“Io chiedo come può l'uomo, uccidere un suo fratello. Eppure siamo a milioni, in polvere qui nel vento.”

Come ogni 27 Gennaio, il mondo si stringe in un forte abbraccio per ricordare le vittime dell’Olocausto. 78 anni fa le truppe delle Armate Rosse liberano il campo di concentramento di Auschwitz. L’apertura dei suoi cancelli mostrò al mondo intero l’inferno sulla Terra che moltissimi uomini, donne e bambini stavano vivendo in quegli anni, di cui ad oggi possono parlare solo alcuni testimoni. Spesso si dimentica che l’Olocausto ha colpito anche il mondo del calcio: giocatori, allenatori e presidenti che costituiscono la generazione d’oro del calcio ebraico, storici personaggi la cui vita è stata spazzata via dal passaggio del Nazismo in Europa. In quanto giorno della Memoria, e data la sede in cui ci troviamo, è doveroso rievocare i nomi di alcune delle vittime dell’Olocausto provenienti dal mondo del calcio, un mondo a cui spesso si chiede di lasciare da parte la politica, ma quest’ultima con il calcio, spesso si rivela non essere poi così tanto gentile.

Józef Klotz, 41 anni, Cracovia.
In Polonia si parla solo del giovanissimo Jòzef Klotz, quel ventiduenne di Cracovia che ha fatto la storia della Nazionale polacca segnando la prima rete della storia della Polonia, il 28 Maggio 1922, goal che porta la squadra in vantaggio nel match in casa della Svezia, la terza partita internazionale della squadra. Klotz ha giocato per due club, il Jutrzenka Kraków, come giocatore della squadra giovanile dal 1912 al 1925, e poi per il Maccabi Warszawa dal 1925 al 1929. Entrambe erano squadre di minoranza ebraica. Si ritirò dal calcio giocato nel 1930. Klotz era ebreo, e in qualche modo i tedeschi lo vennero a sapere. Fu imprigionato nel ghetto di Varsavia nel 1940 e assassinato nel 1941. Muore a 41 anni. Nel 2019, Klotz è stato premiato dalla Federcalcio polacca.

Leon Sperling, 41 anni, Lwów.
Leon Sperling
viene ricordato come il protagonista assoluto della vittoria di ben tre campionati del KS Cracovia, in cui giocava nel ruolo di ala sinistra dal 1921 fino al 1932. Dribbling da capogiro e assist di una precisione millimetrica che hanno fatto la storia del campionato polacco. Con la Nazionale ha preso parte alle Olimpiadi del 1924 e in tutto ha giocato ben 16 partite, tra cui quella della vittoria in Svezia aperta da Klotz a Stoccolma. Anche Sperling era ebreo. A lui i tedeschi spareranno nel ghetto di Leopoli nel 1941. Anche lui muore a 41 anni.

Otto Fischer, 40 anni, Liepāja.
Otto Fischer
è stato un calciatore e allenatore di calcio austriaco di origine ebraica. Nasce a Vienna nel 1901 e visse in Austria, Italia, Cecoslovacchia, Croazia, prima di stabilirsi a Liepāja in Lettonia nel 1936, dove oltre che allenatore svolse anche la professione di fabbro. Da attaccante, cominciò a giocare a calcio nell'Hertha Vienna prima di passare, nel 1921, al Karlsbader, club membro della Deutschen Fußball-Verbandes, la federazione delle società cecoslovacche di lingua tedesca. Qui disputò due stagioni prima di tornare a Vienna per giocare col First, chiudendo per due volte al secondo posto in campionato. Nel 1926 fu tesserato per l'Hakoah e partecipò alla tournée nordamericana del club. Fu ceduto nella stagione 1927-1928, a campionato in corso, al Wacker Vienna, dove la sua carriera finì prematuramente per un infortunio. Inizia la sua carriera da allenatore: dopo aver allenato in Cecoslovacchia il Saaz, altra formazione della minoranza tedesca, guidò il Concordia Zagabria nella massima serie jugoslava e, nel 1936, raggiunse Liepāja dove divenne allenatore dell'Olimpija, con cui vinse per tre volte il titolo nazionale.Rimase in Lituania anche dopo l'occupazione sovietica, fino al luglio 1941, quando fu ucciso dalle truppe tedesche nel massacro di Liepāja. Muore a 40 anni.

József Braun, 41 anni, Kharkiv.
Una delle ali destre fra le migliori della sua generazione
, József Braun nasce a Budapest nel 1901 ed esordì giovanissimo nelle file dell'MTK, in cui rimane fino al 1928, vivendo da protagonista l'epoca d'oro del club. Infatti dal suo esordio fino al 1925 la squadra vinse ogni anno il campionato ungherese, per un totale di 9 titoli di campione d'Ungheria ottenuti in carriera. Ad essi si sommarono anche due Coppe nazionali, vinte nel 1923 e nel 1925. La sua carriera fu però tormentata dagli infortuni, che la accorciarono notevolmente, il primo dei quali subito già a vent'anni nel 1921. Nonostante ciò si afferma presto come un giocatore dalla classe cristallina, stella dell’Ungheria alle Olimpiadi del 1924. In quell’occasione, gli ungheresi sono dati per favoriti, ma verranno presto eliminati agli ottavi di finale dall’Egitto: una decina di giocatori di quella squadra erano ebrei, ebrei costretti a giocare nel teso clima antisemita incentivato dalle politiche di Miklós Horthy; a causa delle discriminazioni e del boicottaggio implicito del governo, i giocatori decidono di perdere la partita di proposito. Assieme a József ci sono Gyula Mándi, Béla Guttmann, József Eisenhoffer, Ferenc Hirzer, Henrik Nádler e Árpád Weisz. Dopo il grande ammutinamento del 1924, lasciò l'MTK e assieme ad altri suoi compagni lascia anche il paese: lui, come Guttmann, si trasferisce negli Stati Uniti, e va a giocare con il Brooklyn Hakoah e con il Brooklyn Wanderers. Poi, negli anni Trenta, decide di tornare in Europa, per allenare il MTK e lo Slovan Bratislava. Fu costretto a lasciare anche la Slovacchia quando il clima di antisemitismo peggiorò drasticamente con l'avvicinarsi della Seconda guerra mondiale. La guerra infatti arriva anche lì, e Braun viene catturato dai tedeschi e inviato in un campo di lavoro in Ucraina, da cui però non tornerà mai più. Muore a 41 anni

Árpád Weisz, 47 anni, Auschwitz
L’amico e compagno di squadra in Nazionale, Árpád Weisz, ha avuto una buona carriera da calciatore, prima con Törekvés e Maccabi Brno, e poi in Italia, con Alessandria e Inter. Lasciato il calcio giocato, è diventato il più grande allenatore del mondo: appena trentenne, si siede sulla panchina dell’Inter, e in pochi anni porta i Nerazzuri al titolo nazionale, il primo del campionato a girone unico; allena il Bari, il Novara, e infine si accasa al Bologna, e lo trasforma nella squadra più forte d’Italia, vincendo due campionati tra il 1935 e il 1937, e anche d’Europa, conquistando il titolo nel torneo dell’Expo di Parigi del 1937 con una storica vittoria sul Chelsea per 4-1. Con l’arrivo delle leggi razziali, gli diventa impossibile lavorare, e viene costretto ad espatriare nei Paesi Bassi, dove finisce ad allenare il Dordrecht. I Nazisti arrivano anche lassù: nel maggio del 1942 la Germania conquista i Paesi Bassi e costringe tutti gli ebrei a portare una stella gialla sulle giacche. I figli Roberto e Carla vennero espulsi da scuola e lo stesso Weisz viene licenziato a causa di un consiglio-minaccia da parte del commissariato di polizia. La famiglia, almeno inizialmente, riuscì a sopravvivere nella piccola città olandese dove vivevano, grazie all'aiuto economico dei dirigenti della sua ex squadra, ma il 2 agosto 1942 i Weisz vennero arrestati dalla Gestapo. Pochi giorni dopo arrivarono nel campo di transito di Westerbork, nel nord-est dei Paesi Bassi (da dove passò, tra gli altri, Anna Frank). Il successivo 2 ottobre la famiglia Weisz partì su un altro treno diretto ad Auschwitz: qui, il 7 ottobre, Elena, Roberto e Clara vennero subito condotti alle camere a gas; Arpad, invece, insieme ad altri 300 uomini, venne fatto scendere a Cosel, in Polonia, per essere poi mandato nei campi di lavoro dell'Alta Slesia. Dopo quindici mesi di lavori forzati, Weisz venne definitivamente ricondotto ad Auschwitz, dove trovò la morte in una camera a gas il 31 gennaio 1944. Muore a 47 anni. E poi, il buio.  Per quasi sessant’anni, il suo nome cade nell’oblio, fino al 2007 quando il giornalista Matteo Marani decide di rispolverare e riscoprire una storia troppo importante per essere dimenticata, inserendola nel libro “Dallo Scudetto ad Auschwitz”.

«Fatto sta che di Weisz, a sessant'anni dalla morte, si era perduta ogni traccia. Eppure aveva vinto più di tutti nella sua epoca, un'epoca gloriosa del pallone, aveva conquistato scudetti e coppe. Ben più di tecnici tanto acclamati oggi. [...] Sarebbe immaginabile che qualcuno di loro scomparisse di colpo? A lui è successo.» (Matteo Marani, Dallo scudetto ad Auschwitz.)

Solamente nel 2009, su iniziativa del Comune di Bologna, è arrivata la prima commemorazione ufficiale a Weisz, con l'apposizione di una targa a lui dedicata sotto la torre di Maratona dello stadio Renato Dall'Ara; nel 2018 gli è stata ulteriormente intitolata la curva San Luca dell'impianto. Da allora si sono moltiplicate le iniziative in ricordo dell'allenatore. Nel 2012, proprio in occasione del Giorno della Memoria, fu posta una targa allo stadio Giuseppe Meazza di Milano, per ricordare il tecnico del terzo scudetto nerazzurro. Nel 2013 gli è stato dedicato il quarto di finale di Coppa Italia tra Inter e Bologna, coi giocatori delle due squadre entrati in campo con una maglia commemorativa. Nello stesso anno è stata apposta una targa commemorativa allo stadio Silvio Piola di Novara. Nel 2014 anche la città di Bari gli ha reso omaggio, intitolandogli una via nei pressi dello stadio San Nicola.

Il calcio ha un problema con l’antisemitismo. Ricordare è un dovere di chi resta per non commettere gli stessi errori. Eppure sembra che ogni sforzo di non far cadere nell’oblio le storie delle vittime e dei sopravvissuti alla Shoah sia vano, considerando quanti orribili episodi di antisemitismo e razzismo si registrano negli stadi di tutto il mondo.

Il gesto di usare Anna Frank come insulto.
Giusto ieri sera, prima del derby di Coppa del Re, alcuni tifosi del Real Madrid hanno esposto uno striscione con su scritto “Anna Frank è dell’Atletico”. I responsabili sarebbero del gruppo Ultras Sur, noto gruppo di estrema destra e da tempo in guerra aperta con il presidente Florentino Perez. Gli Ultras Sur sono infatti noti per diversi episodi di violenza negli stadi e per inchieste giornalistiche che ne hanno denunciato le tendenze di destra radicale, se non addirittura neonaziste. Florentino Perez negli anni ha sempre cercato di marginare il gruppo dagli spalti del Santiago Bernabeu, allo scopo di favorire un tifo meno violento e politicamente estremista. Dall’altra parte, la sera prima della partita, i tifosi del Frente Atletico, il principale gruppo ultras dell’Atletico Madrid e anch’esso un gruppo di estrema destra, aveva fatto scalpore esponendo uno striscione contro la squadra nemica affiancato da un manichino di Vinicius Jr., attaccante del Real Madrid e della Nazionale brasiliana, da tempo bersaglio di insulti razzisti.
“I razzisti continuano ad essere presenti negli stadi. Intanto la Liga continua a non fare nulla”, disse il giocatore dopo l’ennesimo caso di razzismo nei suoi confronti durante Vallandolid-Real Madrid, partita giocatasi il 30 Dicembre.

Associarsi ad Hitler come simbolo di forza.
Appena due giorni fa, in giro per Roma sono comparsi numerosi adesivi raffiguranti Hitler con la maglia della Roma. Gli autori ad oggi rimangono ignoti, ma secondo alcune testate sarebbero opera di un gruppo di destra della tifoseria romanista. Molto meno discusso rispetto al razzismo e all’antisemitismo dimostrato negli anni dai gruppi di estrema destra presenti nella Lazio, anche la squadra giallorossa ha un simile problema. Nel finale della scorsa stagione, per esempio, tra la tifoseria sono apparse diverse magliette e bandiere dedicate al centennale della Marcia su Roma. L’episodio scatenò delle polemiche, con altri tifosi che chiesero almeno la rimozione di una foto che ritraeva una delle bandiere sopracitate in primo piano pubblicata dai social della Roma.

La Serie A ha un enorme problema a reagire all’antisemitismo.
In Italia, il problema è grave anche e soprattutto in riferimento alle prese di posizione totalmente inesistenti dei singoli club e della Federazione Italiana Giuoco Calcio, che troppo spesso evitano di agire prendendo provvedimenti contro i colpevoli, oppure decidono di reagire ma sempre in maniera vacua e innocua. Il calcio italiano si scontra quindi con una strutturale incapacità di affrontare questo tipo di problema. Le deboli prese di posizione pubbliche da parte delle squadre non risolvono la questione, che ha radici sociali profonde e che quindi va combattuto prima di tutto fuori dai campi sportivi e sul lungo periodo, ma se fossero nette e chiare aiuterebbero a mettere in chiaro che per le società esiste un confine, e che chi lo oltrepassa non deve più parte della comunità che sta attorno a un club. Il tifoso, per vocazione, è portato a identificarsi con il club. egli infatti vede nella sua squadra un nucleo fortemente identitario e quindi lo celebra, ma allo stesso tempo è anche disposto a difenderlo in tutti i modi. Questo tipo di appartenenza porta a minimizzare o addirittura a giustificare episodi discriminatori commessi da compagni di tifo, e di conseguenza il silenzio dei club in questi casi finisce per legittimare questi comportamenti, mantenendoli all’interno della comunità che la società stessa rappresenta. Ecco perché una pubblica condanna è un primo passo molto importante.

La differenza sta nella risposta. In campo, le contromisure vengono anche prese: ancora adesso, la FIGC commina multe alle società i cui tifosi si macchiano di abusi razziali, e quei responsabili che vengono identificati vengono sanzionati col Daspo. Eppure si è soltanto solamente discussa l’eventualità di interrompere le partite su decisione dell’arbitro o su abbandono di una squadra di fronte a episodi di razzismo o antisemitismo: è quello che aveva proposto l’allora allenatore del Napoli Carlo Ancelotti. Subito, però, intervenne il capo della Polizia Franco Gabrielli, per spiegare che “la decisione finale se sospendere una gara spetta sempre a chi gestisce l'ordine pubblico”.La polizia in ogni caso non interverrebbe perché non è in campo, e dall’altra parte se una squadra se ne va per protesta e senza autorizzazione rischia la sconfitta a tavolino. Infatti, l’eventualità non si è ancora mai realizzata. 

La differenza sta nella risposta. In Inghilterra, giocatori, club e a volte anche altri tifosi reagiscono ai razzisti, che vengono spesso identificati e sanzionati, in primo luogo proprio dalle società di calcio, che ricorrono senza mezzi termini all’esilio a vita dal proprio stadio. Niente di tutto questo avviene in Italia, e nel momento in cui qualcuno, una piccola luce di speranza in mezzo al buio più totale, cerca di reagire e andare contro il sistema, paga sulla propria pelle le conseguenze. Ricordiamo il caso di Claudio Gavillucci
Gavillucci
è un arbitro: è attivo dal 2004, dal 2008 dirige i professionisti e nel 2014 è giunto in Serie A: Il 13 maggio 2018 ha arbitrato Sampdoria-Napoli, e a un certo punto ha interrotto temporaneamente il match per degli insulti razzisti verso Koulibaly, l’ex difensore del Napoli. Due settimane dopo è stato dimesso dalla Commissione arbitrale della Serie A, è entrato in una causa legale che, nel 2019, ha sancito la fine della sua carriera di direttore di gara nella massima serie. Il primo (e ad oggi unico) arbitro ad aver sospeso un match in Italia per razzismo. Adesso vive a Liverpool ed è iscritto come arbitro della Federcalcio inglese. 

Tante persone, ma un solo grande silenzio. Ancora una volta, l’Italia dimostra una grande arretratezza in termini di sensibilità nei confronti degli argomenti riguardanti le minoranze, tanto nel calcio, quanto nella politica e nella società intera. Un razzismo e un antisemitismo insito nella cultura italiana da cui sembra non ci si voglia davvero separare o tentare di sradicare. Un atteggiamento adottato in primis dalla classe dirigente, che continua a non dare ascolto alle voci disperate di chi ogni giorno subisce discriminazioni e a cui viene impedito anche di alzare la voce. Viviamo in una grande bolla, dove hanno voce sempre e solo le stesse persone, ripetendo sempre le stesse opinioni, in un paese che rimane sempre lo stesso. Un paese la cui Nazionale di calcio deve discutere se inginocchiarsi o meno contro il razzismo, interrogandosi sul significato di quel gesto. Opinioni e valutazioni provenienti da uomini bianchi totalmente disinteressati ed estranei alla questione, quando l'opinione che mancava ed è sempre mancata era proprio quella di chi il razzismo lo ha subito e lo subisce per tutta la sua vita.