Fu la prima finale disputata dalla Juventus in Champions League (a quel tempo denominata Coppa dei Campioni), mentre le altre “grandi” italiane, Milan e Inter, già vantavano due successi a testa. Comprensibile, pertanto, il grande entusiasmo che la partita richiamò nell’ambiente juventino, a cominciare dalla tifoseria. Quarantamila i supporters che giunsero allo stadio Marakanà di Belgrado contro diecimila olandesi: il semplice dato numerico rende bene l’idea del clima di speranza  che da subito avvolse la compagine bianconera, creando enormi aspettative attorno alla squadra. In realtà, la Juventus non era considerata la favorita per la vittoria. Il ruolo di squadra da  battere spettava senza dubbio all’Ajax: gli olandesi avevano vinto le ultime due edizioni del torneo, ed erano alla terza finale consecutiva, quarta negli ultimi cinque anni (erano stati sconfitti nel 1969 dal Milan)[1]. Un dominio assoluto  dei “Lancieri” di Amsterdam, i migliori interpreti di quella “rivoluzione dei tulipani” che aveva affermato il calcio totale olandese a livello mondiale. Di fronte a cotanto avversario il partire senza i favori del pronostico, lungi dal costituire un problema, avrebbe potuto invece rappresentare un vantaggio. Come ragionevolmente sintetizzato da Gualtiero Zanetti sulla Gazzetta dello Sport alla vigilia della partita: “Avversata duramente dal pronostico, senza alcun dubbio la Juventus si appresta ad affrontare la finale in una condizione psicologica di sicuro favore: se perde era previsto, se vince la sua sarà un’impresa agonistica tra le più significative del nostro calcio nel dopoguerra.” [2]

La formazione da schierare in campo agitò i sonni dell’allenatore Vycpaleck e del suo staff nelle immediatezze della sfida: affrontare l’Ajax con due o tre punte? I bianconeri avevano adottato entrambi i moduli nel corso della stagione, con risultati ugualmente soddisfacenti. In sintesi, il modulo 4-3-3, con il tridente composto da Altafini Anastasi e Bettega, avrebbe comportato il sacrificio di Haller e soprattutto di Cuccureddu, autore del gol che era valso il 14° scudetto la settimana prima contro la Roma. Il 4-4-2, invece, con conseguente esclusione di Bettega, avrebbe garantito una maggiore copertura a centrocampo, consentendo di attendere l’Ajax e ripartire in contropiede. La mattina del 30 maggio, il giorno tanto atteso della partita,  finalmente ogni dubbio venne sciolto quando Vycpaleck annunciò la formazione che sarebbe scesa in campo. Era 4-3-3, con il tridente d’attacco Altafini-Anastasi-Bettega sostenuto da un centrocampo ove Causio e Furino avrebbero agito ai lati di Capello. In difesa, davanti a Zoff il  recuperato Morini stopper al centro della difesa, Salvadore libero, Marchetti e Longobucco terzini. Una Juve offensiva, insomma, pronta ad affrontare l’Ajax senza timori riverenziali.

Ma nel calcio, aldilà dei proclami, conta il riscontro del campo. In questo senso, non sono gli schemi e i ruoli a governare le azioni: ciò che vale davvero è l’atteggiamento e l’intensità agonistica dei giocatori, la loro determinazione a conseguire l’obbiettivo. (“Nel calcio vince chi ha più fame”, esemplificò efficacemente il concetto un grande allenatore come Marcello Lippi, anni dopo, alla vigilia della finale della Coppa del Mondo 2006).

Ebbene, quella sera a Belgrado, nessuna di queste caratteristiche venne mostrata dai giocatori bianconeri. Invece, entrò in campo una squadra dimessa, divorata dalla tensione e paralizzata dalla paura. Giuseppe Furino: “Aldilà del valore dell’Ajax, noi subimmo un pò l’impatto della finale e quindi l’emozione di affrontare una partita così importante e probabilmente questa emozione ci giocò un brutto scherzo”[3].

A posteriori, furono individuate molteplici cause che produssero quell’atteggiamento passivo nei giocatori, quasi una “trance negativa”. Innanzitutto il luogo e la durata  del ritiro prima della finale. La squadra fu alloggiata all’Hotel Varadin, una fortezza ristrutturata che dominava sul Danubio dalla collina di Novi Sad, quasi a rimarcare una situazione di desiderato isolamento: “La Juve è in ritiro in Jugoslavia da cinque giorni, e sta vivendo una specie di clausura da monastero, arroccata a Novisad, a 90 km da Belgrado. L’Ajax è arrivata in città il giorno prima della partita, ed i giocatori sono in albergo con mogli, fidanzate e tifosi al seguito”[4]

Giampiero Boniperti individuò,  un’ulteriore, curiosa, ragione di questo atteggiamento negativo: “Quell’Ajax era fortissimo, ma anche noi ci mettemmo del nostro: Il riscaldamento pre partita effettuato in un campetto laterale, in modo che i giocatori al loro ingresso in campo, in uno scenario struggente, furono letteralmente paralizzati dall’emozione. Per 20 minuti la Juve non toccò palla».[5] La trance negativa è confermata anche da Roberto Bettega: «Ho giocato centinaia di partite a tutti i livelli, ma quella di Belgrado è l’unica della quale io non sappia spiegare nulla. Il che la dice lunga sullo spirito con cui l’affrontammo».13

Fatto sta che nelle fasi di avvio dell’incontro, la squadra bianconera parve in totale balia dell’avversario: il gol subito dopo soli 5 minuti, fu una conseguenza logica.

L’azione della rete vale più di mille parole per spiegare l’andamento di quella partita ed i valori espressi in campo. Su un calcio d’angolo battuto troppo lungo dall’Ajax, la palla scivolò verso la linea di fondo dalla parte opposta del campo. Il libero juventino Salvadore se ne impossessò e cercò di far ripartire l’azione toccando il pallone in disimpegno verso Causio, all’altezza della trequarti juventina. In questa fase, nel campionato italiano dell’epoca, il centrocampista avrebbe avuto tutto il tempo di stoppare il pallone, girarsi, e proseguire l’azione, magari con un lancio in avanti a scavalcare il centrocampo. Contro L’Ajax, tutto questo non fu possibile. Al momento di ricevere il pallone, infatti, Causio subì immediatamente la pressione del difensore Blankenburg, per cui cercò di scaricare in qualche modo la palla su Capello, anche lui pressato da Neskeens. Ma il pallone carambolò sul ginocchio di Capello e tornò a Causio il quale, sempre incalzato da Blankenburg commise un altro errore forzato, ed il colpo di tacco che doveva servire di nuovo il compagno uscì in fallo laterale. Sulla rimessa, cominciò un’ azione insistente dell’Ajax: Blankenburg scambiò il pallone con Neeskens, sempre nella trequarti juventina, e lentamente guadagnò metri in avanti. Contemporaneamente Crujff sembrò disinteressarsi dell’azione e, spalle alla porta juventina, indietreggiò verso il centrocampo. Questo movimento parve disorientare lo stopper juventino Morini, a cui nella disposizone della difesa a  uomo della squadra italiana toccava la marcatura del fuoriclasse olandese. Morini, infatti, uscì dall’area di rigore e andò  verso Crujff, poi si fermò in mezzo alla trequarti ad aspettarlo, il passo incerto, come se non sapesse cosa fare, mentre Neeskens e Blankenburg si scambiavano il pallone ripetutamente a pochi metri da lui. L’uscita di Morini dall’area di rigore creò uno spazio in cui si fiondarono i centrocampisti e gli attaccanti olandesi: il cross morbido di Blankenburg venne incrociato dal colpo di testa dell’accorrente Rep, che in potente elevazione bruciò Longobucco e spizzò il pallone di testa. Ne venne fuori una  traiettoria maligna a parabola, sulla quale Zoff fu nettamente sorpreso: cercò di rincorrere goffamente il pallone per poi tuffarsi rovinosamente dentro la porta in un disperato tentativo di respingere una palla già in rete.

Di quella parabola maligna è tornato a parlare il portiere juventino di recente: “Il gol di Rep non fu straordinario: su un cross lungo entrò quasi con la nuca, fece una specie di pallonetto sul secondo palo: non bello da vedere ma imprendibile.”[6]  Lo stesso attaccante olandese pare confermare la tesi di Zoff, riconoscendo con signorilità un certa dose di fortuità nel suo gesto atletico: “Saltai con Longobucco e sfiorai la palla, che con strano effetto scavalcò Zoff. Provai incredulità.”[7]

Aldilà della casualità o meno del colpo di testa, il calcio totale olandese, un mix di tecnica e forza atletica, si manifestò in tutta la sua potenza e magnificenza tramite quell’azione al 5’ del primo tempo. Per il resto, la partita fu un lungo monologo dell’Ajax, che però non andò oltre ad un possesso palla privo di ulteriori pericoli per la porta difesa da Zoff. Gli olandesi si limitarono a controllare la gara, dando l’impressione di accontentarsi di amministrare il vantaggio, in ciò incoraggiati anche dalla pochezza dell’avversario. La Juventus, infatti, non fu in grado di imbastire un’azione davvero pericolosa per quasi tutta la durata della partita. Certo, l’emozione non costituì l’unico motivo della prestazione negativa. Sin dalle prime fasi di gioco, infatti, fu evidente come la squadra bianconera fosse sbilanciata: i tre attaccanti apparvero isolati e, lungi dal costituire un pericolo per la difesa avversaria, erano molto lenti nel rientare ad aiutare i centrocampisti. Questi ultimi si ritrovarono sistematicamente in inferiorità numerica e vennero sopraffatti dalla manovra olandese, cui partecipavano pure i terzini Krol e Suurbier e il libero Blankenburg. Come confermò Giuseppe Furino: “Era una formazione troppo sbilanciata in avanti in quanto giocavamo con tre punte come Altafini, Bettega e Anastasi: probabilmente era un lusso che non potevamo permetterci contro un avversario simile” 11. Ancora una volta, sono le statistiche che rendono bene la realtà dei fatti: l’unica,  vera, palla-gol juventina del primo tempo si concretizzò solo al 42’: su un errato disimpegno degli olandesi, il pallone venne smistato a Furino sul cui cross a centro area, perfetto, Bettega impattò male la sfera di testa, indirizzandola debolmente tra le braccia di Stuy. Un errore non provocato, in quanto l’attaccante era completamente libero, e ancora più inspiegabile considerando come il colpo di testa fosse una specialità del bomber juventino, il suo tiro vincente. Nel secondo tempo il copione della partita non subì cambiamenti. L’allenatore juventino Vickpalek, forse tardivamente, cercò di riorganizzare la squadra inserendo Haller e Cuccureddu, al posto rispettivamente di Bettega (al 63’) e di Causio (al 73’): praticamente la bocciatura del tridente, a beneficio  di una formazione più compatta a centrocampo. Ma la duplice mossa non produsse effetti concreti. L’Ajax ridusse le sue folate offensive e aumentò il possesso palla con l’unica finalità di arrivare alla fine della partita, i  bianconeri cercarono con iniziative sempre più sporadiche e individuali l’azione del pareggio senza successo. L’unica occasione del secondo tempo giunse al 65’: Marchetti anticipò Keizer a limite dell’ area juventina appoggiando a Capello, il cui lancio di 40 metri pescò Altafini nell’area di rigore olandese: ma l’italo brasiliano, sfiancato dal lungo scatto (e dai 35 anni di età), arrivò “in apnea” sul pallone, e il suo tiro si risolse in un passaggio al portiere Stuy.

Troppo poco, per una finale di Coppa dei Campioni in cui si hanno a disposizione 85 minuti per recuperare una rete di svantaggio. Troppo poco, considerando che l’avversario, per quanto forte, non stesse comunque offrendo una delle sue migliori prestazioni. Come rivelò lo stesso Joann Crujff: “Fu la terza. Forse la nostra peggiore partita, quella in cui si incominciarono a vedere segnali di declino da parte nostra”[8]. Ecco quindi che al termine della partita, mentre gli olandesi festeggiavano la coppa in mezzo al campo indossando le maglie bianconere appena scambiate con gli juventini, un certo senso, se non di rabbia, ma almeno di rammarico si manifestò da parte dei bianconeri veri. Come di un’occasione mancata, nel senso di non aver giocato con la dovuta spensieratezza e convinzione le chances per ottenere la vittoria. Joan Crujff in maglia bianconera che solleva la Coppa dei Campioni resta forse l’immagine più famosa e involontariamente beffarda della finale di Belgrado del 1973: la prima finale della Juventus e soprattutto il primo scacco, in una partita mal giocata, o forse addirittura non giocata.

Le analisi tecniche della sconfitta concordarono nell’evidenziare lacune psicologiche e tecnico tattiche, oltrechè nel riconoscere giustamente i meriti dell’avversario. Sempre l’acuto Giovanni Arpino, però, fece anche una curiosa osservazione sulle facce dei giocatori: “Sono entrati in campo con gli sguardi smarriti, da Zoff a Josè. Come bambini.” Probabilmente, al lettore dell’epoca, al tifoso, parve una metafora pittoresca, una licenza poetica e nulla di più, del tutto trascurabile rispetto al profluvio di commenti tecnici che cercò di spiegare i motivi dell’insuccesso. Invece quello sguardo, quel bambino impaurito, resterà immutabilmente incombente, quasi ad impadronirsi delle espressioni dei giocatori bianconeri che in tempi successivi si troveranno a giocare una finale di Champions League.

 

 

 

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Albo_d%27oro_della_UEFA_Champions_League

[2] “Champions League 1972/73, in https://www.youtube.com/watch?v=LTCwYdjUQKM

[3] Intervista a Giuseppe Furino, “La Juve e la Coppa : Belgrado 1973, Atene 1983, Bruxelles 1985” in https://www.youtube.com/watch?v=cT8YefzgZD4

[4] JUVEFINALS Belgrado 1973 - La storia di...Ajax-Juventus, in https://www.youtube.com/watch?v=7RqFtZAufsE

[5] Da: “La storia della Juventus” 1986 di Romeo-Perucca-Colombero, in http://ilpalloneracconta.blogspot.co.uk/2011/12/ajax-juventus.html

[6] Intervista a Dino Zoff, “Champions League 1972/73, in https://www.youtube.com/watch?v=LTCwYdjUQKM

[7] Da: “Longobucco: il gol di Rep era da annullare” in, http://www.gazzetta.it/Calcio/12-08-2009/longobucco-gol-rep-501016123576.shtml

[8] Intervista a Joan Cruijff, “Champions League 1972/73, in https://www.youtube.com/watch?v=LTCwYdjUQKM