Lo sport, fin dagli antichi greci, è sempre stato un diletto per soli uomini. Alle donne veniva riservata una funzione sacerdotale, salmodiale, di contorno. Certo non in pista a "lottare" per il titolo messo in palio, giammai.

Va da sé che giudicare gli antichi con la coscienza moderna è sbagliato, se ad esempio leggessimo Dante con la modalità "politicamente corretto" attivata, dovremmo reputare la Commedia il peggior libro mai scritto nella storia del Mondo. Ma potremmo fare lo stesso discorso su qualsiasi altro libro scritto prima del Secondo Dopoguerra. Quindi, lasciamo gli antichi ai loro riti e alla loro cultura e giudichiamo i tempi moderni, quelli che viviamo, dove le donne hanno conquistato molti diritti, tra cui quello di poter praticare uno sport, di poter competere per la vittoria di un titolo. "In che fantastica era stiamo vivendo", direbbe qualcuno, se non fosse che, è opportuno ammetterlo, lo sport odia ancora le donne. E forse proprio il fatto che crediamo di essere migliori degli antichi ci rende ciechi di fronte all'evidenza.

Parliamo anzitutto della Legge 91, la legge che prevede la struttura del nostro sistema sportivo, dal Coni con gli atleti olimpici fino alla seconda categoria calcistica, e, soprattutto, ci dice quali siano gli sport che possono esser svolti in maniera professionistica e quali no. La differenza, seppur banale, in verità è molto importante. Essere un "professionista" vuol dire, anzitutto, avere diritti: stipendi minimi, un sindacato di riferimento, assicurazioni, contributi versati, non dover dipendere da altre entrate per avere uno stipendio mensile. Se, però, vediamo quali sport prevedano il titolo di "professionista" ci rendiamo conto che sono davvero pochissimi. Appena quattro: calcio (Serie A, B, C), basket (A-1), golf e ciclismo. E tutti prevedevano il titolo di "pro" solo per i settori maschili.

Per fortuna il giudizio è passato al Coni che stabilisce chi può essere considerato tale su base (però) individuale e oltre ai quattro sport citati ve ne sono altri e vi sono anche delle donne. In sostanza un campione di bocce può essere considerato un "professionista" dal Coni, ma non una società bocciofila, poiché non compare negli sport citati. 

A ristabilire la sproporzione uomo/donna e sport maggiori/minori ci pensano gli atleti delle forze armate, in sostanza il gruppo che riempie il nostro medagliere olimpico e che sono considerati a tutti gli effetti "professionisti", mentre molti uomini e donne in settori sportivi "minori" non possono ambire a questo titolo, come Maurizia Cacciatori, ad esempio, eletta nel '98 la "migliore palleggiatrice del mondo", un talento italiano che non è mai stata, né sarà, una professionista dello sport.

Ma parliamo di numeri: nel calcio italiano abbiamo appena il 2.2% dei tesserati di sesso femminile, nel ciclismo saliamo all'8.7%. Nel basket si arriva al 13.5% e nel golf al 20.4% (fonte Valerio Piccioni, SportWeek). Più lo sport è popolare e più abbiamo meno donne tra i tesserati. Ma non è un problema solo italiano, si pensi che l'ultima donna in Formula 1 (giusto per citare uno sport che non dipende dalla forza fisica come gli altri) fu Giovanna Amati nel lontano 1992.

Cosa fare per ridurre questa sproporzione? Bisognerebbe cambiare la Legge 91, una legge dei primi anni '80, ancora in vigore e non modificata e che non permette di "aggiornare" il merito della questione, cosa che, però, non sembra nell'agenda del Governo, né del Coni che ha altri e più importanti pratiche giudiziarie da sbrigare. "Bisognerebbe fare qualcosa", si dice da circa 40 anni. E forse siamo anche stanchi di parole, solo parole, un po' da tutti, anche da queste, che non portano mai a fatti compiuti.

Rimane solo l'atleta, uomo o donna, che vive ogni giorno della sua esistenza per un fine maggiore, per dare un contributo a quella disciplina, per farla evolvere, per esserne parte. Rimane l'atleta che vince e viene cantato dai poeti, rimane l'atleta che viene consegnato alla storia. E l'atleta a volte riesce ad avere diritti, altre volte no. Rimane una donna, sullo sfondo, che ha paura. Ha il terrore di restare incinta, perché se dovesse avvenire ciò si tradurrebbe nel perdere la possibilità di praticare lo sport a cui ha dedicato la sua intera vita. La metterebbe davanti ad una scelta troppo grande. E, soprattutto, non avrebbe alcun diritto, nessuna tutela, nessuna "maternità" o "buona uscita", nessuna parola in merito.
Rimarrebbe da sola, come se non avesse mai toccato un campo da gioco. Come se fosse un reato essere allo stesso tempo madre e atleta.