È una regola che vale in tutto l’universo chi non lotta per qualcosa ha già comunque perso
e anche se la paura fa tremare non ho mai smesso di lottare

Sono le parole di Fiorella Mannoia a ricordarci che, in quanto essere umani, siamo nati per lottare e per non arrenderci di fronte alle difficoltà e agli ostacoli che la vita inevitabilmente ci presenterà davanti. È nostro compito continuare a gettare benzina su quel fuoco che arde in ognuno di noi, per non permettergli di affievolirsi o di spegnersi, perché nessuna vita è degna di essere vissuta se il cuore non batte per uno scopo, per il raggiungimento di un obiettivo, anche se apparentemente più grande di noi. È proprio in questa lotta che può sembrare infinita e irragionevole che risiede il vero senso della vita.

Questa settimana, a dimostrarci che le parole di “Combattente”, canzone estratta dall’omonimo album della cantante romana, sono molto più che semplici versi di un brano, ci hanno pensato due delle nazionali attualmente partecipanti al Campionato Mondiale di calcio in Qatar: parliamo dell’Iran e della Germania.
L’IRAN – libero cos’è per chi libero non è?
La voce di un popolo intero
, il gesto forte e significativo della nazionale iraniana, con i calciatori che si sono rifiutati di cantare l'inno del proprio paese restando in silenzio appena prima del fischio d’inizio di Inghilterra-Iran, partita del Gruppo B andata in onda lunedì 21 Novembre, riaccende i riflettori sulle proteste che stanno facendo tremare Teheran già da tre mesi e che sono considerate la più grande ondata di manifestazioni dalla Rivoluzione islamica del 1979.
La situazione in Iran. Le manifestazioni sono iniziate dopo la morte della 22enne curda Masha Amini, uccisa il 16 settembre dopo essere stata arrestata dalla polizia perché il velo islamico non le copriva completamente i capelli. Da quel giorno, sono stati 378 i morti nelle strade, secondo l'ONG Iran Human Rights, che ha sede in Norvegia, e oltre 15.000 gli arrestati. Le proteste hanno poi ripreso vigore a novembre, proprio nell'anniversario degli scioperi del 2019; in alcune aree del paese in brevissimo tempo queste sommosse si sono trasformate in una rivoluzione armata, che ha generato ulteriori morti e migliaia di feriti.
Quello dei giocatori iraniani in campo è un silenzio rumoroso, un gesto importante, forte e significativo, che non lascia spazio ad interpretazioni, a dimostrare la vicinanza e la fratellanza nei confronti dei propri connazionali, impegnati a reagire all'oppressione e alle feroci violenze dei leader integralisti del proprio Paese. È una risposta forte anche a chi aveva accusato molti di loro di non aver preso posizione a sostegno del rispetto dei diritti civili nei giorni prima dell'inizio di Qatar 2022, come avevano iniziato già a fare altre squadre, tra cui la Germania di cui parleremo in seguito.
Le conseguenze. È un gesto, infine, da non sottovalutare, in particolare per le conseguenze pericolose che questa netta presa di posizione potrebbe avere al rientro della squadra nel proprio paese, anche se il ct dell'Iran, il portoghese Carlos Queiroz, ha assicurato che "i giocatori sono liberi di protestare come farebbero se provenissero da qualsiasi altro Paese purché in modo conforme ai regolamenti della Coppa del Mondo e nello spirito del gioco".
Questo non basta a calmare le preoccupazioni, giustificate soprattutto dopo le allarmanti parole del ministro della Giustizia iraniano, Gholam-Hossein Mohseni-Ejei, che ha minacciato di punire "quanti sono diventati famosi grazie al sostegno del sistema e si sono uniti al nemico in tempi difficili invece di schierarsi con il popolo".
Le parole del capitano. A dare manforte alla scelta della squadra di non cantare l’inno e a ricordare quali sono le cose per cui vale la pena lottare, indipendentemente dalle possibili ripercussioni, è il difensore e capitano dell’Iran, Ehsan Hajsafi, che aveva già parlato alla vigilia del match di esordio della squadra, dimostrando la volontà di lottare anche distanti dal proprio paese a sostegno di chi questa fortuna non ce l’ha: "Dobbiamo accettare il fatto che la situazione del nostro paese non è buona e che il nostro popolo non è felice - ha detto Hajsafi - tutti sono scontenti, ma questo non è un motivo per non essere qui la voce del popolo. E per non rispettarla".

Parlando anche a nome dei compagni, il giocatore ha affermato che "tutto quello che abbiamo lo dobbiamo al nostro popolo e siamo qui per lavorare duro, combattere, avere un buon comportamento in campo, segnare dei gol ed essere devoti al popolo iraniano. Spero che la situazione evolverà così come il popolo auspica e che tutti saranno felici".
Le parole della squadra. Diversi giocatori iraniani avevano già espresso il loro sostegno alla protesta nelle piazze attraverso i social, ad esempio mostrando braccialetti neri durante le partite. Sardar Azmoun, attaccante del Bayer Leverkusen, in particolare ha espresso più volte la sua solidarietà ai manifestanti denunciando la repressione del regime. In un post su Instagram si era spinto fino ad affermare che essere cacciato dalla nazionale "sarebbe un piccolo prezzo da pagare rispetto anche a un solo capello delle donne iraniane".
Le reazioni fuori dal campo.
In risposta al silenzio della squadra, i tifosi presenti allo stadio si sono divisi in due correnti di pensiero. Una parte dei sostenitori iraniani hanno fischiato e insultato la propria squadra: dai primi video ripreso all’interno del Khalifa Stadium, si notano alcuni di loro mostrare il dito medio verso il campo. Anche dalla curva iraniana hanno deciso di reagire negativamente sollevando una bordata di fischi indirizzati proprio ai giocatori della propria nazionale.
Per fortuna, se esiste l’odio necessariamente esiste anche l’amore. Parte del pubblico si è schierata a difesa della scelta dei giocatori: dagli spalti sono spuntati alcuni cartelli con le scritte “Freedom for Iran” e "Women, Life, Freedom”, stessi slogan presenti anche sulle magliette di molti tifosi iraniani, ripresi da alcuni video mentre si incamminano verso lo stadio e inquadrati dalle telecamere presenti in campo.
La risposta. Tornano qui le parole dell’allenatore della nazionale iraniana, che invita i tifosi che non supportano le opinioni dei giocatori in campo, a restare a casa. "Questi ragazzi vogliono giocare a calcio, non fategli lezioni o finte morali (…) vogliono giocare per il loro popolo, ma sono ragazzi, e questa atmosfera pesa".
Kian Pirfalak. È doveroso spendere delle parole per uno dei manifestanti che ha perso la vita durante uno scontro a fuoco, a Izeh, tra le forza della sicurezza iraniane e in manifestanti. Parliamo di Kian Pirfalak, 9 anni, ucciso, secondo la mamma del bambino, dalle forze della sicurezza che hanno “sparato ripetutamente” contro la loro macchina, ammazzando suo figlio e ferendo il marito. Hajsafi ha ricordato nell’intervista sopracitata una frase di Kian, “nel nome del Dio dell’arcobaleno”, espressione che ritroviamo in uno dei video pubblicati in rete che ritraggono il bambino mentre mette alla prova la sua barchetta di legno, costruita a mano da lui, in una bacinella piena d’acqua per provare che essa galleggi.

È in riferimento a queste parole che raccontiamo la prossima storia.
LA GERMANIA – Where is the love?
Nella giornata di ieri si gioca Germania-Giappone, ma i tedeschi scendono in campo così: mano sulla bocca e volti seri, un gesto provocatorio contro la FIFA che impedisce di parlare di diritti umani e minaccia sanzioni contro chi lo fa.
Il caso a cui ci si riferisce è chiaramente quello accaduto lunedì poco prima della partita dell’Inghilterra, quando all’ultimo minuto la FIFA annuncia di aver deciso che le fasce arcobaleno della campagna "One Love", che aveva ricevuto il sostegno di diverse federazioni e capitani di nazionali ormai da alcuni mesi senza che la FIFA dicesse mai nulla, non potevano più essere indossate ai Mondiali in Qatar, accompagnando il divieto con una serie di minacce, con possibili conseguenze anche sul campo di gioco. Di conseguenza, da quel momento in poi tutte le 7 squadre (Inghilterra, Galles, Germania, Danimarca, Belgio, Olanda e Svizzera) che avevano preso l’impegno di indossare la fascia fanno un passo indietro.
Il significato del gesto. Attraverso un tweet la Federazione Tedesca ha spiegato il motivo della sua protesta e il significato nascosto sotto al gesto di tapparsi la bocca nella foto di squadra che i giocatori sono soliti a fare prima dell’inizio della partita. Il gesto, come già detto, è esplicitamente contro la FIFA a seguito del divieto di usare la fascia da capitano a favore della comunità LGBT. L’account scrive, in tedesco:

“Volevamo usare la nostra fascia da capitano per difendere i valori che abbiamo nella nazionale tedesca: diversità e rispetto reciproco. Insieme ad altre nazioni, volevamo che la nostra voce fosse ascoltata. Non si trattava di fare una dichiarazione politica, i diritti umani non sono negoziabili. Questo dovrebbe essere dato per scontato, ma non è ancora così. Ecco perché questo messaggio è così importante per noi. Negarci la fascia equivale a negarci una voce. Manteniamo la nostra posizione”.

Le opinioni. Molte celebrità, giornalisti ed opinionisti del mondo del calcio e non concordano nel sostenere che il gesto della squadra capitanata da Manuel Neuer, affiancato da un comunicato così diretto e duro nei confronti della FIFA, sia stata una presa di posizione molto più efficace e potente, rispetto all'indossare la fascia, e che il divieto sia stato quindi un'opportunità per potersi sforzare a trovare una soluzione che potesse tradursi in una forma di protesta ancora più concreta e rumorosa. Uno dei tanti ad esporsi sulla questione è Claudio Marchisio, ex centrocampista italiano della Juventus.“È stato un gesto molto potente, molto di più rispetto a quello della fascia perché è stato fatto da tutta la squadra e non solo da Neuer”.
Non è la prima volta. Effettivamente, che il portiere del Bayer Monaco e della nazionale tedesca sia particolarmente legato al tema della difesa e tutela dei diritti della comunità LGBT non è una novità: ricordiamo infatti che in occasione di Germania-Ungheria, partita degli Europei del 2021, Neuer ha giocato con la fascia arcobaleno, fascia indossata già nelle precedenti partite durante il torneo, a seguito dell’approvazione di una nuova legge a Budapest che limita i diritti LGBT in tema di informazione dei minori, equiparando inoltre il concetto di omosessualità a quello della pornografia e della pedofilia. Non solo: in quell’occasione, l’Allianz Arena che ospitava la partita è stata illuminata con i colori simboli dei diritti della comunità, quelli dell’arcobaleno.
Inoltre, la partita fu vinta dai tedeschi con gol di Leon Goretzka, centrocampista del Bayern Monaco, che esultò facendo il gesto del cuore. La mia speranza è che i giocatori facciano coming out anche durante la carrieraaveva detto in un’intervista, poche settimane prima – E sono convinto che i tifosi, nonostante tutte le profezie di sventura, affronterebbero il tema il maniera molto più naturale di quanto pensiamo”
Ma è solo l’inizio. Un grande passo, di cui la Federazione Tedesca si è sempre resa la più grande promotrice, per eliminare l’omofobia nel calcio, fenomeno caratterizzante lo sport più seguito e amato di sempre in ogni parte del mondo, protagonista di una storia colma di odio nei confronti dell’amore libero come diritto per chiunque e il cui cambiamento è ancora estremamente difficile da portare a termine, anche se lo si può considerare già in piccola parte iniziato.
Breve storia dell’omofobia nel calcio. Provare a raccontare una storia di questo fenomeno è quasi impossibile, principalmente per il fatto che l’omosessualità nel calcio è sempre stato un tale tabù di cui a lungo non si è proprio potuto parlare. Solo negli ultimi decenni sono iniziati a emergere casi di ex-giocatori omosessuali, che hanno trovato il coraggio di fare coming out solamente una volta usciti da questo mondo marcio, oppure di giocatori poco conosciuti e che sono in parte tutelati dal fatto che giochino in campionati minori.

Tuttavia, ci sono casi che bisogna conoscere, per non dimenticare e ricordare le vittime di queste storie, affinché si diffonda consapevolezza della grandezza e della gravità della questione e soprattutto si sensibilizzi, puntando ad evitare che queste storie si ripetano, semplicemente perché nessuno merita di soffrire, o morire, per aver amato.
Justin Fashanu
. Il caso più noto è senza dubbio quello di Justin Fashanu: attaccante inglese di origini nigeriane che nel 1981 approda a soli 20 anni al Nottingham Forest, all’epoca una delle squadre più forti al mondo, ed era considerato un’ottima promessa. Il ragazzo faticò fin da subito ad ambientarsi, le sue prestazioni non furono convincenti, e iniziarono a diffondersi voci che frequentasse locali gay: iniziò a essere emarginato, ricevendo insulti omofobi perfino dal suo allenatore, Brian Clough.
Alla fine, a nemmeno 30 anni Fashanu era ai margini del calcio. Nel 1990 rivelò al The Sun la propria omosessualità, e fu il colpo di grazia alla carriera, che poté proseguire solo in club di basso livello inglesi o in Nord America, fino al ritiro ufficiale nel 1997. Un anno dopo, un diciassettenne statunitense lo accusò di abusi sessuali, e Fashanu s’impiccò.
Carlo Carcano. Doveroso riportare anche il caso di Carlo Carcano, allenatore di calcio e calciatore italiano, di ruolo mediano, per non far passare il messaggio che queste cose non accadano, o non siano accadute, anche nel Paese che tutti amiamo tanto, il nostro.
Carcano era l’allenatore della Juventus negli anni Trenta, dominatrice assoluta del campionato italiano, ed era considerato uno dei tecnici più influenti d’Europa. Poi, improvvisamente, nel 1934 venne licenziato dopo quattro scudetti consecutivi vinti; finì a fare prima l’allenatore in seconda al Genoa, per poi scomparire dalle scene per sei anni e tornare per guidare la Sanremese in Serie C. Dopo qualche altra breve apparizione in panchina, nel 1953 la sua carriera si concluse definitivamente. Solo anni dopo, con Carcano ormai morto, iniziò a emergere che il suo allontanamento dalla Juventus era stato dovuto a uno scandalo omosessuale all’interno della società bianconera.
Ex-giocatori. Come già detto, al momento quando si parla di calciatori gay, si parla prevalentemente di persone che hanno fatto coming out solo a carriera finita, come Thomas Hitzlsperger, ex-centrocampista tedesco di Stoccarda e Lazio, che per parlare dell’argomento ha atteso il 2014. “Essere omosessuali in Inghilterra, Germania o Italia non è un problema, nemmeno negli spogliatoi. La questione, nel calcio, è per lo più ignorata”, ha detto.
Ma c’è anche chi non ha affrontato la propria omosessualità con la stessa tranquillità, come il brasiliano Douglas Braga: probabilmente non avete mai sentito parlare di lui per il semplice fatto che si è ritirato a soli 21 anni per paura di non riuscire a gestire la pressione di essere un calciatore gay. “Era una scelta tra l’essere sé stessi e l’essere calciatori”, ha detto nel 2019 alla BBC.

Calciatori meno noti. Altri sono atleti poco noti, impegnati in campionai meno conosciuti: citiamo Robbie Rogers, per esempio: centrocampista statunitense, ha fatto coming out nel 2013, a nemmeno 26 anni, subito annunciando il suo ritiro dall’attività. Dopo aver ricevuto un vasto supporto dallo sport americano, pochi mesi dopo per fortuna è tornato a giocare, in particolare nei Los Angeles Galaxy.
Diritti e politica. Ma l’immagine più significativa ed emozionante da inserire nella conclusione dell’articolo come messaggio di speranza è quella della Ministra dell'Interno della Germania Nancy Faeser, che ha deciso di assistere alla partita come rappresentante del governo tedesco a Doha indossando con orgoglio la fascia #OneLove, esattamente la stessa che avrebbe dovuto indossare Manuel Neuer con gli atri capitani delle altre nazionali che avevano abbracciato l’iniziativa.
Tornata a Berlino, la Faeser torna a parlare della questione. La donna racconta che il capo della Fifa, Infantino, "mi ha chiesto se quella che portavo al braccio fosse la fascia e io ho risposto: 'non è così terribile, no?”. La ministra ha anche raccontato di avergli espresso disappunto sull'intera vicenda: vietare ai calciatori di esporla in campo "è stato un grande errore" della Fifa.

"Ai giorni nostri è incomprensibile che la FIFA non voglia che le persone si schierino apertamente per la tolleranza e contro la discriminazione." Così si era espressa, nei giorni precedenti al match, in merito al controverso divieto della FIFA sulla possibilità di indossare al braccio un simbolo di apertura alla diversità.

La voce della Faeser è l’unica, tra quelle appartenenti al mondo della politica, a difendere la posizione della propria nazionale. Una voce che non passa inosservata, nonostante la censura che il suo gesto ha subito nelle televisioni qatariote, se si considera la posizione e ruolo della donna nel governo tedesco, che fortunatamente continua a dimostrare di essere un paese avanti anni luce rispetto ad altri.
È il coraggio di una donna fra decine di uomini dittatori, così come è il coraggio delle donne iraniane che lottano per la vita che meritano. Non a caso, la canzone che ha caratterizzato l’introduzione di questo articolo è dedicata proprio alle donne combattenti.