L'utilità di un torneo come la Coppa Italia è sempre più messa in discussione: non dico alla stregua delle detestate amichevoli internazionali che nelle fasi cruciali della stagione hanno azzoppato più di qualche giocatore, ma poco ci manca. In questo caso non è l'inutile dispendio di energie ad essere contestato, anche perché più della visibilità internazionale e di presenze (o eventuali reti) da inserire negli almanacchi vi è in ballo un trofeo. Non avrà certo la valenza di un campionato, o di un'Europa League, ma pur sempre un trofeo resta. Pur sempre il segno tangibile, inequivocabile, di aver scritto la storia - e accresciuto il proprio blasone - sul fronte del più importante torneo calcistico nazionale eliminatorio. Per certi versi, ancor più combattuto dei vari livelli professionistici che, grosso modo (eccezion fatta per lo strapotere delle solite big di Serie A, il cui divario tecnico rispetto a certe "piccole" è lapalissiano) hanno squadre non troppo distanti dal punto di vista del patrimonio tecnico. 

UN FORMAT DA ABOLIRE - Il lento declino della Coppa Italia ha avuto inizio nella stagione 1999-2000, la prima dopo l'abolizione della Coppa delle Coppe, gloriosa competizione UEFA destinata esclusivamente ai vincitori delle rispettive coppe nazionali (oggi ammessi in Europa League). Forse, al culmine del decennio più bello per la Coppa Italia, senz'ombra di dubbio. Credo di essere unanimemente appoggiato in merito a ciò che dico, perche i gloriosi, indimenticabili, inestimabili anni novanta, hanno rappresentato la vetrina, la rampa di lancio per le outsider proprio in questo torneo. Come ci si può dimenticare delle epiche imprese di Parma ('92 e '99), Torino ('93), Sampdoria ('94), Fiorentina ('96), Lazio ('98) e soprattutto Vicenza ('97)? Oggi uno scenario del genere non potrebbe avere luogo per via della natura stessa della Coppa Italia. Da dieci anni a questa parte, funziona praticamente così: al torneo accedono tutte le seconde classificate della Serie D, le prime nove classificate di ciascun girone di Serie C, le squadre di B e di A: e fin qui, apparentemente, tutto bene. Acquisirebbe tutto molto più fascino se si estendesse il numero dei partecipanti (ipotesi largamente possibile) a tutti i livelli calcistici, come avviene nella FA Cup, forse la miglior competizione calcistica a livello mondiale in cui è in palio una coppa nazionale. Ma questo è niente. La controversia più oscena di questo torneo non è l'accesso negato ai club minori (che ripiegano nelle "farlocche" Coppe Italia di Serie C e D), ma l'istituzione di otto teste di serie (inesistenti in FA), le prime otto squadre del precedente campionato di Serie A, che iniziano il torneo direttamente dai quarti di finale, quando rimangono solo una manciata di partite alla fine. Che senso ha? Mi chiedo con quale diritto le prime otto classificate del massimo campionato debbano entrare dalla porta principale di un torneo aperto a tutti. Mi chiedo con quale diritto una Juventus, una Roma, un Napoli, a titolo di esempio, debbano compiere un percorso all'interno della seconda competizione italiana facilitato, anzi dimezzato. Non c'è affatto equità, competitività. Come se Usain Bolt, più veloce degli avversari nelle precedenti gare dei 200, partisse 100 metri più avanti degli altri. E' un offesa alla natura di un torneo ad eliminazione che i meriti ottenuti da alcune squadre, le migliori otto, in una stagione debbano essere premiati nella successiva a scapito di altre che per raggiungere i quarti di finale hanno dovuto faticare il doppio. Se la matematica non è un opinione, prima della fase finale che ha inizio dai quarti in poi, vi sono primo, secondo, terzo e quarto turno. Il doppio delle gare. Solo ed esclusivamente chi una coppa la alza (o un eventuale finalista, se la squadra ha conquistato il double), è legittimato ad accedere ad ulteriori tornei, come la Supercoppa, nazionale o europea che sia, o il Mondiale per Club. Ma ad ogni modo, un vincitore della Champions League non parte di diritto dagli ottavi, ma assieme agli altri dalla fase a gironi. Sono lontani i tempi di Castel di Sangro-Inter. Ma perché nessuno fa nulla? Qualcuno ha provato a rendere più affascinante il tutto, a partire da questa edizione, con il sorteggio del campo. Troppo poco: non basta tinteggiare la facciata quando la struttura è marcia sin dalle fondamenta. Per quanto concerne la FA Cup, il fatto che la finale debba da tempo immemore avere luogo nel solito stadio, il caro vecchio Wembley, il campo della Regina, è forse l'unico aspetto che toglie originalità ad un torneo, che per tutto il resto, si rivela impareggiabile.

NOIA OLIMPICA - Ogni competizione europea che si rispetti, compresa la Supercoppa Europea, che sino a qualche anno fa ospitava solo ed esclusivamente le due contendenti in una solo stadio (il Louis II di Monaco), organizza la disputa della rispettiva finale in una sede diversa. I criteri per l'assegnazione si basano essenzialmente sulla conformità del campo ai principi di sicurezza ed innovazione UEFA, ma sono finalizzati altresì ad attirare turisti, come avvenuto qualche giorno fa a Tallinn in occasione di Real-Atletico di Supercoppa UEFA. In Italia è ben più difficile si che possa attuare un simile principio selettivo, essendo buona parte degli stadi, compresi quelli che per dimensioni sono papabili per la disputa di una finale, fuori norma. Ma in Italia - e per fortuna - c'è molta meno puzza sotto il naso rispetto agli ispettorati ginevrini, quindi si può sorvolare. Si può mica vivere con la psicosi del rischio che cada un meteorite? Gli stadi vecchi, tra cui un certo San Paolo, ci sono eccome, ma non mancano impianti virtuosi, come lo Juventus Stadium: allora perché accanirsi con l'Olimpico? Fino a dodici anni fa questo problema non si sarebbe mai posto, essendo la finale composta da gare di andata e ritorno da disputarsi nei rispettivi stadi. Ma l'idea di organizzare l'atto finale in un campo neutro? E' avvenuto con assidua frequenza che le romane cascassero in finale ultimamente, e si sa che il fattore campo è sempre stato a loro favore (ciononostante, la Juventus ha cannibalizzato le ultime quattro edizioni del torneo, ma questa è un'altra storia). Piccolo post scriptum: se permetteste di intonare l'Inno di Mameli ad una banda musicale, invece che alle solite cantanti, fareste un favore all'umanità intera. Un complesso bandistico conta sì e no una cinquantina di elementi: nessuno di essi bucherà lo schermo, ma il risultato finale sarà una gioia per le orecchie di tutti. Il costume di immettere una figure femminili all'interno di ogni contesto possibile e immaginabile, calcio compreso (le grandi società, Juventus in testa, stanno promuovendo questa iniziativa con successo) è una scelta condivisibile, senz'altro foriera di un futuro migliore e senza divisioni, esente da sessismi e discriminazioni. Ma è idiosincrasia pura ascoltare un inno senza una base musicale, nell'assoluto silenzio di uno stadio, cantato dalle solite, notorie, odiose cantanti mangiaclick. Perché di pari opportunità si parlerebbe se gli organizzatori alternassero, un po' come le targhe dispari con quelle pari, una figura femminile ad una maschile. Altrimenti è demagogia, è pestilenziale propaganda mascherata da buonismo in puro stile Paola Cortellesi al David di Donatello. Di questa Coppa Italia anni 2010 si ricorderà soprattutto il meschino taglio istituzionale e politico che le si è voluto imprimere, a partire da un Presidente della Repubblica che tutto può, fuorché consegnare il trofeo a dei giocatori di calcio, realtà da cui dovrebbe tenersi fuori: ed è solo la punta dell'iceberg di un torneo decrepito e senza più l'appeal di un tempo.