Un evento storico caratterizzò la 48^ finale della Champions League: per la prima volta nella storia della competizione la sfida per la conquista della coppa sarebbe stata appannaggio di due squadre italiane. Juventus e Milan, assieme all’Inter da sempre considerate le tre “grandi” del calcio italiano, avrebbero esteso il loro eterno duello fuori dai confini nazionali, andando a contendersi il titolo europeo  a Manchester. Un illustre commentatore - protagonista abituale all’Old Trafford  ma che stavolta sarebbe stato spettatore - l’allenatore del Manchester United Sir Alex Ferguson amico ed estimatore di Lippi e della Juventus, professava piena fiducia nella forza dei bianconeri considerandoli i favoriti per la vittoria finale: “La Juventus ha qualcosa di speciale, più di tutte le altre squadre di questa Champions League: una continuità di rendimento implacabile. Lippi conosce a fondo i giocatori, sa come motivarli e come utilizzarli in ogni situazione. La Juventus batte il Milan nella somma delle parti. Mentalmente mi gioco e rigioco la partita, ma non riesco a vedere una Juve battuta.”[1]

Mercoledì 28 maggio 2003 le elucubrazioni mentali lasciarono il posto alle azioni sul campo di gioco ed un Old Trafford “caldo di afa e di tifo all' italiana in veste britannica[2]” accolse  le due squadre in campo.

Il modulo 4-4-2 con cui la Juventus giocò il primo tempo della finale prevedeva: Buffon; Thuram, Tudor, Ferrara, Montero; Camoranesi, Tacchinardi, Davids, Zambrotta; Del Piero e Trezeguet. Il Milan dei “solisti” rispondeva con il 4-3-1-2. Dida; Costacurta, Nesta, Maldini, Kaladze; Gattuso, Pirlo, Seedorf; Rui Costa; Shevchenko, Inzaghi

La sfida “italiana” si rivelò, sin dalle prime battute di gioco, una partita italianissima: tatticismo imperante, gioco spesso interrotto da falli, passaggi sbagliati e soprattutto una grande, palpabile tensione, ben rivelata dalle posture dei due allenatori: Lippi, in piedi a bordo campo, statuario. Ancelotti immobile, seduto dietro al muretto rosso che delimitava la panchina, da cui spuntava appena il faccione serioso.

Il “pathos” emotivo avvolgeva tutti gli attori in campo. I giocatori bianconeri erano come paralizzati: espressioni stravolte, il peso della responsabilità di giocare la finale gravava, puntuale ed inesorabile, sulle spalle dei giocatori: i fantasmi dei “bambini impauriti” che si erano impossessati degli sguardi di Zoff, Altafini e compagni nel 1973 a Belgrado, di Bettega, Rossi e compagni  nel 1983 ad Atene e di Peruzzi e compagni nel 1998 ad Amsterdam, tornavano nuovamente a deformare le espressioni dei volti degli undici protagonisti a Manchester. Un certo grado di tensione era presente anche nei milanisti ma, dopo le schermaglie iniziali e diversamente dagli juventini, essi riuscirono a tramutare la carica nervosa in energia positiva: fu così che il Milan iniziò a guadagnare spazio, assumendo il controllo del gioco.

Come un lottatore professionista che ha costruito la propria forza attraverso la pratica rigorosa dell’allenamento quotidiano ma non può nulla contro il delinquente della strada, la cui ferocia è sviluppata dall’istinto di sopravvivenza e per cui la supremazia diventa una necessità vitale, così i giocatori juventini apparvero durante i primi 45’ minuti della finale, sotto gli assalti rabbiosi e ficcanti dei milanisti. Praticamente si erano invertiti i ruoli e le attese: era il Milan la squadra pimpante ed atletica che aggrediva una una Juventus fiacca e lenta, “tutta abbarbicata all’indietro”[3], in cui l’assenza di Nedved si fece sentire subito ben oltre il dovuto.

Furono due le azioni emblematiche che sancirono il predominio rossonero.

La prima già al minuto 8: sulla trequarti sinistra milanista, un lento Camoranesi si fece letteralmente strappare la palla dai piedi dal più reattivo Seedorf che diede avvio alla ripartenza milanista appoggiando su Rui Costa; il portoghese (notoriamente non un fulmine di guerra in quanto a velocità) con un’improvvisa accelerazione superò di slancio Tacchinardi e Zambrotta, tagliando il campo centralmente verso la trequarti della Juventus, per poi appoggiare sulla sinistra ad Inzaghi che entrò in area di rigore, affrontato da Tudor, mentre l’altro difensore centrale, Ferrara, scalava al centro per controllare Rui Costa che continuava a supportare l’azione. Fu in questo momento che anche Montero accorse verso il centro dell’area di rigore bianconera per andare in marcatura su Rui Costa: un tipico movimento da difensore centrale quello dell’uruguaiano, il quale però quella sera agiva da terzino e così facendo lasciò completamente libero Schevchenko, che sulla fascia destra del fronte di attacco del Milan si avventò a grandi falcate in area di rigore, richiamando a braccia alzate l’attenzione di Inzaghi al fine di ricevere il pallone. L’ex juventino rispose appieno all’aspettativa e il suo passaggio rasoterra venne raccolto dal compagno il quale, completamente libero, scaricò un sinistro potente che fulminò l’incolpevole Buffon. Milan 1 Juventus 0, proprio sotto la curva juventina.

Ma l’euforia rossonera fu breve: il guardalinee di destra, infatti, alzò la bandierina ad indicare una posizione irregolare di Rui Costa, che sullo slancio aveva oltrepassato la linea difensiva della Juventus e si era trovato in posizione di fuorigioco al momento del tiro Schevchenko, per cui la rete venne annullata. La seconda, pochi minuti dopo. Montero, ancora lui, in fase di disimpegno sbagliò il passaggio che terminò sui piedi di Schevcencko. L’attaccante ucraino smistò subito il pallone sulla destra per Seedorf che, appena dentro l'area bianconera pennellò un cross teso a mezz’altezza, sul quale in anticipo su tutti si avventò Filippo Inzaghi. “Superpippo” con un prodigioso tuffo di testa colpì d’incontro la sfera indirizzandola con precisione nell’angolo alla sinistra di Buffon, ma il portiere juventino con un tuffo altrettanto straordinario riuscì a deviare il pallone in calcio d’angolo. Questa volta non una decisione arbitrale, ma una prodezza del numero uno bianconero aveva consentito alla Juventus di rimanere sul risultato di parità. Questi due episodi, aldilà dei pericoli contingenti che produssero, ebbero un’importanza fondamentale per il prosieguo della partita, poiché fornirono consapevolezza ai giocatori del Milan circa la loro forza, ed allo stesso tempo levarono certezze ai bianconeri: un po' come il pugile che, durante i primi round dell’incontro, mette a segno alcuni colpi contro il suo avversario e realizza che, se terminasse il combattimento, otterrebbe la vittoria ai punti.

Fu così che gli juventini continuarono a rimanere come inebetiti ed esposti agli attacchi degli avversari. Soprattutto, la zona del campo che consentì ai rossoneri di costruire la propria supremazia fu, manco a dirlo, la fascia sinistra della difesa juventina, quella presidiata da Montero. Il difensore bianconero fu presto travolto, quasi una vittima sacrificale, dalla velocità e dalle accelerazioni di Schevchenko, che come un barbaro razziò senza pietà quella striscia, creando i presupposti per azioni martellanti e pericolose, con effetti deleteri sul morale di tutti difensori juventini. In effetti, la scelta di schierare il difensore uruguaiano in posizione defilata a sinistra era apparsa a molti un azzardo[4]: Montero non possedeva la velocità ed il passo di un terzino ed erano altre le caratteristiche che facevano di lui un grande difensore centrale ma non laterale. Ma com’era possibile che di ciò non fosse consapevole proprio Marcello Lippi? Perché l’allenatore toscano aveva sacrificato il difensore uruguaiano, esponendolo ad un tal impari duello? La risposta a questa domanda si può trovare andando a rivedere lo schieramento dell’attacco milanista nell’ultima partita che aveva visto contrapporsi le due squadre a San Siro, il match di ritorno di campionato in cui i rossoneri avevano avuto la meglio sui rivali: Rui Costa “era largo a destra”[5], a supporto di Schevchenko ed Inzaghi che agivano da punte centrali, “attenti a mantenere le distanze tra loro per evitare di togliersi spazio a vicenda”.[6] Erano queste le posizioni degli avversari che Lippi si attendeva, ed è proprio in questa prospettiva che Montero era stato schierato terzino: egli avrebbe dovuto contrastare Rui Costa, il cui passo era sicuramente alla portata delle caratteristiche fisiche dell’uruguaiano. Ed  una conferma indiretta della bontà delle intenzioni di Lippi è fornita dal suo stesso rivale in panchina, Carlo Ancelotti, come ebbe egli stesso a confidare anni dopo in una delle sue biografie: “una volta in panchina mi accorsi che i bianconeri avevano adottato una linea difensiva diversa dalle mie previsioni; Thuram era il terzino destro, Ferrara e Tudor i due difensori centrali e, inaspettatamente, Montero giocava terzino sinistro. Preso atto del cambiamento avversario, decisi di apportare alcune modifiche alla nostra disposizione offensiva. Diedi a Schevchenko, che doveva essere la seconda punta accanto ad Inzaghi, il compito di scambiare continuamente la posizione con Rui Costa e quindi di creare situazioni di uno contro uno su Montero. Il difensore juventino aveva un passo completamente differente rispetto a Sheva e la sua saggezza tattica non poteva arginare lo strapotere fisico dell’ucraino. Questa soluzione fu la svolta della gara perché creammo molte difficoltà e diverse occasioni da rete”.[7]

Come in una partita a scacchi, la mossa di Lippi era stata annullata con una contromossa altrettanto sorprendente dell’allenatore del Milan. Ma soprattutto, quest’ultimo era stato bravo ad agire con immediatezza all’inizio della partita. Non altrettanto si può dire dell’allenatore juventino. Rimasto anch’egli sorpreso dalla scelta di Ancelotti, tuttavia non apportò alcun cambiamento alla disposizione della sua squadra. Solo a seguito dell’infortunio di Tudor, al 42’, dovette intervenire adottando la modifica più logica: Montero ritornò nel ruolo congeniale di difensore centrale accanto a Ferrara, con l’inserimento del veloce Birindelli nella posizione di terzino sinistro. Ma ormai un tempo della partita si era concluso e l’inerzia del match era dalla parte dei rossoneri.

Nel secondo tempo Lippi effettuò pure un’altra sostituzione: al posto di Camoranesi, in serata no (e pensare che era stato designato come “vice Nedved”), entrò sul rettangolo di gioco a puntellare il centrocampo Antonio Conte. L’effetto del duplice cambio fu senza dubbio positivo e la squadra apparve più quadrata e solida non solo nel contrastare gli attacchi dell’avversario ma anche nella fase offensiva. Non a caso fu proprio Conte il protagonista dell’azione più pericolosa di tutta la partita dei bianconeri: in apertura di secondo tempo, infatti, su un preciso cross di Del Piero il centrocampista leccese anticipò Nesta e con un colpo di testa in tuffo indirizzò il pallone sulla traversa. Dopo quella fiammata, però, la partita lentamente ma inesorabilmente perse ritmo: il tatticismo e il difensivismo italici ebbero il sopravvento pure in terra di Albione: “La platea internazionale che guardava all' Old Trafford tutto italiano con un occhio già scettico, non ha certo trovato motivi per ricredersi. Siamo il Paese del catenaccio e la gara non si è schiodata mai dallo 0-0.”[8] Anche il Milan smarrì lo spirito aggressivo del primo tempo, e le due squadre si trovarono presto a fare i conti con i problemi fisici di alcuni elementi (Davids e Costacurta furono sostituiti rispettivamente da Zalayeta e Roque Junior, per i rossoneri successivamente entrarono anche Ambrosini e Serginho per Pirlo e Rui Costa) che indussero i rispettivi allenatori a limitare i rischi, cercando di arrivare indenni ai tempi supplementari. Fu proprio dopo 5’ di “extratime” che accadde un evento che avrebbe potuto ancora decidere l’esito della finale. Il terzino destro milanista Roque Junior cominciò a zoppicare, toccandosi con insistenza la coscia sinistra. Fu presto evidente la natura muscolare del problema, per cui nonostante un bendaggio di contenimento il giocatore non poteva più correre ed anzi faceva fatica persino a camminare. Il Milan aveva effettuato tutte le sostituzioni a disposizione: era chiaro che avrebbe giocato il resto della partita praticamente in inferiorità numerica.

Carlo Ancelotti corse ai ripari: la sua scelta fu di arretrare Ambrosini nel ruolo di terzino destro, liberando Roque Junior da qualsiasi compito: il brasiliano proseguì la partita arrancando su una striscia di campo che progressivamente si accorciava in lunghezza e in ampiezza con l’aumentare del dolore della gamba. Fu così che la squadra rossonera, ridotta effettivamente in dieci uomini, si attestò nella propria metà campo, risoluta a difendere il risultato di parità e a rinviare le sorti della coppa ai calci di rigore. La ritirata strategica avvenne con lucida determinazione ma anche con la serenità derivante dalla consapevolezza di avere giocato una partita migliore degli avversari: la famosa vittoria ai punti avrebbe premiato il Milan, e questo dava fiducia ai rossoneri. Con sentimento diverso gli juventini presero atto della improvvisa situazione di superiorità numerica a loro favore. Il predominio territoriale venne assunto con estrema prudenza, un pò per la stanchezza che ormai si era impossessata dei bianconeri, molto per il timore di sbilanciarsi e di subire il gol che avrebbe decretato la sconfitta. Nessuna mossa tattica fu adottata da Lippi per capitalizzare quella posizione di vantaggio. Fu come se gli juventini avessero esaurito tutte le energie mentali, prima che fisiche: mancò quell’entusiasmo da “ultimo sforzo”, il coraggio di “gettare il cuore oltre l’ostacolo” per raggiungere l’obbiettivo.

E finalmente il tempo degli agognati calci di rigore giunse, in un Old Trafford in cui la luce dei lampioni aveva ormai già sostituito il sole tramontato, ed il gioco di ombre artificiali aumentava il tono drammatico che aleggiava fuori e dentro al rettangolo di gioco. Se in quei momenti i tifosi della Juventus avessero potuto avvicinarsi ai propri beniamini che, seduti sul terreno, esausti, cercavano di raccogliere le residue energie psico-fisiche per l’ultimo atto della partita, probabilmente avrebbero realizzato il triste epilogo a cui stavano andando incontro: il destino beffardo era lì, pronto a dispensare loro l’ennesima amarezza di una sconfitta bruciante. I giocatori bianconeri, infatti, erano svuotati: il barile era vuoto ed il fondo era stato già abbondantemente raschiato, non una goccia di energia poteva ancora uscire da quel colabrodo. La prova evidente fu il malcelato disagio con cui essi cercarono di sfuggire dalla responsabilità di tirare i calci di rigore. Come rivelerà  molti anni dopo lo stesso Lippi: “Nella prima finale che giocammo contro l’Ajax, finiti i supplementari c’era la fila di giocatori a chiedere di battere i rigori e io dovetti solo sceglierne 5. E vincemmo. A Manchester, invece, dopo l’ultima finale giocata contro il Milan, non c’era un giocatore che si offrisse di battere il rigore. C’era chi salutava la fidanzata, chi si voltava dall’altra parte. Insomma, capii che lo stato d’animo non era quello giusto. E infatti perdemmo”.[9]

I tiri dal dischetto di Trezeguet, Zalayeta e Montero, così incredibilmente uguali, fiacchi e centrali, furono agevolmente neutralizzati dal portiere milanista Dida e certificarono la sconfitta. Lo scoramento si addensava tra i giocatori bianconeri e li stringeva in una morsa avvolgente. Chi invece, unico in controtendenza rispetto all’umore del gruppo, cercò disperatamente di ribellarsi a quel clima di “dejavu” opponendosi fino alla fine alle avversità fu Gigi Buffon: il portierone juventino riuscì a parare due rigori agli avversari (Seedorf e Kaladze), mantenendo in vita le speranze del mondo bianconero: in particolare, il rigore neutralizzato a Seedorf rappresentò una parata eccezionale per riflesso e intuito, da annoverare tra i gesti tecnici da manuale del calcio. Ma, già si è detto, in quella serata i bagliori di eccellenza non bastarono ad arginare la mediocrità di fondo, come ebbe a dichiarare lo stesso Buffon a fine partita: “Quello che potevo fare l'ho fatto, ma ho la sensazione che se ne avessi parati altri ne avremmo poi sbagliati altrettanti.”[10] E si arrivò all’ultimo tiro dal dischetto. Il Milan è in vantaggio 2-1 (sono riusciti a segnare Serginho e Nesta per i rossoneri e Birindelli per i bianconeri). Gli ultimi rigori sono affidati agli uomini più rappresentativi, “gli eroi designati, quelli pronti a prendersi la responsabilità del tiro più importante della loro carriera”.[11] Per la Juve si presentò Alex Del Piero: “Va verso il dischetto a piccolissimi passi, come un condannato, la testa è bassa, il corpo stanco”[12]. L’esecuzione è precisa e senza esitazioni, ma altrettanto priva di gioia e di esultanza: dopo aver visto la palla depositarsi nella rete alle spalle di Dida, il fuoriclasse bianconero torna verso il centro del campo a capo chino, consapevole che solo un ultimo tiro lo separa dalla resa. E’ il calcio di rigore dell’ “eroe designato” di sponda milanista, un altro che non può sbagliare: “Le telecamere incrociano lo sguardo di Andriy Schevchenko. E’ lo sguardo di un killer. Freddo, lucido, concentrato sul pallone, sulla porta e sulla coppa. Sa già quello che deve fare. Sheva guarda una volta a destra ed una a sinistra, parte fulmineo. Buffon si butta dall’altra parte, il pallone entra in rete.”[13] Milan 3 Juventus 2.

I rossoneri sono Campioni d’Europa per la sesta volta, la Juventus perde la sua quinta finale.

 

[1] Giancarlo Galavotti, “Marcello, non puoi perdere”, La Gazzetta dello Sport, 26 maggio 2003

[2] Giancarlo Galavotti, “Old Trafford italiano ma con stile inglese”, La Gazzetta dello Sport, 29 maggio 2003, consultato il 15-02-2018.

[3] Lodovico Maradei, “Golden Milan, Silver Juve, “La Gazzetta dello Sport”, 29 maggio 2003;

[4] Marco Ansaldo, cit., Gianni Mura, cit.;

[5] Lodovico Maradei, “Gli errori da non ripetere.”, La Gazzetta dello Sport, 26 maggio 2003;

[6] Lodovico Maradei, cit.;

[7] Carlo Ancelotti, “Il mio albero di Natale”, Rizzoli, 2013, pagg. 186-187;

[8] Lodovico Maradei, cit.;

[9] http://www.sportmediaset.mediaset.it/calcio/calcio/articoli/78763/le-finali-di-lippi-alla-tribu-del-calcio-.shtml,

 

[10] Emanuele Gamba, “La Juve e quel Lippi che non vince”, La Repubblica, 30 maggio 2003;

[11] http://www.delinquentidelpallone.it/milan-juve-2003/;

[12] Maurizio Crosetti, “Quel tiro di Sheva che decide la coppa”, La Repubblica, 29 maggio 2003;

[13] http://www.delinquentidelpallone.it/milan-juve-2003,cit.;