Fare una rivoluzione significa guardare al passato per rivolgersi al futuro. È l’anno zero. Dall’era dell’oro al tempo delle ceneri ci sono traiettorie che non si elidono senza eludersi. Dai fasti ai guasti si rincorrono tempi lontani. L’ultimo Mondiale ha rappresentato la linea di confine tra ciò che siamo stati e ciò che siamo. D’un sol colpo si sono dimessi Abete e Prandelli. L’Italia è affondata. Dai relitti di un paese sconfitto l’ha riesumata Conte. E l’ha presa per mano come si fa con i bambini, i vecchi o chi non sa più dove andare: nel trambusto dei mugugni è piombato al centro della scena. È un allenatore battente che odia essere battuto. Ama vincere. È arrivato dopo tre scudetti consecutivi con la Juventus. Tra i rimpianti dei tifosi ha lasciato Madama e ha sposato la Nazionale. È un tipo spigoloso. La sua etica è la giustizia, etica come equità, la democrazia delle scelte e l’utilitarismo della gestione. Non si basta mai. Nel 1995, ha preso il diploma Isef. Aveva 26 anni, era vicecampione del mondo. È un allenatore umanista: per lui, come per Mourinho, il calcio è una scienza umana. Allena spiegando, spiega allenando: e parla, chiarisce, ossessiona, batte e ribatte sul battuto e sul ribattuto. All’unanimità l’ha scelto l’Italia pedatoria. Tavecchio l’ha voluto: e l’ha ottenuto. È la persona giusta. Dalle ceneri del presente tenterà di scacciare le ombre di una carestia d’idee. S’invoca il cambiamento. Conte pratica la meritocrazia, la fame prima della fama, i valori della persona prima del valore del cartellino, l’uomo prima del calciatore. Da Prandelli a Conte c’è un calcio privo di titic e titoc. Si fa uso del possesso palla: quasi mai abuso. La Nazionale da lui allenata mischia la velocità delle trame alla pragmatica della corsa, si distende verticale e si sobbarca le fatiche del pressing alto. È un’isola spaziale e temporale: oltre i cancelli di Coverciano c’è un altro mondo. Alle spalle si stagliano i rumori del campionato, l’ostilità delle maglie, l’agonismo del calendario. In testa solo l’Italia, l’azzurro è il colore, l’inno cantato, i piedi di una Nazione, il resto non conta. Dal campo ai palazzi, da Conte alla FIGC, c’è il nuovo corso del calcio italiano. L’insostenibile leggerezza di Tavecchio è stata grottesca. La storia di Optì Poba, il primo scivolone. La squalifica di sei mesi per razzismo rappresenta la ghigliottina: e Tavecchio appare dimezzato come il visconte di Calvino, esiliato dalle commissioni e dalle elezioni Uefa del marzo 2015. Il suo programma è un puzzle di intenti: dall’organizzazione federale alla lotta alla violenza, dal Club Italia ai settori giovanili, dalla comunicazione ai grandi eventi. Tra continuità e discontinuità, timori e speranze, c’è il futuro del nostro calcio. I giovani, innanzitutto. Dai vivai alle scuole calcio passa gran parte delle speranze. I giovani sono valvole di sfogo. La palla da loro padroneggiata si libera in traiettorie dotate di sicuro entusiasmo. Possono peccare d’inesperienza, ma rappresentano le bollicine di un calcio che sa di tappo. Si preferisce l’utile al bello: che errore! I giovani ammiccano alla fama senza esserne inghiottiti, sono fiori votati alla bellezza. In loro brilla ancora il piacere del rischio. Non possono appassire in panchina. Sono lo stupore e il divertimento, il prodigio e la tentazione. L’Italia deve ripartire dal gioco. E dallo spettacolo, dal divertimento, dalla passione, dalla bellezza di un dribbling o di una rovesciata. Dal piacere al dovere, come scrive Galeano, ci sono peccati e peccatori. L’ultras, per esempio: non può essere un lavoro. E poi gli stadi, vecchie cattedrali all’ombra del proprio passato. Dal trapassato prossimo al futuro ci sono i focolari del tifo. In mezzo, c’è il razzismo. Il calcio e il Paese sono specchi strabici: a volte si riflettono, altre volte no. Il problema del razzismo appartiene al primo caso: e si susseguono gli episodi. Dalle strade ai campi di calcio. Se bisogna esportare la Serie A nel mondo, il razzismo è una zavorra. Bisogna estirparla ripartendo dall’etica del rispetto e della cultura. A cominciare dalle scuole calcio, dagli allenatori che non sono insegnanti e dai genitori che si sentono allenatori. Non c’è più tempo per le polemiche. In Italia, è noto, si ammicca alla regola ma si bacia sempre l’eccezione. Il pallone è un bene comune. È il momento di voltare pagina. Per noi. Per il calcio. Per il Paese.