Mettiamo da parte, per un attimo, tutto. Il tifo, la Fede, la Mistica. Il merito e il demerito, la sfida tra campioni, il Destino. Le polemiche sul torneo e la bellezza della finale. Tutto rimanga, anche solo per qualche riga, tra due potenti parentesi.
Si è detto, scritto e letto ogni interpretazione possibile sui Campionati del Mondo in Qatar. Soprattutto, e ne valeva la pena visto l’andamento “da match di boxe” come lo ha ribattezzato Deschamps, sulla gara di domenica. Superfluo e inutile aggiungere altre righe. E allora, permettetemi, seppur con il timore di essere tacciato di moralismo, una riflessione.
Il calcio è un misto di sentimenti, che spesso la tensione e la posta in palio fanno sfociare in atteggiamenti spiacevoli. Intendiamoci.
Di santi in giro non ve ne sono e il famoso “terzo tempo” invocato da Cesare Prandelli ai tempi della Fiorentina è durato lo spazio di una domenica. Darle e prenderle per 90 minuti e oltre rappresenta l’essenza del pallone. Così come gli sfottò tra tifosi, in curva, al bar, sul web. Esiste un limite, un filo sottile che dovrebbe, teoricamente, dividere chi calca il rettangolo verde da chi lo riempie sugli spalti.
Lesempio. Fa parte di un’idea molto più ampia che si chiama Cultura (dello sport, in questo caso) e che viene, o dovrebbe, venirci insegnata sin da piccoli, quando un allenatore ci insegna come tirare calci a un pallone.
Si gioca, si lotta e si sputa sangue per vincere. Quando la gara finisce, il rispetto dell’avversario è sacro. Qualsiasi nome abbia impresso nel logo della sua maglietta. Saper perdere, come saper vincere, sono pilastri fondamentali di ogni disciplina.

In questi 30 giorni ho visto una squadra così unita e compatta sul campo quanto nauseante e irritante nei suoi atteggiamenti. Campioni del Mondo travestiti da bulli di quinta elementare. O forse il contrario, chissà. Una serie di episodi che condensano quella che Antonio Barillà su “La Stampa” ha chiamato “la mala educacion”. L’esatto opposto di chi dovrebbe, anche solo per un momento, ergersi a modello per tifosi, spettatori e centinaia di bambini che sognano di imitare la loro rabona, il tunnel, l’esultanza.
Credevo, anzi speravo, che gli episodi dei quarti di finale, tra pallonate alla panchina, battibecchi tra calciatori e ct, esultanza in faccia ai rivali, fossero solo il risultato di due ore di tanti calci e poco calcio. Mi sbagliavo. La summa, e non poteva essere altrimenti, di tutto ciò si è vista durante e dopo la partita di domenica. Tra gesti degni di un cinepanettone e ripetuti insulti al “bambino” (alias Kylian Mbappè), prima considerato “morto” poi vestito da bambola, abbiamo raggiunto la vetta.

Come dite? Chi è senza peccato scagli la prima pietra? Certo, nessuna novità.
La storia, anche recente, del pallone, è piena di momenti nei quali la tensione porta i nostri” ad oltrepassare il limite. I laziali non saranno stati felici del “vi ho purgato ancora” di Totti e i romanisti di certo non avranno sorriso a Paolo Di Canio che mostra loro la maglietta biancoceleste. Il gesto dei 4 gol sempre di Totti agli juventini, oppure le corna di Maresca ai granata. Tutto vero. Tutti episodi slegati da un contesto più esteso.
Nel caso recente, invece, si ha la sensazione di assistere a un qualcosa di profondo. Forse, insito dentro la cultura di una squadra. Non parliamo di una singola partita, quanto di una collana di momenti di arroganza bambinesca messi in scena sempre dagli stessi protagonisti. Que te pasa, Argentina? Davvero non trovi niente di meglio che goderti un momento atteso generazioni per scagliarti addosso ai rivali? Rivali che, con mille cerotti e un po’ di fortuna, sono arrivati a un rigore dal bloccare la coppa a Parigi.
Nessuno di noi chiedeva la replica dell’abbraccio tra il piccolo Perisic e Neymar. Di sentimentalismi e lacrime da film natalizi non se ne sente il bisogno, ma nemmeno che la partita più importante, che si gioca ogni quattro anni, si tramuti in una infantile celebrazione atta ad umiliare lo sconfitto.
Non credo che il Brasile del ‘70 si mise a fare melina, dopo averne inflitti quattro ai nostri. Mentre Low, ct tedesco, ribaltò, a quanto si disse, gli spogliatoi del “Mineirao” nell’intervallo della semifinale del 2014, per far capire ai suoi che non voleva vedere torelli o altre amenità.
E che dire della finale di Euro 2000, il dramma nel dramma per noi italiani? Le immagini raccontano gli azzurri a terra, distrutti e in lacrime, con qualche giocatore francese a rincuorarli.

Le prese in giro sono il sale del calcio. Noi tifosi le abbiamo fatte con gusto e ricevute con amarezza. Le subiremo e le rilanceremo, non appena avremo l’occasione. Noi possiamo, ma loro?
Davvero esiste il bisogno di tramutare una gioia immensa, unica, irripetibile in una continua e patetica presa per il c...? E per quale motivo? Rivalsa, ma verso chi? Non ditemi che anche i cugini transalpini erano di mezzo nella contesa tra Falkland e Malvinas.

Quando l’arbitro fischia, non mi interessa se siete felici che abbiamo vinto o arrabbiati che abbiamo perso. Andate a stringere la mano agli altri. Il rispetto viene prima di tutto”.
Questa frase l’ascoltai che nemmeno avevo dieci anni. Ancora conservo questo lezione. E, sono sicuro, con me altri migliaia di ragazzini.
Forse tra Baires e Rosario gli insegnamenti sono diversi. Meglio, molto meglio, umiliare il cadavere ancora caldo dei nemici, come Achille fece scempio di Ettore. Sublimazione del machismo latinoamericano. Segno della croce al Cielo e oltraggio all’antagonista. Preghiera a Nostro Signore e disprezzo del prossimo.
Piangi di gioia, Argentina, perchè chi vince merita sempre, ma ricordati... Prima di spirare, l’eroe troiano profetizza l’arrivo della Morte al suo carnefice.
Rileggersi Omero, di questi tempi, non sarebbe una brutta idea.