Galeazzi davanti ad una fiorentina.
E poi ripartenze, azioni manovrate, fraseggi sulla trequarti offensiva.
All'andata un saggio di azioni da lectio magistralis: dall'azione manovrata da sinistra a destra al contropiede letale fino alla concretezza nei calci piazzati.
Al ritorno un controllo totale di ogni zona del campo, con ripartenze letali sulle fasce che potevano finire con esito migliore (nel caso staremmo parlando di una Juve che ribatte colpo su colpo al Camp Nou).
Com'era ovvio prevedere, il Barça ha dovuto fare la partita, ha attaccato e ha avuto in mano il pallino del gioco. Andare sempre avanti e ripetere la partita straordinaria dell'andata sarebbe stato insensato e da stupidi, sia per lo spreco di energie, sia per le occasioni blaugrana che si sarebbero triplicate.
All'andata controllo del campo e pressing asfissiante, dominio fisico, tecnico e territoriale e concretezza nelle azioni da gol.
Al ritorno intelligenza e saggezza, arroccamento e ripartenze, fraseggio alto quando serviva e pallone spazzato in curva in casi estremi.
Questa Juve non è il Brasile del 2002, tanto meno la Grecia difensivista di Otto Rehhagel, non è il Barça dei 110 gol a stagione o il Napoli decantato sui social da pseudogiornalisti, tanto meno la provinciale del calcio italiano anni '80.
Questa Juve non è nulla di quanto elencato ma sa fare alla perfezione tutto ciò, sa andare di fioretto o colpire di sciabola.
Non è calcio di trent'anni fa e non è il circo.
Pagate il biglietto e tirate fuori la voce oppure, se preferite, mettetevi comodi sul divano con una birra gelata e vedrete una vera squadra di calcio: sacrificio, abnegazione, tecnica, sapienza tattica, freddezza e lucidità. Undici calciatori che sanno difendere come leoni e sanno attaccare e colpire come pochi. Se non vi diverte questa squadra, ce ne sono tante altre da poter ammirare in Italia e in Europa; il calcio è bello anche per questa varietà di gusti. Se cercate però il divertimento e lo spettacolo durante la settimana, non vi resta altro che la Juventus.
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