Il Fair Play finanziario è un antidoto all’obesità di certe spese e un invito all’onestà di certe rese. È la livella dei bilanci di un mondo, quello del calcio, dai grossi conti e dai pochi sconti. È un percorso semplice, il 2018 come destinazione d’arrivo, l’anno in cui tutti i club europei dovranno raggiungere il pareggio di bilancio. L’imperativo è spendere quello che, in parte, i club guadagnano. La riforma mira alla disciplina della pianificazione e alla lealtà della competizione. Le squadre dovranno cercare di competere nei limiti dei propri introiti, il pareggio di bilancio come linea di confine tra la propria credibilità e le proprie capacità. La Serie A, è noto, ha peccato di lungimiranza. Dai fasti ai guasti ci sono i mitici anni 80 e la carestia contemporanea, la nostalgia come testo, non come contesto. Il tracollo è un apostrofo nericcio tra stadi disseminati come vecchie cattedrali, la burocrazia fitta e il Fair Play finanziario che rischia di farci a fette. E poi le nostre squadre, tra vecchi splendori e le miserie odierne. Servono idee per scacciare l’anoressia di certi bilanci, progetti a lungo termine per tornare a essere il centro, non la periferia. La ricetta per far quadrare i conti non deve elidere, e nemmeno eludere, tre ingredienti fondamentali: quello operativo, quello estetico e, last but not least, quello simbolico. Il livello operativo è connesso allo sviluppo di una mentalità vincente. In mezzo ci sono lo sviluppo dei vivai, la valorizzazione dei giovani e la pianificazione di una filosofia che sappia portare a braccetto, amanti capricciosi, successo sportivo e finanziario. To make or to buy: that is the question. I costi amministrativi di sviluppo del vivaio sono minori dei costi di transazione per l’acquisto di giocatori sul mercato. E il bilancio sorride. Eureka! Un giovane calciatore può far aumentare il suo valore di mercato e permettere al club di generare profitto da una sua cessione. La valorizzazione dei vivai riduce il rischio dello sperpero sprovveduto di un giocatore e permette una pressione minore sugli ingaggi o sulle tasse di eventuali transazioni. Un cattivo investimento sul mercato, oltre a non pagare sul piano sportivo, farà abbassare il prezzo del calciatore acquistato e lascerà la società in preda alla bolla dei salari. A proposito degli stipendi. Un’idea, già adottata dalla Serie B, è fissare un confine al monte ingaggi, magari non superiore al 50% del fatturato totale. Lo sviluppo della squadra potrà, e dovrà, essere completato dall’acquisto di giovani promettenti, il loro nome racchiuso nelle promesse del destino. La domanda amletica, to make or to buy, ha una risposta: both. In più, to scout. L’attività di scouting è direttamente proporzionale alle capacità di previsione di un talento dalla grande fame e dalla poca fama. Sono fiori che bisogna cogliere prima che sboccino o che i loro prodigi li conducano sull’altare della notorietà. Il management è la chiave di violino: lavora nell’ombra, ma battezza lo spartito e regola le note. Le squadre hanno bisogno di una saggia gestione, non di una confusa mistione (di piani e pianificazioni). Il manager è un regista strategico. È, a volte, più importante dei calciatori. Dal livello operativo a quello estetico ci sono i tifosi e gli stadi. Dai botteghini proviene l’11% degli introiti stagionali: troppo poco. La costruzione di stadi nuovi, repetita iuvant, aumenterebbe gli introiti commerciali e l’audience di possibili tifosi. La costruzione degli stadi richiede fondi addizionali, ma è un investimento produttivo sia a livello operativo che estetico. È testo, e non contesto, della rinascita. L’attrazione di supporters, sia locali che internazionali, comincia da lì. Lo stadio è focolare di seduzione, circo e Circe. Tifosi sparsi nel mondo accendono la televisione per sentirsi più vicini alla squadra. È una questione di appartenenza e adesione. Per attrarre nuovi supporters, e allargare il proprio raggio di mercato, le squadre dovrebbero proporre valori condivisi. Inclusione, non esclusione. La violenza negli stadi, come il razzismo, stride e divide. Il tifoso, appassionato o neofita del gioco, è attratto dallo spettacolo, cerca l’evasione, rifugge la separazione della distanza e insegue la bellezza di un gesto, di un coro, di una bandiera, di una coreografia. E di un simbolo. Il terzo livello è racchiuso in un’immagine, in uno stemma, in una figura. Anche il mondo può esser simbolo, figuriamoci il resto. Il simbolo è l’ago tra la stoffa e l’ordito, la squadra e i tifosi. È il cuore di valori comuni e norme condivise. Nella trama del simbolo ci sono la cooperazione e la condivisione di un fine. E la continuità. I giovani del vivaio crescono insieme, giocano insieme. Per creare una cultura condivisa, e favorire la creazione di una mentalità vincente, può esser utile un sistema di incentivi sulle prestazioni collettive, e non solamente individuali. Gli incentivi collettivi riducono i costi e alleggeriscono il bilancio, rafforzano i legami e promuovono la coralità di un messaggio, di un’idea, di un fine. Di un simbolo. E del brand. I tre livelli si intersecano nel mercato degli sponsor e del merchandising. Le compagnie, locali e internazionali, cercano visibilità, spazi aperti al mondo, piazze popolari. Gli stadi di calcio e le magliette dei calciatori sono cime di visibilità. In Italia, i club e la Lega preferiscono demandare la commercializzazione del brand a intermediari che, spesso, sono gli unici a guadagnarci. Serve voltare pagina. Il successo del merchandising passa da prodotti editoriali in cui la gente possa riconoscersi. I pacchetti di sponsor devono essere chiari, così come tutte le strategie sui biglietti o sugli abbonamenti. Il brand dev’essere esportato: è messaggio, idea, simbolo. È identità, fiducia, speranza. Le squadre dovrebbero promuovere progetti di Academy in tutto il mondo per favorire lo scouting e rafforzare il proprio brand. E poi l’innovazione commerciale. I social network sono specchi di Dioniso: abbracciano il mondo. Oltre alla bidimensionalità della TV c’è la multimedialità di un video esclusivo o di un post interattivo: e la gente commenta, partecipa, alza la voce, ancor prima del volume. E il brand acquista popolarità. E forza commerciale, naturalmente. I tre livelli sono pretesti per dire che il pareggio di bilancio può esser mezzo e fine, indizi per affermare che nel calcio, così come nella vita, le idee contano. E tanto. I tre livelli sono sfumature di un unico quadro: quello operativo valorizza i giovani, i manager e i giovani manager, meglio se italiani; quello estetico mira alla bellezza; quello simbolico è racchiuso nei contorni del brand. La Lega è colore del ritratto, non solo cornice. Per preparare i giovani, ad esempio, bisognerebbe battersi perché le formazioni riserve giochino partite ufficiali in serie inferiori a quelle della prima squadra, come succede in Spagna. Servono collaborazione e pianificazione, regole come lastre di marmo, riforme mirate e idee precise, sassolini lanciati sulla cresta del futuro prossimo. Qui è l’Italia e qui bisogna saltare. Pronti?