Ventotto anni oggi, ventotto sono gli anni trascorsi dalla tragica fine del magistrato Giovanni Falcone, seguito dalla medesima sorte, solo due mesi dopo, dal collega, amico e confidente Paolo Borsellino.
Una guerra che abbiamo perso tutti quel giorno, il 23 Maggio del 1992. Mille chili di tritolo per uccidere un uomo di legge, sua moglie e la sua scorta. Mille chili di tritolo paurosamente sistemati da chi non ha il coraggio, il coraggio di abbracciare l'onestà e la rettitudine, ma che ha invece la codardia di premere un pulsante su un telecomando da lontano.

Quel maledetto giorno di un'estate ancora non iniziata e che già si preannunciava torrida e che portava con sé un altra strage infame, quella di luglio a Palermo, in via D'Amelio: quel maledetto giorno abbiamo perso tutti.
E poi le lacrime, durante il suo discorso ai funerali, di Rosaria, la moglie di uno dei caduti della scorta, Vito Schifano, che solcano ancora oggi i nostri cuori, vi scavano dentro, più precise e penetranti di un coltello.
Nessuno di noi era minimamente preparato ad un evento simile, nessuna mente umana, se non la più perversa, avrebbe mai potuto solo paventare una cosa del genere. Un atto criminoso oltre quello che si possa intendere per criminalità stessa.
E in pochi secondi non restò più nulla: la deflagrazione, il boato improvviso, si portò via tutto, il lavoro, i sacrifici di una vita intera, assieme al desiderio di cambiare le cose e cosa nostra.

Qual è, a questo punto, il senso dell'esistere e cosa resta di un uomo quando muore?
Di un uomo quando muore resta l'esempio e l'esempio è destinato a rimanere indelebile nel tempo.
Perché “Gli uomini passano, le idee restano. Restano le loro tensioni morali e continueranno a camminare sulle gambe di altri uomini”, come lo stesso Falcone ci ha insegnato.