Inutile rimproverare i giochisti di stare tra le nuvole, di inseguire propositi morali invece dei tre punti, lo prendono per un complimento e il discorso s'impantana. Sì, ma siete venti punti indietro, uno prova a dirgli. Sì, ma noi siamo gli unici che giochiamo a calcio, sgusciano via loro per la tangente: se guardi bene la classifica, insistono, siamo in testa quanto a qualità di visione, perché noi ci occupiamo d'altro, siamo dentro una storia che trascende il vostro spazio banale di terrestri. Da noi ci sono fumi e raggi laser, voi vi accontentate delle pagine ammuffite degli albi d'oro. Noi proponiamo esperienze, estratti succosi di un calcio altro, di un progetto mai pensato prima, la nostra generosità non ha limiti.

Nella minoranza trovano compiacimenti elitari, la questione davvero in ballo è quella di rifuggire la massa, sono classisti e infatti disprezzano il popolo che chiamano il popolino. Per costoro vincere significa questo, essere guardati con la intimidita riverenza riservata agli alieni. Sognano orridi risultati di 35 a 29, ma il giorno in cui tutti fossero indifferenti ai gol subiti, si trasformerebbero all'istante in profeti del pullman davanti alla porta. Non c'è versi, loro vincono sempre: il paziente puntualmente muore sotto i ferri, ma l'intervento è perfettamente riuscito. Manca qualcosa di obiettivo, orizzonti di criteri da condividere.

Come sacro totem hanno Bielsa, il quale mandò un giorno suo figlio Guardiola sulla terra ad espiazione di Nereo Rocco, Trapattoni e Capello, i grandi bestemmiatori del ventesimo secolo. Se Bielsa vince, "vedi che noi giochisti non siamo solo chiacchiere e distintivo"; se Bielsa perde, si mettono a contare le triangolazioni a mille all'ora invece dei gol presi. Amano la forma delle cose, rifiutano la verità in sé. Ma un gioco è tale finché lo si prenda sul serio, a scala quaranta si partecipa per vincere, vantarsi della cravatta con gli amici ci può anche stare, ma non è il senso della serata. Le procedure visionarie del dr. House ottengono guarigioni, non si limitano ad essere spericolate. I geni sono coloro che ci riescono, non si limitano ad averci provato da traiettorie inedite, in quello siamo buoni tutti.

Dessimo ragione alla loro filosofia, finiremmo per confondere l'uomo con l'allenatore, e a giudicarlo vincente per via del suo impegno nel sociale. Lodevole, ma che c'entra? Per costoro il calcio non è il capitale di rischio del presidente, non è il lavoro dei calciatori, non è la proiezione identitaria del tifoso, lo spazio del suo riscatto possibile. Per costoro il calcio è il giocattolo in mano dello spettatore neutrale, lo modellano a propria immagine e somiglianza, parlano ai viventi perché i posteri intendano. Guardano le partite di calcio come io guardo la ginnastica artistica, nell'attesa di salti mortali quadrupli e carpiati, tutto il resto è mediocre spilorceria. Sono rimasti intrappolati nel barocco, nelle cattedrali lussureggianti della Controriforma, nei suoi absidi tappezzati di icone dorate.
Profetizzano sciagure catastrofiche. Il calcio è evoluzione e noi stiamo ancora qui a cincischiare con il libero e il contropiede, mentre intanto l'Europa se ne va. Ma col calcio votato all'equilibrio Mourinho ha vinto due Champions e due Europa League, Simeone ha vinto anche lui due Europa League e perso di un nonnulla due finali di Champions contro squadre superiori, come peraltro l'ottimo Allegri, per non parlare di Capello che di finali Champions ne ha giocate addirittura tre, e quella vinta è stata proprio contro Cruijff. Fosse stato per la loro fregola riformatrice, non esisterebbe l'Atalanta che difende a tre e marca a uomo. Per non dire di Conte che vince i campionati con le ripartenze e Bonucci e De Vrj quasi liberi. La ricerca ossessiva del fuorigioco è durata lo spazio di una manciata di campionati, ma all'epoca sembrava obbligatoria per non passare da buzzurri. Le nuove direttive impongono oggi la costruzione dal basso, che finirà non appena qualcuno vincerà senza correre questo rischio improduttivo. Non c'è un'Europa che se ne sta andando in chissà quali direzioni, la questione è biecamente patrimoniale, torniamo ad essere ricchi e torneremo all'istante competitivi.

Io mi ostino a vederla in modo semplice, quasi semplicistico: il calcio è il suo regolamento, punto, fine della diatriba. Non si tratta di rozzo riduzionismo, è la lampante verità, il minimo comun denominatore su cui ragionare. Per loro il calcio invece è strumento, l'alfabeto prediletto per raccontare gradasse mitologie di se stessi. E' difficile schiodarli dalle loro dicerie, di questo sono certo per essere stato come loro, un tempo. Il mio personale mantra era il seguente: sono le guerre che uno deve vincere, nel calcio l'importante sono il coraggio, il piacere del tentativo impensato, e bla bla bla. Peccati (orribili) di gioventù.

Poi, dalla sera alla mattina uno si trasforma in razionalista e i propositi utopistici spariscono insieme a tutta la metafisica. Guardavo a Sacchi con un'attesa messianica mai provata neppure per Marx, e quando la questione diventa d'amore non si vede più niente, o si vedono cose che neppure ci sono. E guardavo invece a Trapattoni come i francesi del 1789 guardavano al feudalesimo. Un'emerita presuntuosa cretinata di cui non mi pentirò mai abbastanza.