Calcio e politica: un binomio impossibile. A maggior ragione in Italia, patria del campanilismo e delle guerre di fazioni. In ambito sportivo, poi, una rigida separazione si è resa necessaria non solo per evitare ulteriori polemiche ma anche a garanzia della stessa autonomia del movimento. Ma se la politica è un “taboo” riconosciuto e rispettato, la filosofia della politica non  può essere assoggettata ad alcun limite o divieto per la sua natura più alta rispetto alla politica stessa della quale, anzi, costituisce il presupposto: la filosofia politica, infatti, è lo studio dei concetti, dei fondamenti e dei modelli dell'attività politica.
Da questo assunto, è sorta la domanda che funge da premessa di questo articolo: quali sono le idee filosofiche ispiratrici del gioco del calcio? E’ possibile desumere i grandi movimenti di pensiero dall’analisi dei... movimenti in campo dei giocatori di una squadra di calcio? Quali sono i pensieri degli allenatori?  L’indagine, non esaustiva, condotta con metodo logico-deduttivo, ha fornito alcune risposte interessanti.

Assolutismo monarchico

Tutto il potere è nelle mani di una singola persona, il Sovrano, che lo esercita in nome di Dio, erigendosi al di sopra di ogni legge e di ogni uomo. Proprio in virtù di questo diritto divino tutti gli devono obbedienza cieca[1]. E chi, in ambito calcistico, ha incarnato meglio tale figura se non il tecnico portoghese Josè Mourinho? La legittimità del suo potere deriva da un elemento straordinario che lo avvicina molto ad una divinità: “Vi prego di non chiamarmi arrogante, ma sono campione d’Europa e credo di essere speciale. Se avessi voluto un lavoro facile sarei rimasto al Porto: una bella sedia blu, una Champions League, Dio, e dopo Dio, io"[2]. Queste le parole con cui l’allenatore portoghese, fresco vincitore della Champions League con il Porto, si presentò nella conferenza stampa del suo insediamento alla guida del Chelsea, il 10 luglio 2004. La gestione delle sue squadre è sempre stata fondata su un presupposto: l’obbedienza assoluta dei giocatori. Solo una dedizione cieca permise, ad esempio, al pluricampione Samuel Eto’o di giocare all’ala destra nell’Inter che avrebbe vinto il “triplete”, mentre sulla fascia opposta un altro attaccante, Igor Pandev, macinava chilometri su e giù , anche lui al servizio della causa. La devozione al sovrano deve essere incondizionata, sempre. Anche nei momenti difficili. A Madrid Josè si trovò impastoiato nella lotta impossibile contro il Barcellona del “tiki-taka” di Pep Guardiola. Alla vigilia della finale di Coppa del Re, nell’Aprile 2011, il tecnico rispose così al vicepresidente  Alfredo Di Stefano, leggenda madridista vivente, che lo aveva criticato per il gioco troppo difensivo delle merengues contro i blaugrana nel confronto precedente di campionato: “Devo rispettare e non commentare il suo pensiero, ma l'allenatore sono io e decido io.” [3] La versione della stampa estera è ancora più netta: “Io sono l’allenatore”, ripetè “Che ci volete fare? Sono io e decido io”[4]. Quale che sia l’esatto resoconto, esso rappresenta una rivendicazione orgogliosa della propria autorità, da monarca autentico: “L'État c'est moi!”. Josè Mourinho come Luigi XIV, 300 anni dopo.

Socialismo

Il socialismo è un ampio complesso di ideologie, orientamenti politici, movimenti e dottrine che tendono a una trasformazione della società in direzione dell'uguaglianza di tutti i cittadini sul piano economico, sociale e giuridico[5]. Nell’estate 1976, il giovane e rampante allenatore Pippo Marchioro fu chiamato alla guida del Milan del neo-presidente Duina. Milanese di Porta Garibaldi, di padre operaio, il nuovo tecnico era salito alla ribalta nella stagione precedente per aver condotto il Cesena al 6° posto in Serie A, e conseguentemente ad una storica qualificazione in Coppa Uefa (risultato mai più raggiunto dai romagnoli).
Fautore di un gioco corale fondato su corsa, pressing e marcature a zona, a chi gli chiedeva delle anticipazioni sul nascituro Milan, rispose senza giri di parole: “Sarà un Milan socialista. Una squadra dove tutti sono uguali, una famiglia semplice nella quale l’etichetta o peggio i diritti che si suppongono acquisiti non hanno più ragione di esistere”.[6] Nella società socialista, la felicità individuale coincide con il benessere della collettività, da raggiungersi con l’abolizione delle classi sociali.
Analogamente, la squadra rossonera avrebbe conseguito il successo attraverso un gruppo coeso in cui il singolo rappresentava  solo un ingranaggio di un entità superiore, il gruppo. Un primo indizio di quanto l’allenatore milanese facesse sul serio si palesò dalla numerazione assegnata alla squadra: a seguito del cambiamento della posizone in campo (venne decentrato sul centro destra) Gianni Rivera perse la mitica maglia numero 10, e gli venne assegnato il 7. Un pò come togliere il 10 a Maradona o a Totti. Quel provvedimento è intriso di materialismo storico: il numero è solo una convenzione per identificare una posizione in campo, indipendentemente dall’individuo che la ricopre, nonchè funzionale allo svolgimento del gioco, vero bene supremo.
Tutta la magia, la carica emotiva evocata da quella doppia cifra nei cuori dei tifosi, evaporata. Meazza, Puskas, Pelè, Eusebio, Sivori: fino ad allora, il numero dieci nel calcio aveva rappresentato la classe, la fantasia, la nobiltà dell’interprete che lo portava sulla maglia. Ma la costruzione del nuovo stato socialista, si sa, deve passare necessariamente anche attraverso la distruzione di ogni tradizione e legame con il passato, ogni falso mito che possa intralciare il cammino verso il raggiungimento della vera felicità. A questo fine, ulteriore elemento essenziale nella costruzione dell’Uomo Nuovo è l’indottrinamento: solo l’individuo debitamente istruito è in grado di applicare con profitto la teoria. L’assunzione a Milanello di una psicologa e l’utilizzo del “training autogeno” rappresentarono di fatto uno strumento di persuasione per liberare le menti dei giocatori e prepararle ad accogliere il novellato verbo con serenità e fiducia: “Qui bisogna creare il coraggio, la consapevolezza di valere dall’interno”[7].  E’ Il principio gramsciano dell’importanza dell’egemonia culturale come premessa fondamentale per l’assunzione del potere, mediante la persuasione razionale e l'influenza sentimentale. 

Ma ogni teoria deve passare al vaglio della realtà e della storia, ed anche il “Milan socialista” non potè sottrarsi al brutale confronto con il mondo reale: il campo da gioco. I rossoneri faticarono subito in campionato: nelle prime 4 giornate, 1 vittoria 2 pareggi ed 1 sconfitta. I tifosi seguivano con preoccupazione crescente l‘andamento della squadra. Ma fu solo dopo la bruciante disfatta a San Siro contro la Juventus 2-3 (con i rossoneri in vantaggio per 2-0 dopo 17’) che apparve evidente come  il laboratorio rossonero fosse solo un’utopia e il “paradiso socialista” non si sarebbe mai realizzato. Anche la crisi milanista presenta elementi comuni con i limiti dell’ideologia. L’applicazione del socialismo non tiene conto della complessità del fattore umano, che non è riconducibile ad una macchina da istruire e governare, ma anzi è regolato anche da passioni irrazionali imprevedibili: l’Uomo Nuovo non poteva essere forgiato semplicemente perchè la premessa su cui si fondava non trovava riscontro nella realtà. Alla stessa maniera, il Milan di Marchioro non era in grado di funzionare poichè le caratteristiche fisico-tecniche dei giocatori mal si adattavano ai requisiti richiesti dal gioco a zona.
L’emblema della distonia fu il centrocampo: i ritmi compassati e ragionati di Capello e Rivera non potevano garantire il dinamismo e il pressing richiesti, ed inoltre risultarono mortificate le loro qualità di geometria e di inventiva in mezzo al campo. Il Milan concluse il girone di andata in 13^ posizione,  con 9 pareggi 4 sconfitte e 2 sole vittorie: una media da retrocessione. Diversamente dalle democrazie popolari però, non si fece ricorso ai carri armati per imporre l’”Idea” con altri mezzi di persuasione, ma il presidente Duina si risolse ad avviare l’inevitabile processo di Restaurazione. A seguito dell’ennesimo, scialbo pareggio casalingo (0-0) contro il Cesena (ironia della sorte, la squadra che lo aveva lanciato), Pippo Marchioro terminò la sua avventura al Milan e fu sostituito dal sacerdote della tradizione a strisce rosso nere: Nereo Recco, il “Paròn”.

Machiavelli e la scuola italiana

Niccolò Machiavelli è considerato il fondatore della teoria politica moderna[8]. Con lui la politica assurge per la prima volta a scienza autonoma, ossia indipendente dalla morale e dalla religione. Nel suo scritto più celebre, “Il Principe” sono elaborati i principi dell’azione politica che scaturiscono da quella separazione. Partendo da una visione pessimista degli uomini –“ingrati, volubili, simulatori e dissimulatori”, il politico fiorentino afferma che lo statista ideale deve mettere in campo una pluralità di qualità (Virtù) per garantire il perpetuarsi del Regno (Ragion di Stato) fronteggiando ogni avversità potenziale  esterna (Fortuna). Tra queste caratteristiche sono comprese  anche l’uso della forza e l’astuzia (capacità di essere "simulatore e gran dissimulatore")[9].  L’uso della violenza e dell’inganno è da considerarsi lecito proprio perchè la politica è regolata da leggi specifiche che non sono quelle della morale e della religione, bensì dalla ragion di stato: un uomo politico virtuoso è colui in grado di garantire la continuità del regno con ogni mezzo.

Una simile visione utilitarista e disincantata della realtà è ravvisabile nella tradizione della grande scuola calcistica italiana che dominò per almeno un trentennio dagli anni ’40 fino alla fine degli anni ’70. I suoi alfieri furono  Gipo Viani (allenatore della Salernitana 1947-48) e soprattutto Nereo Rocco ed Helenio Herrera, che condussero Milan e Inter sulle vette europee e mondiali grazie al “Catenaccio” e al “Contropiede”. Anche a fondamento di questo sistema di gioco vi è una visione pessimista del calciatore italico: come svelato da Gianni Brera( teorico ed esegeta di Nereo Rocco), esso non era in grado di competere con quello europeo sul piano atletico e della corsa, per propri limiti antropologici. Partendo da tale premessa “scientifica” era necessario escogitare un sistema non solo atto a neutralizzare questo gap fisico, ma anche a valorizzare le caratteristiche positive dei nostri calciatori: l’estro, l’astuzia e la rapidità. Nacque il “Catenaccio” (termine coniato proprio da Gianni Brera). Dal punto di vista tattico, si toglieva un attaccante dal modulo WM per arretrarlo dietro la linea dei tre difensori, senza compiti di marcatura fissa, ma di volta in volta a coprire le falle che si aprivano sul fronte arretrato: nasceva il “Libero”. Le implicazioni di questo modulo sullo svolgimento del gioco furono subito chiare: la squadra era bloccata nella propria metà campo ad aspettare l’avversario, ma pronta a sfruttare l’errore dei rivali per sorprenderli, d’infilata, con rapidi capovolgimenti di fronte resi possibili dallo sbilanciamento degli stessi. Il machiavellismo insito in questa interpetazione del gioco è piuttosto evidente. Un approccio diffidente verso il domani (la partita), considerato ostile e foriero di pericoli, da cui innanzitutto cautelarsi, riassumibile nel“primo non prenderle”. Ma anche, attitudine a cogliere con destrezza le occasioni favorevoli, con astuzia e coraggio. Accadeva così che una squadra quasi dimessa, tutta raccolta sulla propria linea difensiva in un atteggiamento che pareva auspicasse una chiusura delle ostilità in parità, improvvisamente si destasse da quello stato di prudente inazione per colpire senza pietà il proprio avversario, proprio nel momento in cui questi credeva di essere ad un passo dal trionfo. Il contropiede è la realizzazione calcistica dell’ ”essere volpe e leone” machiavellico. Una tale maniera di intendere il football incontrò subito gli strali di una parte della critica.
Gli esteti del pallone criticarono aspramente il difensivismo rinunciatario dei “catenacciari”, che a loro modo di vedere, costituiva un grave pregiudizio alla bellezza del gioco a scapito dello spettacolo. La risposta degli italianisti si fondava, anche qui machiavellicamente, sul principio che la bontà del gioco  doveva essere valutata esclusivamente in funzione della capacità di condurre alla vittoria e non su basi estetiche (ad esempio, numero di gol segnati). La ragion di stato calcistica, la vittoria, era l’unica chiave di riferimento per giudicare la validità di un sistema di gioco. Anzi, proprio da tale assunto Gianni Brera si spinse oltre, fino a negare addirittura che la partita con tanti gol fosse sinonimo di spettacolo: “I molti gol fanno vedere gli errori di difese troppo larghe e la facilità eccessiva di attacchi facilitati, appunto, dagli spazi troppo larghi”.[10] La polemica divampò per almeno un trentennio, durante il quale il gioco all’italiana ebbe modo di guadagnarsi se non stima incondizionata ma almeno un dignitoso rispetto: le Coppe dei Campioni e Intercontinentali vinte da Rocco ed Herrera rispettivamente con Milan e Inter negli anni sessanta ne certificarono l’indubbia efficacia. Negli anni settanta, sulla spinta delle novità che venivano dal nord europa, all’insegna di un gioco molto più dinamico e atletico, una certa evoluzione parve investire anche il calcio nostrano, i cui artefici di maggior successo furono proprio  due  allievi di Nereo Rocco: Giovanni Trapattoni e Gigi Radice. In estrema sintesi, la marcatura a uomo a tutto campo venne abbandonata a beneficio di una zona – mista che garantiva una migliore fluidità di manovra ed un maggior coinvolgimento di uomini alla fase di attacco (compreso i terzini).  Tale modulo consentì a Gigi Radice di conquistare uno storico scudetto con il Torino nella stagione 1975-76, e soprattutto lanciò il ciclo vincente della Juventus trapattoniana degli anni settanta. Tuttavia, un elemento di continuità con il catenaccio del “Paron” Rocco, e quindi con il machiavellismo,  persisteva: la solita visione pessimista del mondo esterno, con un ansia di prevenire gli eventi vissuti come minacce da cui difendersi con ogni mezzo. In effetti, le squadre italiane in Europa nel decennio soffrirono un complesso di inferiorità piuttosto evidente e la Coppa Uefa conquistata dalla Juventus nel 1977 risultò un (epico) episodio isolato. La mossa tattica del Trap, che  inseriva sistematicamente un centrocampista od un difensore al posto di un attaccante nelle sfide di coppa in trasferta, vale più di mille analisi per spiegare lo spirito che ancora animava una certa maniera di intendere il calcio. Occorreva una rinnovamento più profondo, più radicale che andasse ad investire il mondo delle idee: la rivoluzione di Arrigo Sacchi era alle porte.

Idealismo  (trascendentale)

Il pensiero di Immanuel Kant produce nella filosofia un effetto dirompente: un’autentica “rivoluzione copernicana”. Come Copernico aveva messo al centro dell’universo il sole al posto della terra, parimenti il filosofo tedesco inverte il rapporto tra uomo e natura: “Prima della rivoluzione era l'uomo (soggetto) a doversi adattare alla natura (oggetto), adesso col ribaltamento dei ruoli sarà la natura a doversi adattare all'uomo”.[11] La realtà conoscibile (fenomeno) è un prodotto della mente umana, che è parte attiva nel processo conoscitivo. Ne consegue che è l'idea il principio primo da cui nasce e si deduce la realtà.

Un’evidente ispirazione idealista caratterizza l’avvento di Arrigo Sacchi: Il calcio è lo svolgimento di un’idea. Il bel gioco la risultante di una superiore conoscenza applicata attraverso l’adozione di schemi e moduli, ripetuti ossessivamente, fino a rasentare la perfezione. La vittoria è pertanto l’oggetto della conoscenza, che si realizza tramite una corretta applicazione di schemi e movimenti. “Non facevo parte di quel gruppo di persone che dicono: ‘mio figlio non studia mai ma è il più bravo di tutti. No, io ho sempre creduto che lo studio, l’applicazione, la voglia di migliorarsi fossero elementi imprescindibili. E quindi chi non lavorava non lo volevo.[12]” Ma c’è di più. Il pensiero kantiano finiva per contrapporsi al machiavellismo proponendo il politico morale, “ovvero quel politico che subalterna le scelte politiche (i mezzi) al bene della società (il fine)”[13]. Un medesimo razionalismo etico pervade il pensiero sacchiano: la vittoria (il fine) deve essere conseguita solo attraverso il bel gioco (il mezzo). E’ questo il postulato che fece entrare in rotta di collisione il profeta di Fusignano con la tradizione della scuola italiana, incentrata su una visione realista (tattica) e pessimista (scettica) del mondo esterno.
Secondo Arrigo invece, “finché continueremo a preoccuparci troppo del risultato non avremo mai gioco. In altre paesi, il calcio è uno spettacolo sportivo; ciò vuol dire che l’estetica ha una sua parte.”[14] Di questa grande contrapposizione che animò l’arte pedatoria italica a cavallo degli anni ottanta e novanta si ricordano due momenti. Il primo alla vigilia della sfida in Coppa dei Campioni contro il Real Madrid del 1989, nella semifinale di ritorno. La partita al Bernabeu si era conclusa con un pareggio 1-1 che non rendeva conto della supremazia che il Milan aveva effettivamente esercitato. Il retour-match di San Siro rappresentava pertanto l’occasione per i rossoneri di ribadire la loro superiorità. Da un racconto di Candido Cannavò: “Arrigo Sacchi riunì la squadra e - siccome Gianni Brera aveva scritto uno di quegli articoli in cui dava tutti i suggerimenti, marca questo, marca quello, cerca il contropiede, eccetra – prese questo articolo e disse, rivolgendosi ai calciatori: ‘Signori, io sono un democratico, andate a decidere voi; dobbiamo giocare come dice Gianni Brera oppure...?’. Beh, il Milan giocò con ‘oppure’, e vinse quella partita 5-0”[15]. In effetti, la storica vittoria nella semifinale contro il Real Madrid rappresentò forse la massima realizzazione del Sacchi-pensiero, attraverso le gesta di un Milan definito “la squadra più forte della storia. La cima della gloria”[16]. Il secondo episodio a Pasadena, Stati Uniti, sede della finale di Coppa del Mondo del 1994, Italia – Brasile. Nella conferenza stampa della vigilia Arrigo Sacchi, Commissario Tecnico degli azzurri, annunciò euforicamente che per la prima volta dal dopoguerra l’Italia avrebbe giocato una finale mondiale senza lo “Stopper” ed “Libero”. In quella circostanza la partita non fu all’altezza delle attese e degli entusiasmi che la precedettero, ma anzi con il senno del poi, decretò l’inizio della parabola discendente dell’allenatore di Fusignano che aveva cambiato per sempre il calcio italiano.

Idealismo (assoluto)

La concezione di calcio sacchiana, fondata sull’elemento spettacolare del gioco d’attacco, aveva comunque la finalità ultima di conseguire la vittoria. Vincere attraverso il bel gioco, costituiva un chiaro obiettivo strategico che sotto il profilo dell’ estetica finiva per rappresentarne un limite. Un tale confine viene superato dagli interpreti più estremi del calcio offensivo, all’insegna dello spettacolo puro: Zeman e Galeone, possono essere considerati i rappresentanti più famosi di questa idea estrema di calcio.  Per essi, Il bel gioco è strumento e fine allo stesso tempo: “Perchè il risultato è casuale, la prestazione non lo è”. Una concezione hegeliana per cui il razionale e il reale non sono separabili ma sono momenti di un medesimo processo dialettico. “Nel calcio occorre segnare un gol in più dell’avversario”.
La dialettica  del divenire anima il 4-3-3 di Zdenek Zeman. Caratteristica peculiare delle sue squadre è la prolificità in zona gol: Il Foggia e il Pescara ad esempio, esibirono il migliore attacco del campionato (tesi),ma anche un altrettanta perforabilità in difesa, che le rendeva tra le più vulnerabili (antitesi). Il successo o  la disfatta alla fine del campionato scaturivano proprio dal confronto tra le virtù dell’attacco e i difetti del reparto difensivo (sintesi). Uno spirito infinito anima il pensiero idealista, per cui la realtà - un tutto organico - non è altro che il suo manifestarsi nella storia. Una medesima visione unitaria ispira la concezione calcistica di Giovanni Galeone: “Si va in campo per vincere, indipendentemente dal valore e dall'organizzazione dell'avversario”. Da ciò deriva pure il corollario dell’immutabilità dello schema di gioco, prescindendo dalle caratteristiche e dal valore dell’avversario. Il gioco di attacco è una questione di mentalità, con cui non si può venire a compromessi.
Questi sono i comuni principi ispiratori la cui realizzazione concreta diede forma ad alcune delle più belle realtà nella storia del panorama calcistico nazionale. Come non dimenticare le gesta del Pescara targato Galeone del triennio 1986-89? Un gruppo costruito per disputare il campionato di serie C1, per una questione di ripescaggi si trovò catapultato nella serie cadetta, e da lì conseguì una sorprendente promozione in Serie A. Era la squadra del tridente Pagano-Rebonato-Berlinghieri, giocatori che grazie al gioco di Galeone raggiunsero una dimensione di eccellenza mai più mantenuta dopo avere indossato una maglia diversa da quella pescarese. Il primo anno In serie A i biancazzurri riuscirono persino a conquistare un’altrettanto clamorosa salvezza, un unicum nella storia del club abruzzese, impreziosita dalle vittoria in trasferta a San Siro contro l’Inter nella partita di esordio (2-1), ed in casa contro la Juventus (2-0).

Una grande prolificità in zona gol accompagnò l’esplosione del Foggia di Zdenek Zeman degli anni novanta: “Zemanlandia” era molto di più di una squadra, era una mentalità che entrò in simbiosi con una città, facendola sognare. Un altro 4-3-3, un altro tridente balzò agli onori della cronaca calcistica: Rambaudi-Baiano- Signori lanciarono le ambizioni dei rossoneri pugliesi. Dopo avere conquistato la serie A, i foggiani riuscirono a rimanere 3 anni consecutivamente nel massimo campionato, arrivando nel 1992 ad ottenere un 9° posto con il secondo miglior attacco del campionato dietro al Milan. In tempi più recenti, il tecnico boemo tornò alla ribalta con un nuovo spettacolo di gioco e di gol: il Pescara di Zeman vinse il campionato di Serie B con 90 reti realizzate (miglior attacco del torneo) ma anche 55 subite, rifilando 6 reti al Vicenza in casa e 6 reti in trasferta al Padova, lanciando nel firmamento calcistico Ciro Immobile, Lorenzo Insigne e Marco Verratti.

Secondo Pep Guardiola: “Gente come lui al calcio fa solo bene”.[17]  Per Josè Mourinho, invece: “ma dove gioca questo Zeman? Ah, è un allenatore. Non lo sapevo... Ora che sono in vacanza ho un sacco di tempo libero, mi informerò su Google cosa ha fatto e cosa ha vinto..”[18]. Sempre al centro di polemiche, mai disposti al compromesso: è questa l’eredità che i profeti del bel gioco lasciano alle nuove generazioni di tecnici in Italia e nel mondo, assieme a schemi, tagli in profondità, pressing, difese alte, e naturalmente gol, tanti gol.

 

[1] https://it.wikipedia.org/wiki/Assolutismo_monarchico

[2] www.gazzetta.it/Calcio/Premier-League/17-12-2015/mourinho-10-frasi-celebri-special-one-zero-tituli-monaco-nemici-1301324593746.shtml

[3] https://www.gazzetta.it/Calcio/Estero/Liga/19-04-2011/mourinho-contro-stefano-80908676202.shtml

[4] https://www.reuters.com/article/idINIndia-56453620110420

[5] https://it.wikipedia.org/wiki/Socialismo

[6]  Eveno Visioli, “Con la giovin signora il Milan guarirà”, Corriere della Sera, 4 agosto 1976;

[7] Eveno Visioli, cit.;

[8] https://it.wikipedia.org/wiki/Niccol%C3%B2_Machiavelli

[9] https://it.wikipedia.org/wiki/Il_principe

[10] https://www.youtube.com/watch?v=bjsd_6YrLCE

[11] https://it.wikipedia.org/wiki/Rivoluzione_copernicana

[12] https://www.youtube.com/watch?v=wx1-1uwyZxE

[13] https://it.wikipedia.org/wiki/Storia_delle_dottrine_politiche_moderne

[14] https://www.youtube.com/watch?v=F9DIUUZBrjk

[15] https://www.youtube.com/watch?v=bjsd_6YrLCE

[16] https://www.gazzetta.it/Calcio/Serie-A/13-01-2018/sacchi-sarri-futuro-napoli-ha-vinto-allegri-insegui-bellezza-240889126688.shtml

[17] https://www.youtube.com/watch?v=pmLdLCwkux0

[18] https://it.wikiquote.org/wiki/Zden%C4%9Bk_Zeman