All’ombra dei riflettori s’affatica il mediano. È un vagabondo della pedata, come i pianeti gravita intorno alle stelle. Brilla di luce riflessa. È un pedatore terraneo, non astrale: i suoi scarpini sono uncini callosi che affondano nell’erba, scavano la terra, pungolano le zolle. Sorveglia il territorio. Nel mare magno del centrocampo è il nocchiero della fatica, i suoi piedi sanguinano sudore. È un prosatore realista, l’utile prima del bello: e si corica in tackle, recupera palloni, trancia le rotte di qualche passaggio sghembo, scorta il compagno e lo difende, con la grinta e con la spinta. Dotato di accademico senso geometrico, la natura ha sopperito alle sue mancanze tecniche: bipallico per biologia e per metafora, si avvale di due cuori, sette polmoni, gambette potenti come tralicci e due polpacci d’acciaio. Non accarezza la palla, la schiaffeggia. Per lui, come per Marx, la teoria non basta: ci vuole l’azione. E agisce, non cincischia. Interpreta il ruolo trasformando il gioco. Nel trambusto della partita irrompe per rompere l’azione avversaria: e scorta il talento avversario, copre le posizioni scoperte e si lancia in avanzate improvvise. Crea la superiorità numerica per contrappasso: il prodigio avversario tenta di dribblarlo, lui ne stoppa lo slancio e ribalta l’azione. È un personaggio straordinario nella sua ordinarietà: è un passo indietro, ma fa sempre un passo avanti. Ha coraggio, la forza dei cuori valorosi, l’eroismo che infiamma l’aria. Un tackle da lui avventato arroventa le coronarie dei tifosi più sanguigni. Il campo è la sua arena, l’atletismo che si mischia alla grinta, la redenzione dei propri peccati tecnici. Nelle mia memoria giovane, il mediano ha i tratti spigolosi di un guerriero del centrocampo, la maglia sporca di terra e sudore, il sangue sulle ginocchia, la faccia scavata dalla fatica. Non l’ho mai visto giocare, ma ne ho immaginato gli slanci gladiatori leggendo vecchie pagine di giornale. Furiafurinfuretto l’aveva ribattezzato Vladimiro Camin Caminiti, Furino l’ha imparato a ricordare chi vi scrive. Palermitano come me, l’ho immaginato giocare senza parastinchi, sporco e ringhioso, la testa protesa in avanti, la corsa tamburellante, i piedi negli scarpini e i tacchetti come freccette da affondare in tackle. In onore di Omar Sivori giocava coi calzettoni abbassati. Non nacque mediano, lo diventò col tempo. Da ragazzo indossò tutti i numeri, tranne l’1 e il 9. Vide Luis del Sol e si convertì: diventò mediano. E mediano si consacrò al gioco più bello del mondo, mediano portentoso e arcigno, soldatino di campi pelati a centrocampo. Basso di statura, all’ombra della propria vocazione giganteggiava come una sequoia. Fu giocatore fotosintetico: assorbì la luce di qualche avversario più talentuoso di lui e la trasformò nel colore delle foglie, il colore di chi spera, la speranza di chi fatica ogni giorno, di chi combatte per migliorare la propria condizione, di chi lotta per qualcosa o per qualcuno. Lì. Sempre lì. In mezzo. Nella vita o in un campo di calcio fa poca differenza.