E' tutto già scritto, è tutto già stabilito, l'importante è distogliere l'attenzione del tifo dalle cose per cui davvero valga la pena spendersi.
Per tifo non intendo le fazioni parteggianti rispettivamente per chi si riconosca nel fascino di una divisa nerazzurra o nell'autorevolezza di quella bianconera, passando per la compassionevole tinta unita viola (della quale brandisco il vessillo), ma di tutta quella massa di persone non necessariamente schierate, che si lascino coinvolgere attivamente in questioni che non li riguardano affatto né mai li riguarderanno. Da semplici spettatori, in questo caso non paganti. Perché la cronaca calcistica, che tutto tratta fuorché del calcio come elemento chimico di forma sferica che divide undici uomini, ormai è un menù propinato con dolcezza e forza, che senza bussare penetra la nostra quotidianità portandoci a confondere il superfluo con la realtà.

Definiamo il tifo per ciò che realmente è, sviscerando la natura del lemma originario: un morbo.
La realtà che sotto sotto non riusciamo ad affrontare, anche selvaggiamente, la mistificazione ormai in atto, magari indossando un gilet giallo, sputando in pubblica piazza sulla gigantografia di Wanda Nara, o del fautore dell'assistenzialismo neoborbonico Luigi Di Maio, per spegnere questi focolai che rimestano in noi le nostre cellule, i nostri organi, costringendoli ad un lavoro inutile, ad un costante strisciare nei corridoi di un limbo che mai potremo infrangere. Altrove, come oltralpe, c'è chi ancora ha chiaro il concetto settecentesco di rivoluzione. Qui in Italia, terra mai realmente unita, i cui capisaldi sono la mediazione e l'opportunismo, l'importante è che se ne parli, che se ne scriva, che ci si clicchi sopra, che si guarniscano i nostri incolori quotidiani con prese di posizione più o meno accese, che portino una causa già persa dal popolino come le lacrime di Wanda Nara ad esser oggetto di discorsi seri per certificare l'attestazione dell'autorità di un maschio alfa all'interno del luogo di ritrovo in mezzo ad altri omologhi, in compagnia, nell'uscita serale di turno, tra il tintinnare dei bicchieri colmi di birra e un sottofondo di rutti più o meno attutiti dall'autocontrollo.
Non riscuote maggior consenso chi se ne sta in disparte dinanzi all'idiozia di discorsi che radici non hanno, né avran mai, sebbene il nostro disappunto esacerbato ai massimi livelli ci porti in un certo senso ad identificarci in due figure come Wanda Nara e Mauro Icardi, così insopportabili agli occhi dell'uomo che parla di calcio battente qualsiasi bandiera, da insinuarsi lentamente sino a riscoprirsi idoli. Non riscuoterà mai la benché minima, silenziosa comprensione, chi sbottando avrà modo di far capire ai propri compagni di cosa cazzo si stia parlando. Se m'è concesso, lo dico chiaro. E' una parolaccia, senza la quale non avrei forse reso l'idea dello schifo che mi marcisce in bocca, fino a sputarlo, quando vedo la gente che si lascia trascinare nel guado delle chiacchiere inutili.

Lei, quello sguardo che affronta così stupido, così languido, sugli obiettivi, che siano le telecamere dello studio di Tiki Taka, che sia la webcam con cui pubblica quotidianamente le sue stories, s'insinua così fra noi e il suo campo di battaglia, o le sue numerose miniere d'oro, tivù, moda, e fonti di guadagno derivanti dai nostri click. Ma nulla sarebbe stato così facile senza l'adorato marito Maurito, tappezzato più d'un tappeto, e non è il mio viscerale odio nei confronti del tatuaggio o una fede calcistica differente che mi porta a sbeffeggiarlo così. Io non ci riconosco in quel mondo, quell'esempio di famiglia assurta a riferimento esistenziale per numerose coppie allo sbando, ormai prive di quei valori intrisi di ottimismo e progresso, non solo per quanto riguarda la profondità del conto in banca, ma progresso come capacità di pensiero, critica, scelta, selezione. Riconoscimento di valori fondamentali non solo per la propria esistenza, ma per l'intero cosmo. Sempre più popolato, sempre meno ragionevole, sempre più social e sempre meno socializzante, sempre più condizionato da modelli che facilmente emergono più per la loro appariscenza e per le loro subdole provocazioni, che stimolano la libido tanto quanto infliggono pizzicotti nelle menti più deboli, che si riscoprono via via meno al passo coi tempi, inadeguate a dire la loro senza sfoggiare l'outfit che la webstar di turno ha brillantemente messo in circolo. Con l'intento chiaro di influenzare la stragrande maggioranza, che per riscoprirsi forte rattoppa così, acquisendo punti e pulendosi le scarpe della sfiga di non essere trendy. O fresh, come pronunciano fra i denti gli imbolsiti fighetti metropolitani, quelli con l'anello al naso e la tipa avvolta dal latex, ovviamente già siliconata, al seguito. A bocce fredde. Con una scritta campeggiante sull'avambraccio, quella resilienza di cui non conoscono il significato più recondito, ma di sicuro il messaggio, quello sì, lanciato da un omino di cartapesta che ne ha fagocitati altrettanti milioni, abilissimo a mostrare i propri soldi più di quanto sappia produrli, e a spararsi le pose sullo yacht.

Sarò antico, farò sorridere qualcuno, mi verrà appioppato l'aggettivo più gettonato della storia recente, pronunciato quotidianamente dai miei più acerrimi rivali di tifo, gli juventini, di rosicone. Rosicone di qua, rosicone di là, senza nemmeno argomentare, chiosate così. Con questo maledetto termine che tanto va di moda. Sappiate chiedervi perché siate diventati tutti una massa di replicanti, "del perché si è più in grado, neanche di dire che, quello che è giusto l'hai pensato te", cantava qualcuno.

E io che nei miei sogni di bambino non ancora sverginato auspicavo che un domani il calcio potesse essere veicolo di cambiamenti positivi, propositivi nella vita della gente, che i milioni quotidianamente gravitanti in fondo potessero contribuire ad avvicinare l'Africa all'Europa, a non fare del continente nero, assieme al Sudamerica il più grande supermercato dei nostri grandi club ma una realta a se stante, com'era un tempo, quando il Santos di Pelé contava quanto, se non più della Grande Inter. E non solo perché la propaganda occidentale non prendesse il sopravvento sui nuovi appassionati sparsi per tutto il pianeta, raccogliendo facili consensi, tappezzando di murales i fianchi dei palazzi di periferia, lasciando intendere che sì, è solo una questione di milioni facili, vulva a palate, automobili da incastonare d'oro, e non cose più interessanti, soddisfacenti ed utili, almeno ai miei occhi.
Il calcio è una fabbrica di plastica, non quello che potrebbe realmente farvi: produrre tutte le proprie divise con la plastica raccolta dai mari, che sempre più a milioni di tonnellate al giorno s'insidia tra quel povero pesce che a stenti vi si fa spazio in cerca di cibo, quando non lo confonde, e qualcun altro perisce a causa dei microscopici frammenti che poi mangeremo, per poi divenire, giusto prezzo da pagare, perché da noi invocato, la causa inspiegata di numerosissimi mali incurabili che interessano gli organi più insospettabili. Speravo che tutta quella plastica potesse scomparire, potesse essere, se non resa invisibile, dacché la bacchetta magica non l'hanno ancora inventata, nuovamente rimessa in circolo per una giusta causa. Invece che essere prodotta dopo la distillazione degli ennesimi derivati del petrolio. Utilizzandola nelle infrastrutture dopo averla opportunamente riciclata, ma poi cosa direbbero sulle sponde del Golfo Persico? Come la prenderebbero i tycoon? Gli stessi che finanziano le campagne elettorali dei presidenti americani in base ai propositi dei candidati circa il trattamento da riservare all'oro nero? Non bene, direi. Assisteremo ad un nuovo attacco, indubbiamente, possiamo dire atomico a 'sto giro. Roba da far apparire al confronto l'undici settembre un tiro di fionda. Tanto se ne sono dotati anch'essi. Bloccati come siamo tra la speranza di rigenerarci in un nuovo sistema ecologico, pulito e completamente sostenibile, senza intaccare l'efficienza di cui attualmente usufruiamo, non possiamo fare altro che vivacchiare così. Riempiendoci di plastica che ci s'illude possa essere riciclata, qualora non vi fosse un'onda calabra (per esempio), spalleggiata dalla giunta corrotta di turno, a dare fuoco a chi s'attiene alla legge. E a chi viola i loro codici d'onore. Loro che scaricano nei mari, che bruciano generando nubi di diossina, che sparpagliano cemento quando non serve. E accorciano il timer che ci separa dalla fine. Sgomento, non più vergine, ormai uomo fatto ma non ancora finito, prendo coscienza del fatto che le guerre non potranno decidersi su un campetto da calcio, come in Fuga per la Vittoria.

Un album storico, futuribile ma sfortunatamente sottovalutato di Gianluca Grignani, del 1996, s'intitolava appunto La Fabbrica di Plastica. Nel testo del brano portante, il protagonista è un oggetto animato, plastificato ma non privo di coscienza, che vive un metro più in là da quella che noi chiamiamo realtà. Un prodotto ben confezionato, un'anomalia, rispetto alla massa, prodotta dall'incontro di due cellule e data alla vita tramite un parto. Grignani, uomo dal pensiero fine, emarginato e intossicato dalle debolezze in cui i geni scadono, già sapeva che della fabbrica di plastica facciamo ormai parte tutti quanti. Ce ne sentiamo parte, con orgoglio, in alternativa alla solitudine e all'isolamento. E chissà perché, quell'album intriso di rock e temi metafisici complessi non fu capito, a differenza delle canzonette da crisi ormonali adolescenziali come Falco a Metà e Destinazione Paradiso. Gusci d'uovo vacanti, di plastica, fatti per coscienze di plexiglass, per essere venduti. Perché alla fine della fiera, siamo plastificati anche noi, quando pontifichiamo, conferendole sempre maggior importanza, su un enorme profilattico in carne ed ossa quale Wanda Nara. E un po' anch'io, che ho speso ore che avrei potuto destinare alla zappa, visto che ne ho parlato. Seppur con toni abbastanza controcorrente.