“In tutto quello che ho fatto, ho sempre odiato perdere più di quanto abbia amato vincere”. In questa affermazione, pronunciata nel 2016 all’interno del podcast condotto dall’amico e allora compagno di squadra J.J. Reddick, troviamo il mantra che ha accompagnato, e che accompagna tutt’oggi, la filosofia di vita e di pallacanestro di Chris Paul, playmaker oggi in forza ai Phoenix Suns, uno dei migliori interpreti del suo ruolo e inserito nella lista dei migliori 75 giocatori NBA della storia, capace di invertire la rotta di ogni franchigia per la quale ha giocato.

“La famiglia è stata molto importante nella ricerca del mio percorso. Sono davvero fortunato a venire da una famiglia con un padre e una madre. Inoltre ancora oggi tantissime persone mi conoscono per via di mio nonno.”
Chris nasce in una cittadina del North Carolina, il 6 Maggio 1985 dai genitori Charles Edward Paul e Robin Jones, e a differenza di tanti suoi illustri colleghi, Chris ha la fortuna di crescere in una famiglia benestante, lontano da distrazioni pericolose e cattive frequentazioni. Deve anche il suo soprannome alla famiglia, infatti erano loro a chiamarlo CP3 poiché prima di lui, in ordine di anzianità, venivano il padre Charles Paul Sr. e il fratello maggiore Charles Paul Jr., di conseguenza lui era il terzo componente (il più giovane) a possedere la lettera “C” e la lettera “P” nel nome e nel cognome. A tenerlo al sicuro dai rischi della vita di strada è nonno Nathaniel Jones, per tutti “Papa Chili”, il primo afroamericano ad essere riuscito nell’impresa di aprire un distributore di benzina a Lewisville, in North Carolina. Il piccolo Chris aveva un legame fortissimo con il nonno, tanto che in futuro racconterà di come lui fosse il suo migliore amico, dando sostegno al nipote nella sua grande passione per la palla a spicchi. Il 15 novembre 2002 però Papa Chili viene assalito da una gang di giovani malviventi, che lo legano e lo colpiscono ripetutamente fino a provocarne la tragica morte, nonostante Nathaniel avesse già consegnato loro tutti i suoi averi. Il dolore è troppo grande per essere colmato da ogni parola, ma Chris trova comunque il modo per rendere omaggio al nonno: il 5 giorni più tardi, il 20 novembre, arriva a segnare 60 punti prima di subire un fallo che lo manda in lunetta, realizza il primo raggiungendo i 61, come l’età a cui è venuto a mancare il suo “migliore amico”, la persona che lo ha spronato a fare meglio e lo ha portato a giocare quella partita. Il successivo tiro libero viene appositamente sbagliato, poi Paul si gira verso la panchina, chiede il cambio e una volta seduto si lascia andare ad un pianto a dirotto, accompagnato dagli applausi della palestra e dagli abbracci dei compagni, dell’allenatore e della famiglia accomodata a bordo campo.

“Continua ad allenarti. Non permettere mai a nessuno di dirti che sei troppo piccolo o troppo lento.” L’approccio di Chris al mondo della pallacanestro non è tutto rose e fiori: secondo gli addetti ai lavori, infatti, quel ragazzo che di lì a qualche anno con il suo talento illuminerà i più prestigiosi parquet d’America non è abbastanza alto per reggere l’impatto fisico con i giganti NBA. Per sua fortuna, smentire i suoi detrattori sarà solo questione di tempo. Dopo essere stato scartato dai Tar Heels della UNC, una volta finito il liceo, Paul torna a Winston-Salem per vestire la canotta di Wake Forest, dove sin dall’esordio Chris inizia a collezionare prestazioni sensazionali, che lo porteranno dritto nella lottery del draft del 2005, dove viene chiamato con la quarta scelta assoluta dai New Orleans Hornets.

“Provo a penetrare come Steve Nash, a passare il pallone come Jason Kidd e a palleggiare come Allen Iverson. Attenzione, ho detto che ci provo.” CP3 trascorre i primi due anni nell’Oklahoma, dove la squadra si è trasferita a causa dei danni commessi dall’uragano Katrina che ha messo in ginocchio l’intera Louisiana. Nonostante la franchigia arrivi da una stagione non molto esaltante, chiusa con un record di 18-64 (il 22% di vittorie), Paul non ci mette infatti molto a caricarsi la squadra sulle spalle e ad inaugurare una lenta ma inevitabile ricostruzione, che passa anche e soprattutto da quel ragazzino da Lewisville che sembra in grado di portare una ventata di entusiasmo e fiducia in una comunità messa a dura prova dai recenti avvenimenti. Nel suo anno da rookie mette su numeri strabilianti, che gli permettono di vincere il premio di matricola dell’anno, chiudendo l’anno con un record di 38-44 (46.3% di vittorie, più del doppio dopo una singola stagione). Nei successivi due anni con la divisa degli Hornets, Chris Paul dà l’idea di essere onnipotente sul campo da basket: nel 2007-08 riceve la prima chiamata all’All-Star Game, porta la sua squadra a vincere per la prima volta 56 partite e chiude secondo dietro Kobe Bryant nella corsa all’MVP con 21.1 punti, 11.6 assist e 2.7 palle rubate di media ad allacciata di scarpe. Viene inserito nel primo quintetto NBA e nel primo quintetto difensivo, solo la sconfitta in gara-7 delle semifinali di Conference contro gli Spurs rovina la stagione perfetta di CP3.

“Non sono il più grande tiratore dalla lunga distanza, ne sono consapevole. Ma so anche che se riesco ad arrivare nei pressi della lunetta non puoi far altro che sperare che io sbagli.” Con il passare del tempo CP3 si conferma come migliore Point Guard dell’intera lega, vincendo svariate volte la classifica di miglior-assistman e delle palle rubate, affinando un tiro dalla media distanza ineguagliabile, che gli permette di essere una minaccia costante per le difese avversarie, abbinandolo ad un’intelligenza cestistica senza precedenti. Insieme a tutto ciò cresce in lui anche la voglia di voler competere fino in fondo per il titolo NBA, e arrivati alle porte della stagione 2011-2012, l’intenzione di non rinnovare il contratto in scadenza è ormai nota a tutti: resta solo da trovare un GM in grado di soddisfare le richieste del front office degli Hornets per quella che ormai è a tutti gli effetti una superstar NBA. Paul ha praticamente le valigie pronte in direzione Los Angeles dove lo attendono Kobe Bryant e i Lakers per formare un dynamic duo da sogno. Le franchigie sono già d’accordo sui giocatori da scambiarsi, ma il commissioner della NBA pone il veto e in quella che verrà ricordata come la trade più controversa della storia, la point guard vola sì in direzione California, ma per giocare con i cugini dei Clippers. Noti per essere la seconda squadra di Los Angeles, i Clippers fino all’arrivo di Paul sono considerati la squadra zimbello della lega, incapace nei suoi anni di storia di formare una squadra realmente competitiva, anche a causa di scelte errate da parte della dirigenza (come non scegliere Kobe Bryant nel draft del ’96). A Los Angeles CP3 trova una squadra giovane e talentuosa, e, accompagnato da un’ala esplosiva come Blake Griffin e un centro dominante di nome DeAndre Jordan, con una serie di giocate spettacolari fa guadagnare alla città l’appellativo di Lob City: le partite dei Clippers non sono più dei disastri, anzi i tifosi accorrono numerosi per vedere quali magie tireranno fuori dal cappello questi big three tra alley-oop, schiacciate contro la forza di gravità e passaggi dal coefficiente di difficoltà elevato, portando la squadra a migliorare il proprio record di vittorie in una singola stagione anno dopo anno (uno strabiliante 40-26 già nella prima season). Qui si guadagna il soprannome di Point God, guadagnatosi per l’eccellente gioco nel ruolo di point guard e per aver rivitalizzato una squadra storicamente inesistente per il panorama cestistico.

“Gioco a basket per vincere un anello. Il titolo è tutto per me.” Anche in questo caso però, a causa di un max di sfortuna (come i numerosi infortuni) e di inesperienza da parte del team, Chris non riesce ad avvicinarsi al tanto agognato anello, e l’estate del 2017 inizia con la blockbuster trade che porta Paul a Houston, al fianco dell’All Star James Harden. Chris ha ormai cementato il suo nome nella storia della lega, e si ritrova in quella che potrebbe essere l’ultima chance della sua carriera: lo scambio è visto con molto scetticismo inizialmente, in quanto in molti credono che le sue caratteristiche non potessero sposarsi con quelle di un accentratore seriale come Harden. Anche in questo caso CP3 mettere a tacere le critiche, perché i Rockets chiudono la stagione stabilendo il record di franchigia per vittorie in una sola stagione con 65, e per la prima volta nella storia sono la più forte della Western Conference (64-17 di record, il 12% in più dell’anno precedente). La sua prima stagione a Houston si conclude con la prima partecipazione in carriera alle Finali di Conference, nel corso delle quali, anche per via di un suo infortunio al bicipite femorale, Golden State, considerata da tutti miglior squadra del pianeta (e forse della storia) riesce in Gara-7 a strappare il pass per le Finals dopo essere stata sotto 3-2 nella serie.

“L’allenamento e la corretta alimentazione mi hanno aiutato a diventare quello che sono oggi e sono fondamentali per permettermi di mantenere il mio stile di gioco al massimo livello.” Il capitolo Houston si è chiuso non certamente nel migliore dei modi, a causa del rapporto difficile con James Harden e di quel “peggior contratto della storia” che Tilman Fertitta (proprietario della squadra texana che disse esattamente queste parole) gli aveva fatto firmare. Chris viene scambiato per Russell Westbrook, finendo agli Oklahoma City Thunder, tornando a giocare nella terra dove la sua carriera NBA ebbe inizio. Secondo numerosi esperti, CP3 è arrivato al capitolo conclusivo della sua carriera, in una squadra senza ambizioni, a cui veniva dato appena lo 0.2% di probabilità di arrivare ai playoff. Dopo una stagione strepitosa, nella quale CP3 si mette nei panni di mentore, trascina letteralmente i giovani Thunder alla post-season, terminati al primo turno dopo una serie infinita di sette partite proprio contro la sua ex squadra dei Rockets. Paul dimostra ai suoi detrattori la capacità di poter ancora incidere ad altri livelli, mostrando una longevità pari solo ai più grandi di sempre, guadagnandosi la chiamata in quel di Phoenix: squadra che per anni ha militato nei bassi fondi della lega, è arrivata al primo anno dall’approdo della Point God ad appena due gare dal titolo NBA, dopo una season da 51 vittorie.

"Giocare a basket è un lavoro per me, ma sento ancora le farfalle nello stomaco prima di ogni partita.” Nel corso degli anni il classe 1985 ha avuto la chance di giocare sui palcoscenici più importanti: ha “cresciuto” un team come gli Hornets giocando un basket spettacolare, portandoli ad un passo da una storica finale di Conference; ha messo sulla mappa l’altra sponda di Los Angeles, quella dei Clippers che hanno sempre visto i cugini dei Lakers trionfare, trionfare e ancora trionfare; con la divisa dei Rockets è stato così vicino alla gloria che tutti quanti si pregustavano la cerimonia degli anelli, con il più brillante al dito di Chris Paul. Dopo la rinascita con la maglia Thunder, oggi all’età di 36 anni si è regalato una nuova chance per competere per il titolo, in un viaggio nella quale la sfortuna ha giocato un ruolo fondamentale nei momenti chiave della sua carriera, dando però anche merito agli avversari che hanno avuto più fame e forse erano maggiormente attrezzati per chiudere la stagione alzando il titolo di campioni NBA, titolo che per quanto dimostrato nel corso di questi anni, meriterebbe di vincere.