Abbiamo trascorso una stagione calcistica che ha dimostrato (almeno secondo un giudizio molto diffuso) la situazione di inferiorità tecnica, estetica e finanziaria del campionato italiano di calcio rispetto a quello inglese, capace in un colpo di passare da uno stato di crisi di successi fino all'occupazione totale dei posti delle finali europee. L'euforia seguita alle prestazioni di Zaniolo, Donnarumma, Barella e di altri talenti nostrani, che avevano suggerito l'ipotesi di una seria rinascita del nostro movimento, è sfumata nel confronto diretto offerto dalle competizioni europee, che ci hanno visto uscire brutalmente ridimensionati anche quando ci si sentiva ben preparati.

Nel cercare le differenze tra noi e gli altri, ciò che balza subito all'occhio è la diversa velocità di gioco. Se due schermi trasmettessero in contemporanea una partita del Liverpool e una del mio amato Milan, sono sicuro che mi verrebbe di pensare a un confronto incongruo; come se si trattasse di cose che muovono da presupposti diversi; come se si paragonasse il flipper al biliardo. Ma c'è un'altra differenza che appare evidente: la mentalità con cui si affronta una partita. Dato per scontato che tutti vogliono vincere, il modo con cui si persegue l'obiettivo può dar spunto per trovare spiegazione del nostro attuale gap: in immagine, mentre noi siamo impegnati a cercare la quadratura del cerchio convinti che si tratti di una questione risolvibile col ragionamento, gli altri si sono procurati un compasso e il cerchio l'hanno tracciato. E non è che agiscano così perchè non hanno voglia di studiare o perchè, tornando al calcio, disprezzino la tattica e la strategia, ma perchè hanno un approccio diretto con ogni partita, semplice ed economico (Ockham docet), rasato di quelle mediazioni che contraddistinguono il nostro di approccio, il nostro voltare le spalle al campo per dirigere la tifoseria, il nostro giocare la partita giorni prima che si sia svolta e ancora giorni dopo che si è svolta, la nostra difficoltà a considerare il calcio come spettacolo in quanto lo preferiamo come ragione di vita, come rimedio che dovrebbe sostituire carenze materiali e affettive cui la quotidianità spesso ci costringe.

Il calcio è spettacolo, deve essere offerto come spettacolo, deve essere vissuto come spettacolo. Lo spettacolo non è una diminuzione del calcio in confronto dell'importanza, sia essa intima, individuale, sociale, che ha oggi assunto: al contrario, è la ragione della sua diffusione e popolarità. Il calcio è ormai alla stregua dell'opera d'arte e le domande da porsi riguardano il rapporto che ne intratteniamo: se sia il caso di farne un oggetto di adorazione, se sia meglio rivendicare le competenze del critico o se non sia preferibile semplicemente godersela.

Il calcio inglese è spettacolare non per la sua perfezione estetica, non perchè non sbagliano i gol e i passaggi, non perchè mancano le schiappe; è spettacolare perchè dedicato a chi lo guarda dagli spalti e da casa. E chi lo guarda risponde con una gratitudine e passione che superano i risultati raggiunti dai propri beniamini e non ha niente da invidiare o da imparare dai tifosi di casa nostra.

Sono consapevole di aver idealizzato il ritratto del football d'oltremanica in senso comodo per coglierne alcuni aspetti positivi e magari tralasciando ciò che non mi interessa. Il punto è che, se si vuole uscire dalla spirale deprimente di risultati e comportamenti in cui versa il calcio italiano, dobbiamo saper fare tesoro delle esperienze altrui, anche e soprattutto se provengono da quella che un tempo veniva additata come la patria dei tifosi più violenti e, più recentemente, non sembrava in grado di ottenere vittorie di rilievo. Oggi sono citati come esempio per la sportività e il calore del pubblico, per il divertimento e lo spettacolo fornito dalle loro partite e, udite udite, per i risultati raggiunti.

Pensiamoci sopra... (ma non troppo)