“God bless America….and Serie A”. Senza mancar di rispetto a Irving Berlin e alla sue note di patriottismo stars and stripes, questa forzatura musicale sembra delineare perfettamente l’attuale situazione del fu più bel campionato del mondo. Tempi lontani, nascosti tra la polvere del cassetto dei ricordi. Vecchie VHS nel mezzo di un’epoca fagocitata da smart tv e app per mobile.

La Serie A parla straniero e non è nemmeno più una novità. Stupisce il recente caso dell’Atalanta. Società con forte identità territoriale. Prima, nella valorizzazione di giovani italiani da lanciare sul mercato a prezzi tutt’altro che scontati. Ultimamente, questo attaccamento alle radici locali è rimasto solo nella proprietà. Antonio Percassi. Bergamasco, ex calciatore, bandiera e presidente simbolo del “boom nerazzurro”. La storia si è chiusa pochi settimane fa, con la cessione della maggioranza delle quote a un fondo guidato da Stephen Pagliuca, co – proprietario dei Boston Celtics. I Percassi resteranno titolari delle cariche, certo, ma il cambio societario è un segno dei tempi. L’Atalanta si apre al mondo. Un azzardo? O un rischio calcolato? Il tempo risponderà, ma il punto è un altro. Se il trend proseguirà, a breve oltre il 50% delle squadre del nostro campionato sarà gestito da fondi, aziende, capitali stranieri. In gran parte americani. Spezia, Venezia, Genoa, Roma, Milan, Fiorentina. Quanto è lontano il tempo dei “padroni” made in Italy. Inutile farne un elenco da almanacco del calcio.

La riflessione è un’altra. E si basa su due punti. Il primo riguarda la “durata” che queste proprietà possono avere nell’universo pallonaro tricolore. Mettendo da parte il caso Elliott, un fondo con conclamati obiettivi di rivendita, chi può immaginarsi la gestione di una, per esempio, Fiorentina targata Commisso per generazioni? E che dire dei Friedkin? Famiglia, ad oggi, inesistente a Roma, per lo meno sotto il profilo della comunicazione, saggiamente (?) lasciata in mano a Josè Mourinho.
Di molti di loro, fatto salvo Rocco, yankee calabrese dal cuore gigliato, non conosciamo nemmeno il volto. Spesso si affidano ai direttori sportivi, ai figli, piuttosto che ai referenti europei. Un pessimo segnale. Perchè, nonostante oltreoceano stentino a comprenderlo, esiste una enorme differenza tra “pallone” e “soccer”. Si chiama tifo. Passione. Sfrenata. Esagerata, a volte, ma che proviene dal cuore. Un sentimento che non esiste in quell’enorme pianeta sportivo a sè stante che va da Boston alla West Coast. Entertrainment contro risultato. Spettacolo contro obiettivi. Impensabile gestire una squadra italiana comodamente seduti da un palazzo della Madison Avenue.
Il calcio, pur essendo disciplina globale, si porta dietro, nell’immaginario volo tra America ed Europa, un problema di incomunicabilità. Quello che non ha capito nemmeno un “paisà” come Jim Pallotta nel suo periodo romano. Quello che prova scardinare, nel suo Giro d’Italia di squadre acquistate e poi rivendute, Joe Tacopina, forse il business man a stelle e strisce più di successo nel nostro football. Capace di intuire il momento giusto per lasciare la barca, non importa in quale mani, per saltare su un’altra. Ad imbonire un’altra tifoseria, tra sciarpe al collo e promesse da marinaio. I dollari possono fare la felicità, ma se non vivi e respiri la piazza, anche in momenti nei quali emette i suoi odori peggiori, allora la montagna da scalare diventa uno Zoncolan. Ecco perchè, alla fine, il rischio è sempre quello che i tifosi preferiscano un vulcanico Zamparini di turno a un composto Knaster, fisicamente rappresentato alla stadio da un suo “fiduciario”.

Il calcio tricolore, inutile girarci intorno, va trattato come un figlio. Coccolato, cresciuto, sgridato e sferzato. Tra regali e punizioni, amori e dispetti, litigi e abbracci. Quella che potevano portare uomini come Rozzi, Anconetani, Mantovani, Cecchi Gori. E, badate bene, non si parla di un’operazione nostalgia, che tanto va di moda tra le pagine di Facebook ai giorni d’oggi. L’obiettivo è tracciare una differenza, abissale, tra la gestione dello sport in America e nel vecchio Continente. Perchè non si parla solo di Italia. Ad oggi, gli investitori made in USA hanno provato anche ad entrare nel torneo più allettante di tutti. La Premier League. Risultato? La metà rossa di Manchester odia la famiglia Glazer, l’Arsenal ripudia Josh Kroenke. Il solo Liverpool sembra salvare Tom Werner, forse per il merito di aver fatto l’unico, tra i tantissimi, investimento di mercato oculato: Jurgen Klopp.
Quando gli americani capiranno, anzi, sapranno adattarsi al nostro concetto di intendere lo sport? Non sarà un percorso breve. Distanze geografiche e mentali rendono il cammino incidentale. In più, aggiungeteci il fatto che, se non sei un “tifoso”, le cose si complicano. Perchè, e ci scuserà se lo continuiamo a chiamare in causa, Rocco Commisso potrà pure girare sotto la Fiesole con sciarpa gigliata al collo, ma senza stadio di proprietà, rilancio del marketing, ripartizione dei diritti tv e centro sportivo, “so long Firenze”.
Dimenticatevi i passionali Moratti, l’epopea della famiglia Agnelli e quant’altro. Tutti sappiamo che lo sbarco nello Stivale avviene per mere ragioni di business. Investimenti in infrastrutture. Stadi soprattutto. Da rifare, costruire, rendere moderni. Una partita, quella sì complicata, contro la giungla burocratica tricolore. Dalla quale, spesso, il conquistatore straniero esce scornato e deluso. Tanto basta per salutare la piazza e tornare a godersi Le Bron allo “Staples Center”.

Esiste, come anticipato, un ulteriore tema da approfondire. E, in questo caso, dobbiamo allargare i confini calcistici all’Europa intera. Perchè le uniche proprietà straniere vincenti non sono quelle statunitensi, ma provengono da quel lembo di pianeta, passato dall’essere scarno deserto a ombelico del Mondo. Il Golfo Persico. Manchester City, Paris Saint Germain e, prossimamente su quelli schermi, Newcastle. Soldi a getto continuo, una risata di fronte al Financial Fair Play e una sfilata di acquisti da far impallidire il fantacalcio. Risorse illimitate, campioni e presunti tali strapagati e, prima o poi, il trionfo arriva. Eccezion fatta per il Malaga, i petrodollari portano successi. Non importa se lo sceicco se ne stata al sole di qualche yacht a Dubai, senza mai farsi vedere in tribuna. Lo stadio è, in gran parte dei casi, già ultramoderno. Le strutture attorno, training camp incluso, alla avanguardia. Una ritoccata al merchandising, una al canale tv e poi basta alzare la cornetta per chiedere al manager la lista della spesa. E i tifosi pronti a sognare. Certo, la Champion’s resta, per ora, un sogno, ma quello che avviene con emiratini e qatarioti non potrà mai accadere con americani o canadesi. Assegni in bianco contro salary cap. La partita come corollario di uno show contro la concezione di un “dream team” che surclassa tutto e tutti. La guerra dei mondi, con in mezzo noi europei, indecisi se farsi sedurre dal self made man di serie B della costa Est o restare tra le braccia dell’imprenditore di provincia, bravo a far di conto e un po’ meno con la grammatica. Sì, perchè, cari tifosi, scordatevi (scordiamoci) l’arrivo di ricchissimi tycoon mediorientali nel nostro scalcinato campionato. Ad oggi, il più vicino ad entrarci fu la famiglia Gheddafi, tramite un famoso sponsor petrolifero. Puntava in alto, il vecchio Muammar. Una love story con la Vecchia Signora, suggellata nella dimenticabile Supercoppa di sabbia in quel di Tripoli, una decade prima della distruzione della capitale. Lontano 2002. Preistoria calcistica.
Ora sembra arrivata l’era degli americani. Presenti nel cda, assenti dalle tribune. Ecco perchè la scelta di Percassi, restare azionista di minoranza mantenendo le cariche, appare intelligente. Diventare il volto dei nuovi boss, con l’appoggio dell’intera Bergamo. Garante con il cuore legato alla Dea da una vita. Tramite con il mondo atalantino. In attesa di capire se l’epopea a stelle strisce nella nostra Serie A sia un fuoco di paglia legato a doppia mandata allo showbusiness o una connessione destinata a perdurare a lungo.