Ho ammirato Gattuso dalla prima volta che l’ho visto, quando rincorreva un pallone con più grinta di chiunque altro, quasi fosse spiritato. L’ho ammirato, ancor di più, vedendolo andare a muso duro, contro tutto e tutti, per difendere il proprio lavoro e la propria panchina, nei periodi più neri vissuti finora da allenatore. Ma sono anche un “montelliano” convinto e, forse, potete immaginare con quanta amarezza ho vissuto il benservito che l’aeroplanino ha avuto dalla dirigenza rossonera, pienamente sicuro che (presto o tardi) avrebbe trovato la propria personale quadratura del cerchio. Ciò non toglie che ho dubitato di Ringhio e me ne assumo la responsabilità. A mia (parziale) discolpa, avevo il terrore di veder “bruciato” troppo presto uno dei miei idoli: in fondo, tutti sappiamo che la panchina del Milan logora chi ce l’ha, molto più rapidamente di tante altre. Per conferma, chiedere ai vari Seedorf, Inzaghi e Brocchi, che furono altrettante bandiere milaniste. Però sono onesto: se il progetto della coppia Fassone-Mirabelli ha riacquistato credibilità, è unicamente merito di Gattuso, che ha avuto la lucidità di accantonare (una volta per tutte) la difesa a tre, panchinando senza remore un investimento importante come quello di Mateo Musacchio. Ha riportato Suso nel suo habitat naturale (da seconda punta lo spagnolo non convinceva) e ha rigenerato le tre B: Bonucci, Biglia e Bonaventura.

Ora il Milan ha le sembianze di una squadra corta e compatta, che cerca continuamente la profondità: niente giro-palla sterile e prevedibile, ma spazio a verticalizzazioni rapide e precise per gli attaccanti, inserimenti continui delle mezzali e grande concentrazione in difesa. L’unico tassello che sembra mancare, per tornare in alto, è un grande finalizzatore: uno alla Kalinic insomma. Proprio la totale empatia tra l’allenatore calabrese e la società nella quale ha vinto tutto, insieme a quella rabbia che (da una vita) gli fa spazzare via, letteralmente, delusioni e sconfitte, sono la vera forza che spinge questo Milan verso una rimonta che pareva pura blasfemia. Forse proprio quella forza che, a Montella, mancava.