In questo preciso istante sono passati quindici anni e poco più di ventiquattro ore da quando il sigaro di Lippi sbuffò talmente forte da tingere d’azzurro il cielo sopra Berlino, regalando ad un popolo intero quello che fu il sogno di una notte di mezza estate tanto folle quanto concreto e razionale.
Una pietra miliare capace di sconfinare l’ambito sportivo per annidarsi in una sfera più intima e culturale del nostro Paese, segnando un’intera generazione al grido di “abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene”.

Sono passati quindici anni da allora, quindici anni in cui non solo il movimento calcistico, ma quello nazional-popolare in toto, ha visto cambiamenti epocali e fatti salienti che hanno segnato per sempre la struttura del sistema.
Quindici anni in cui il caos tipicamente italiano ci ha spinti sull’orlo del precipizio e oltre, ci ha visti "morire" e poi risorgere, sperare, soffrire, evolvere, tornando quindici anni dopo a giocarci un titolo continentale.
Un percorso odisseico che ci ha portati a meritare ciò che stiamo vivendo oggi: un’attesa trepidante, un tumulto dell’animo abbarbicato ad una speranza collettiva. Un fremito genuino, spontaneo, quasi primordiale. Una risposta emotiva ebbra, forte come forti sono stati gli scossoni interiori che ci hanno visto cambiare come nazione e come modus pensandi allargato, come singoli e come gruppo. I motivi per cui meritiamo di vivere questa giornata (e di terminarla ancora meglio) sono tanti e variegati, ma per ordini di spazi e tempi mi limiterò a scrivere senza ordine quelli che, a mio sindacabilissimo giudizio, sono i dieci principali, quelli con un peso specifico maggiore:

- Perché l’egemonia della Juve ha dato la spinta a tutti i club, specialmente quelli di vertice, ad aumentare il ritmo, alzare l’asticella investendo su un movimento fondamentale -traino- per la nazione intera.
- Perché l’esclusione dai mondiali del 2018 ci ha costretti a guardarci allo specchio e fare i conti con le nostre debolezze per ripartire da zero con pazienza e umiltà, edificando su valori solidi e aspirazionali.
- Perché Mancini è l’uomo giusto al momento giusto, e questa Nazionale mette il singolo al servizio del gruppo, mai viceversa.
- Perché sono troppi anni che sentiamo parlare di quanto il nostro calcio sia superato, vetusto, obsoleto, ormai ai margini della spettacolarizzazione globale.
- Perché il periodo di flessione economica a fronte di superpotenze europee ha generato una rinnovata attenzione per i settori giovanili di casa, dopo anni di scellerata e spesso immotivata esterofilia.
- Perché le vicende politiche volte all’esclusione e all’accusa degli ultimi anni hanno avuto l’effetto opposto, rigettando un popolo più inclusivo e comprensivo, spirito che sembra abbracciare il gruppo azzurro in ogni sua forma e componente.
- Perché la pandemia ci ha insegnato ad avere un obiettivo comune, valorizzando impegno e sacrificio.
- Perché drammi come quello di Simoncelli o Astori, a cui questa finale va dedicata come manifesto della faccia pulita del nostro calcio e dello sport più in generale, hanno fatto riflettere sulla caducità dell’essere umano e l’importanza di investire tempo ed energie nella coltivazione del giardino dell’animo, formando atleti più consci e maturi.
- Perché una gioia, diamine, ce la meritiamo.
- Perché sbagliamo spesso, forse troppo, e continueremo a farlo, ma c’è una cosa che in pochi -forse nessuno- sa fare come noi: essere fratelli quando essere fratelli è tutto ciò che conta.

E ALLORA AVANTI FRATELLI D'ITALIA: ANDIAMO A PRENDERCI CIÒ CHE CI SPETTA.

 

It’s coming Rome.