Vorrei provare a dare una risposta alla nota domanda retorica di Allegri, quella riguardante il bel gioco.
Parto così: dicesi bel gioco tutto ciò che è difficile da mettere in pratica. E quindi il gioco veloce è più bello del gioco lento, le triangolazioni in profondità sono più belle dei passaggi in orizzontale, l'occupazione organizzata del campo è più bella della sua occupazione a casaccio, eccetera. Si tratta di una definizione estendibile alle singole giocate dei calciatori: le più difficili, che sono anche le più rare, sono anche quelle che ci appaiono più belle.
Se le cose stanno così, avrebbe quindi torto Allegri nel pensare che il concetto di bel gioco sia troppo indefinibile per poterlo prendere sul serio, mentre ha invece pienamente ragione quando oppone il risultato alla bellezza del gioco in sé, che infatti alla definizione data sopra necessita dell'aggiunta di un corollario decisivo: il bel gioco è il rapporto tra le cose difficili con le cose funzionali alla crescita di competitività della squadra, ché altrimenti si finirebbe per trasformare il calcio da sport ad esibizione, con tutto quello che ne conseguirebbe in termini di interesse, almeno per il sottoscritto.

Se io sono un allenatore e in porta ci metto un calciatore di movimento, se i miei terzini sono in realtà dei numeri dieci, se difendo ad uno, se dico ai miei calciatori non solo di costruire dal basso, ma di provare costantemente il dribbling anche nella nostra area di rigore, io mi sarò dimostrato un genio veggente e coraggioso se in ragione di tutto ciò le mie squadre saranno migliorate in competitività, mentre mi sarò rivelato un irresponsabile, interessato unicamente ad alimentare la leggenda di me stesso, se tale competitività dovesse platealmente ridursi. Parlo di competitività e non di risultati finali, essendo questi ultimi la conseguenza di troppi accidenti, molti dei quali troppo aleatori. E parlo ovviamente di competitività tra simili, e non ignoro che in molte circostanze, specie in provincia, un bravo allenatore sia chiamato a dar prova di sé anche per quanto riguarda aspetti complementari alla vittoria sul campo, come per esempio far progredire il complessivo tasso tecnico dei giovani, fondamentale per la crescita patrimoniale del club. Rendendo tutto questo però non meno valido l'assunto iniziale, essendo l'immediato portato logico della crescita dei singoli calciatori, l'accresciuta competitività di tutta la squadra.
Il senso dello sport, di qualunque sport, è la vittoria finale e la conquista di trofei, mentre per restare al caso specifico di un allenatore di calcio, non è quello di suscitare emozioni, di dimostrare la propria integrità morale oppure di incidere sulla cultura generale di un Paese. Tutti propositi per carità lodevoli ed eccellentissimi, laddove però siano accompagnati dall'accresciuta competitività della propria squadra. D'altra parte, sono gli stessi allenatori quelli più spregiudicati a darci la prova provata di quale sia il senso più autentico dello sport, tutte le innumerevoli volte che hanno solennemente dichiarato non già la propria indifferenza al risultato finale, quanto piuttosto il proposito di volerlo ottenere senza rinunciare a certi principi di fondo, nella certezza che quegli stessi principi favoriranno il raggiungimento della vittoria.

In tutto questo discorso, si sarà certamente notato che non ho compreso nel concetto di bel gioco, il gioco di attacco. E' il punto che mi sta più a cuore, non si è trattato di dimenticanza. Se infatti diamo per vero - come io credo che lo sia - che il bel gioco sia tutto ciò che è difficile da mettere in pratica, ne consegue l'irrilevanza del fatto che esso sia sbilanciato in avanti o all'indietro, e meno che mai che solo al primo sia legittimo attribuire la nobile patente di calcio vero.
Organizzare una difesa impenetrabile equivale quanto a difficoltà all'organizzazione di un attacco prolifico, e forse anche di più.
Io personalmente trovo da sempre molto più godibile l'umile epica della difesa ad oltranza completata da rapidi contropiedi verticali e chirurgici, che non l'euforica tracotanza dell'attacco ripetuto e incessante, ma al di là delle preferenze personali, non vi è dubbio che il calcio prudente votato all'equilibrio tra le due fasi, sia storicamente anche molto più vincente del secondo. Arrigo Sacchi, con una squadra spaziale e nell'assenza di squadre inglesi, riuscì certamente a vincere, e bene, in Europa e nel mondo, ma pure nella ingiustificabile impresa di perdere tre campionati su quattro, senza più ripetere alcunché una volta fuori dal Milan, se si eccettua un secondo posto mondiale per il quale vi sarebbe però da ringraziare soprattutto un paio di derapate di Baggio (l'importanza dei calciatori non sarà mai abbastanza sottolineata). Capello ha vinto molto più di lui, così come Mourinho ha vinto molto più di Wenger, Ranieri molto più di Zeman, Conte più di Pochettino, e Trapattoni più di tutti quanti messi assieme (si fa per dire). Certo, l'eccezione sotto gli occhi di tutti è Guardiola, per il quale non mi accodo al lungo elenco di critici che lo giudicano essere stato in grado di vincere solo con il calciatore più grande di tutti i tempi. E' vero che Guardiola è sempre stato alla guida di grandissime squadre, ma non è che tutti gli altri abbiano avuto a che fare con degli scarponi. A certi livelli, sono tutti alla guida di grandi calciatori, ma ciò che è riuscito a Guardiola non è riuscito finora a nessun altro: vincere quasi tutti i campionati a cui ha partecipato (il mio amato Conte non è in questo molto distante da lui), essere sempre estremamente competitivo in Champions, in cui anche nelle partite perse non è quasi mai stato inferiore agli avversari, e riuscire a fare tutto ciò con un tipo di calcio sempre diverso (il tiki taka di Barcellona non è il calcio più verticale del Bayern e del City), e sempre - oggettivamente parlando, secondo la definizione data più sopra - molto bello.