Juan Manuel Bazurco nasce il 22 gennaio 1944 a Mutriku, un paese di quattromila anime situato nella comunità autonoma dei Paesi Baschi. Fin da bambino Juan, come tanti baschi, sente una fortissima vocazione e decide di diventare sacerdote. Ma Juan non è un prete come tanti altri. No, lui è un centravanti, un corazziere, imbattibile nel gioco aereo e con due piedi più che discreti. Di mattina si dedica alle Sacre Scritture, di pomeriggio diventa la punta di diamante della squadra del paese.

Nel 1969, a soli 25 anni, Bazurco viene spedito in Ecuador: deve guidare la piccola parrocchia di San Cristobal a San Camilo. Leggenda vuole che il giovane missionario, porti con sé dalla Spagna il minimo indispensabile: una Bibbia, l’abito talare e gli scarpini da calcio. La sorpresa degli abitanti, che si aspettavano il solito prete calvo e occhialuto, è ancora maggiore quando vedono il nuovo parroco scendere in campo e metterla dentro con una certa disinvoltura. Bravo con le prediche, ancora meglio in area di rigore: la voce si diffonde e presto Bazurco, con l’approvazione delle gerarchie ecclesiastiche, passa dalla squadretta locale, il Deportivo San Camilo, alla LDU di Portoviejo, allora al debutto nella massima serie ecuadoriana.

Una bella favola, direte voi. Ma la nostra storia è solo all’inizio.

Sì perché le prestazioni del sacerdote basco non passano inosservate: a notarle è niente meno che il Barcelona Guayaquil. Il Barcelona si appresta ad affrontare la Copa Libertadores e nel tridente d’attacco, insieme ad Alberto Spencer, il miglior calciatore ecuadoriano di sempre, ed al Pibe Jorge Bolaños, finisce proprio il nostro Bazurco. Juan non ce l’ha fatta a rinunciare: gli impegni ecclesiastici vengono prima di tutto, ma la tentazione di affrontare le grandi del calcio sudamericano è troppo forte.

Bazurco per la verità non gioca molto: in totale accumulerà otto presenze e due gol con la maglia dei Toreros. Già le messe della domenica rappresentano un impedimento non da poco, poi a tenerlo lontano dal campo ci pensa la scarsa fiducia del tecnico brasiliano Otto Mandrake Vieira, inizialmente non troppo convinto di quell’acquisto e poco disposto a cedere alle richieste del pubblico dell’Estadio Modelo: “Oye… mételo al padre, que ese sí hace goles!

Quando sembra che tutto sia già finito, l’occasione tanto desiderata arriva. All’improvviso.

Dopo aver vinto il gruppo nella fase iniziale, il Barcelona si trova nel girone a tre che dà l’accesso alla finale della Libertadores: gli avversari sono i cileni dell’Unión Española e i giganti argentini dell’Estudiantes. Sconfitti dal Pincha in casa il 18 aprile, gli ecuadoriani arrivano alla sfida del 29 senza crederci troppo: la compagine di La Plata, la prima ad aggiudicarsi la massima competizione continentale per tre volte consecutive, è considerata pressoché imbattibile tra le mura amiche. Si gioca di mercoledì e Bazurco, che dovrebbe essere impegnato con il catechismo, all’inizio non vorrebbe nemmeno prendere parte alla trasferta in Argentina. Poi cambia idea. Mi piace pensare che il diktat sia arrivato dall’Alto.

29 aprile 1971. L’accoglienza per gli ospiti, come di consueto, non è delle più simpatiche. Dagli spalti viene giù di tutto: bottiglie, monete, frutta, accendini e tanto altro ancora. Al 57’, l’imponderabile: il Barcelona approfitta degli spazi lasciati dai padroni di casa e con pochi tocchi la palla arriva a Bazurco, che riceve l’assist di Spencer dalla sinistra e infila la sfera alle spalle di Bambi Flores. I trentamila del Jorge Luis Hirschi ammutoliscono, mentre i radiocronisti di Radio Atalaya impazziscono insieme ai loro ascoltatori. Ecuador Martínez lascia la parola alla seconda voce Aristides Castro: “El toque magistral vuelve inútil la salida del arquero Flores. Benditos sean los botines del padre Bazurko“. Una frase, quella sugli scarpini benedetti di padre Bazurco, destinata a restare nella leggenda.

I 33 minuti che restano vedono l’Estudiantes attaccare a spron battuto e il Barcelona chiuso a riccio nella propria metà campo. Il muro regge, l’impresa è compiuta. Verrà ricordata come la “Hazaña de La Plata”. A Guayaquil la gente scende in strada, il quotidiano El Universo parla di “delirio colectivo” ed i giocatori vengono accolti come eroi al loro ritorno e decorati dal governo con l’Orden al Mérito Deportivo.

In finale, alla fine, ci va comunque l’Estudiantes, mentre il padrecito, nonostante le avances della Real Sociedad, decide di tornare alla sua parrocchia, tornando a giocare per la LDU di Portoviejo prima di appendere gli scarpini al chiodo. Poco dopo, nel 1973, deluso dalla Chiesa cattolica, appende pure l’abito talare, torna in Spagna, si sposa, insegna alle scuole medie e mette al mondo due figli. Tornerà in Ecuador, accolto dai suoi ex compagni, nel 1996, per festeggiare il venticinquesimo anniversario dell’impresa.

Di quella notte, Ricardo Chacon, nel suo editoriale per El Universo, scrisse. “Passeranno molti anni. L’uomo arriverà non solo sulla Luna, ma anche su altri pianeti e in altri sistemi solari, però i tifosi ecuadoriani si ricorderanno sempre della notte in cui il Barcelona sconfisse l’Estudiantes”.

Ma non fu semplicemente la notte in cui il Barcelona sconfisse l’Estudiantes.

Fu la notte in cui un prete venuto da lontano divenne eroe su un campo di calcio.