E adesso, Massimo Moratti, nel suo consueto breafing stradale coi giornalisti a Milano sotto gli uffici della Saras, in via San Pietro all’Orto, come risponderà? La solita scrollatina di capo, una battuta senza nessuno che osi replicare, il consueto «ora basta, mi aspettano in ufficio»? Certo non oserà replicare a Giuliano Tavaroli, figuriamoci se si abbassa “al suo livello”. Forse aspetterà di ricevere la linea da Ruggiero Palombo e Maurizio Gualdi che, sulla Gazzetta dello Sport, da qualche giorno stranamente non hanno nulla da dire? L’uno-due di Tavaroli, assestato non in una TV privata o al bar-sport, ma nell’aula della Corte d’Assise di Milano nel processo per i dossier illegali, nel corso delle sue ultime deposizioni (6 e 13 giugno) ha portato nuovi, importanti elementi di verità, ma soprattutto di conferma in una sede ufficiale e probante. Egli ha dimostrato, sotto giuramento, che l’Inter non poteva non sapere: era la mandante, i presunti onesti non erano tali, santi e beati non ce n’erano: anzi, facevano pedinare, spiare, intercettare. I verbali parlano chiaro, finalmente non sono stampati su carta rosa ma sugli atti di un Tribunale. C’è di più. I carabinieri di Milano sequestrarono a Tavaroli il personal computer. Pochi giorni dopo quel prezioso pc è andato poi a finire a Roma nella seconda sezione del Nucleo Operativo dei carabinieri di Roma, guarda caso, proprio quella di via Inselci dove il maggiore Auricchio coordinava le indagini su Farsopoli. Un avvocato ha scoperto nel fascicolo un decreto di ispezione relativo a questo pc, che fu sequestrato a Milano il 3 maggio 2005 e che si decise di inviare a Roma per farlo ispezionato. Il decreto in questione fu firmatoil 9 maggio 2005, il pc venne portato a Roma urgentemente quello stesso giorno e alle 14 iniziò l’ispezione. La successione delle date è intrigante e suggestiva, visto che quello fu il periodo in cui si stavano concludendo le indagini su Farsopoli. In sostanza, per tenere in piedi l’inchiesta che era stata gonfiata dal punto di vista mediatico per colpire Moggi e la Juventus, ci si dovette basare in extremis sul “Dossier ***