È trascorso un anno dalla cocente delusione per lo spareggio perso contro la Svezia che decretò l’esclusione dell’Italia ai Mondiali in Russia, un anno dopo a che punto è il nostro movimento?

La nostra Nazionale è stata eliminata per due volte di fila al primo turno dei Mondiali, ed a quello di quest’anno non è neanche riuscita a qualificarsi. I club da un bel pezzo hanno perso il vertice della classifica Uefa, che negli anni d’oro ha detenuto incontrastatamente per oltre venti anni, e in generale la serie A è diventato un campionato dal quale i migliori giocatori vanno via. L’Italia calcistica – così come quella non calcistica – è vittima della propria inoperosità ultra decennale, nei quali l’orizzonte è sempre stato limitato allo sfangare il bilancio di fine stagione. Se si domandasse il perché di questa crisi a chi si occupa di calcio – dirigenti, addetti ai lavori, tifosi, giornalisti – molto probabilmente si riceverebbe questa risposta: «Nel calcio italiano ci sono troppi stranieri». Da poco la Federcalcio è uscita da un lungo periodo di commissariamento, che ha lasciato scontenti tutti, generando caos e confusione in serie B e serie C, senza adottare nessuna riforma efficace in serie A; prima ancora l’ex Presidente, dimessosi in seguito alla fatal Svezia, avrebbe rimarcato il concetto colorandolo con un’espressione razzista sull’alimentazione a base di banane dei giocatori che vengono a lavorare in Italia; attualmente il nuovo numero uno, Gravina, ha dichiarato che il calcio in Italia va cambiato e rilanciato. Insomma, l’immagine che si ha del pallone nostrano è al quanto sgonfio e racchiude al meglio la crisi culturale, economica e soprattutto di ambizioni in cui versa il calcio italiano.

Perché le società decidono di acquistare calciatori stranieri, anziché investire sui giocatori italiani? Lo fanno per ragioni economiche, dato che gli stranieri costano meno, e per moda, dato che si comprano giocatori dal nome esotico perché colpiscono più l’immaginario del pubblico e dei dirigenti stessi. La saturazione del mercato da parte degli stranieri porta a una carenza di giocatori italiani e di conseguenza la Nazionale italiana fatica a imporsi a livello internazionale. La soluzione a questo problema potrebbe essere quella di mettere delle quote, dei limiti al numero di stranieri che ogni società può avere in rosa o schierare. La logica di questa soluzione però comporterebbe un allineamento verso il basso, e confermerebbe la tendenza alla mediocrità del calcio italiano.

Dal momento che i calciatori italiani faticano ad affermarsi per l’eccessiva competitività dei talenti stranieri, ci sono due strade: o si cerca di migliorare il livello dei calciatori italiani, oppure si cerca di limitare la competitività degli stranieri. La seconda soluzione, attuabile con l’introduzione delle quote, è sicuramente quella meno costosa e più efficace nel breve periodo, ma condanna il campionato italiano a un futuro in costante discesa rispetto a chi fa una scelta diversa. Infatti, l’alternativa è più lungimirante, ma richiede pianificazione e investimenti, e non può dare risultati immediati. Si dovrebbe investire sui vivai così come negli stadi e nelle strutture, inoltre sarebbe necessario un ripensamento dei rapporti delle società con i tifosi e con i media. Ci vorrebbero soluzioni radicali e diverse da quelle che difendono il proprio piccolo recinto (a oggi gli introiti televisivi) e che mantengono lo status quo (Juventus padrona incontrastata della seria A) e, in ultima analisi, bisognerebbe prenderle le decisioni, cosa che finora, visto la struttura del potere calcistico, è stato impossibile. Mi auguro che con Gravina le cose cambino, facendo quello che i suoi predecessori non sono stati capaci di fare.

Va intrapresa la strada che implichi un maggiore professionismo nel mondo del calcio, almeno a livello gestionale, ci vorrebbe più accountability. La logica delle società di preferire gli stranieri più talentuosi rispetto gli italiani è corretta e sensata. Anche perché quelli che sono bravi troveranno comunque una società che investa su di loro, non necessariamente in Italia. Mentre è totalmente sbagliata l’idea stessa che alcune società possano decidere di prendere e puntare su dei calciatori in base all’esoticità del nome. Tutto questo è veramente sconfortante. Si parla di investimenti e scelte dal cui esito possono dipendere milioni di euro. Non c’è alcuna società, in qualunque ambito, che potrebbe permettersi di competere nel mercato prendendo decisioni simili. È incredibile che ragionamenti come questi passino inosservati, dato che implicano che qualcuno non sappia fare il proprio mestiere: o i dirigenti accusati di riconoscere un bravo calciatore (quello che sono pagati per fare), oppure chi formula queste analisi, oppure entrambi.

Ma il calcio italiano è davvero in crisi? Sì, lo è, ma penso che qualcosa si stia muovendo. Purtroppo ora stiamo raccogliendo quello che (non) abbiamo seminato nel decennio scorso. Il declino è palese dagli altalenanti risultati della Nazionale. Era da 60 anni – l’ultima volta fu nel 1958 – che l’Italia non si qualificava ad un Mondiale, e nelle due edizioni precedenti non siamo andati meglio, poiché sempre eliminati al primo turno. Solo gli Europei di volta in volta ci hanno dato un barlume di speranza di crescita e risorgimento. Con Tavecchio abbiamo cercato di imitare il modello tedesco, che però dopo il Mondiale vinto è naufragato. Ieri, con la vittoria dell’Olanda sulla Francia, la Germania è matematicamente retrocessa nella serie B della Uefa Nations League. La verità è che manifestazioni così brevi e sporadiche sono troppo esposte a eventi casuali per essere una buona testimonianza del valore di un movimento calcistico. Tanto più che gli investimenti di lungo periodo si valutano a distanza di anni. Quindi abbiamo inseguito un modello sbagliato fino a questo momento? I risultati ci porterebbero a pensare di sì, poiché i giovani talenti italiani, una volta numerosi, adesso di contano sulle dita di una mano.

A livello di club è sufficiente prendere le principali competizioni europee per club (Champions League ed Europa League) per rendersi conto di come dal 2000 a oggi l’Italia abbia perso competitività. È impietoso il raffronto se paragonato al decennio precedente. Questo declino è diventato ancora più evidente nel 2011 quando la federazione italiana, già in calo da diversi anni, ha perso il proprio posto al vertice della classifica Uefa, quello che garantiva alle prime tre federazioni quattro squadre in Champions League e sette in totale nelle Coppe europee. L’Italia era fra le prime tre nazioni d’Europa dal 1985, con una continuità che nessuna federazione europea ha mai avuto. Eppure, nonostante, le previsioni fossero tra le più nefaste, dall’anno scorso siamo rientrati tra le prime tre, dietro all’imprendibile Spagna, ed ad un passo dall’Inghilterra. La Germania è staccata ma, in caso di peggiori o pari risultati dei tedeschi quest’anno, siamo a rischio sorpasso.

Abbiamo pagato a caro prezzo questo declassamento: non è soltanto una questione di prestigio, ma è ancor più una questione economica. La mancata partecipazione alle Coppe europee, alla Champions League in particolare, ha levato una fondamentale fonte di introito a diverse società (Milan ed Inter su tutte). La minore disponibilità economica delle società italiane si è ben presto trasformata in povertà tecnica, dato che le squadre non sono state più capaci di trattenere i migliori talenti al mondo, attratti dai maggiori stipendi e dalle maggiori possibilità di vincere trofei importanti offerti all’estero. Così il campionato italiano, una volta il più importante, è diventando a tutti gli effetti un torneo cadetto rispetto al campionato inglese e, in misura diversa, a quello spagnolo, tedesco e francese. Un tempo i migliori giocatori che si affermavano nei campionati stranieri si guadagnavano la chiamata di una squadra italiana, ma non necessariamente in una di prima fascia. Soventemente capitava che i giocatori venissero prima «testati» in squadre meno blasonate, poiché anche i fuoriclasse faticavano ad imporsi nel campionato più difficile del mondo. Adesso invece la questione si è ribaltata, i migliori giocatori del campionato italiano vanno all’estero, dove, misurandosi con un campionato più competitivo, non confermano quanto fatto in serie A. Al contrario, giocatori che faticano a trovare un posto da titolare all’estero arrivano in Italia e si dimostrano immediatamente fondamentali.

Comunque il problema del calcio italiano non è solamente economico. La diminuzione di denaro è certamente causa del declino del livello tecnico ma ne è anche l’effetto. Perché la questione non è soltanto la quantità di soldi disponibili ma come questi vengono spesi e al tempo stesso quanti il campionato italiano sia in grado di attrarne. Sembrava che le norme sul Fair Play Finanziario introdotte dall’Uefa potessero in qualche modo aiutare maggiormente l’Italia, ma ciò non si è rivelato né possibile né vero sotto diversi punti di vista. Da un lato l’aggiramento di tali norme, per i club ricchi e potenti, ha reso le misure inefficaci, anzi forse ha finito per disequilibrare il sistema. Dall’altro, la virtuosità dei conti delle società calcistiche italiane è risultato più difficile del previsto data l’enorme difficoltà a produrre ricavi del nostro sistema. Avvantaggiare le società autosufficienti significa automaticamente danneggiare quelle che non sono in grado di stare sul mercato, come è il caso di molte squadre italiane.

Come detto, la serie A è diventata sostanzialmente un mercato di esportazione, dove giocatori stranieri vengono in cerca di affermazione o a fine carriera. Queste cessioni non sono soltanto un problema tecnico ma di sostenibilità economica: quello che l’Italia ha fatto negli ultimi anni è stato vendere la propria gioielleria per tenere i conti in regola. Diritti tv e plusvalenze sono tra le voci principali dei club nostrani (compresa la Juventus), facendoli sopravvivere. Con questi limiti e vincoli, anche le scelte sistemiche diventano difficili poiché ognuno protende a salvaguardare i propri interessi. La questione delle seconde squadre, fondamentale per la crescita di giovani italiani, alla fine è stata un grosso flop; la questione delle multiproprietà è ancora insoluta; la riduzione dei campionati professionistici è stata imposta d’autorità scatenando solamente una lotta intestina tra club. Finora ogni scelta e decisione è stata soppesata in base agli interessi e schieramenti dei vari attori, senza una logica che producesse valore per il movimento calcistico. È inoltre inevitabile che nel lungo termine il calo del livello tecnico e del prestigio del campionato italiano incida sul valore dei diritti tv che, ovviamente, valgono di più quanto più le partite interessate sono considerate significative. Quanto può interessare un campionato dove la Juventus vince da 7 anni consecutivi, e dove già dall’inizio si conosce la squadra vincitrice, cioè sempre la Juventus. Io penso poco.

Nonostante tutto sembri nero, c’è qualche piccolo segnale di schiarita: l’ingaggio di Ronaldo potrebbe portare maggiore interesse intorno al campionato italiano; gli spettatori affollano maggiormente gli spalti rispetto gli ultimi anni. Pure i quattro posti garantiti in Champions all’Italia sono un buon aiuto ed incentivo a riprendersi. Si deve però ancora migliorare in ambito commerciale, come sponsorizzazioni e merchandising, in ambito strutturale, con stadi vecchi ed obsoleti, e soprattutto si dovrebbe sensibilizzare e educare il pubblico. Episodi di razzismo e di violenza attanagliano ancora le nostre società. È solo l’ultimo dei tanti episodi quello di Riccardo Bernardini, l’arbitro di Roma, picchiato al termine di un incontro di Prima categoria.

L’assenza di stadi di proprietà è un problema rilevante per le squadre. Qui giocano un ruolo chiave anche le amministrazioni locali che, molto spesso, sono restie a spendere – i pochi – quattrini pubblici per effettuare i necessari ammodernamenti a strutture ormai obsolete e fatiscenti – ne è un chiaro esempio lo Stadio San Paolo di Napoli – e chiedono alle società affittuarie degli impianti di contribuire. Tuttavia queste ultime si rifiutano di investire in strutture non di proprietà. Poche le eccezioni, anche per via delle insormontabili beghe burocratiche e problematiche che il più delle volte sono gli stessi comuni a porre ai progetti di nuovi impianti, per evitare di perdere il canone d'affitto e vedere abbandonato lo stadio comunale. A oggi le uniche squadre ad avere avuto successo in questa operazione, seppure con accordi di diversa natura, sono Juventus, Udinese e Sassuolo, Atalanta, cui salvo imprevisti si aggiungerà la Roma.

La questione, quella della violenza negli stadi, è in parte legata all’impiantistica carente sia per ragioni tecniche, visto che le strutture italiane non sono in grado di garantire gli standard di sicurezza degli stadi europei, sia per ragioni storiche, perché non bisogna dimenticare che, per fortuna, l’Italia non ha mai avuto sul proprio territorio una strage legata al calcio come quella di Hillsborough. Negli anni, i morti in Italia sono stati molti (Spagnolo, Raciti, Esposito, ma ce ne sono tanti altri, specie nelle serie minori), ma probabilmente la discontinuità di questi eventi abbia contribuito alla percezione di ciascuna di queste disgrazie come inevitabili e cicliche fatalità. Anche il fatto che in molte occasioni si sia trattato di vicende esterne agli impianti ha dato la possibilità di derubricare questi episodi, che sono invece strettamente legati al tifo calcistico, come fatti di cronaca.

Sono molte le considerazioni da fare relative all'inefficacia delle misure adottate dalle società calcistiche e dalla politica italiana. In primis bisogna sottolineare che molti club sono conniventi con i gruppi del tifo organizzato, alimentando così il fenomeno del bagarinaggio, e a volte gli stessi ultras sono stati usati addirittura come strumento di pressione e di minaccia per l’ordine pubblico per scongiurare evenienze sfavorevoli (come fallimenti, retrocessioni o penalizzazioni). A ciò si aggiunga il lassismo delle autorità che hanno permesso a questi gruppi di guadagnare potere in nome di simili ragioni di ordine pubblico. Il tutto ha contribuito a incentivare tali comportamenti, mostrando una visione limitata al prevenire i problemi dell’oggi senza curarsi di quelli del domani. Bisognerebbe senza dubbio trovare le giuste soluzioni affinché lo stadio diventi un luogo dove andare la domenica con la famiglia. Anche dal punto di vista commerciale l’assenza degli stadi di proprietà è una limitazione sostanziale. Infatti le strutture più moderne sono concepite come cittadelle dello sport, che contribuiscono agli introiti della squadra con ristoranti, negozi e tutto ciò che gira attorno al marchio della squadra, generando importanti ricavi.

Il problema del calcio italiano è quindi principalmente economico. Si può dire che l’epoca dei mecenati è finito, e con essa la spesa di enormi somme a fondo perduto da parte di proprietari facoltosi. Bisognerebbe, quindi, soprattutto da parte della classe dirigente (forse antiquata ed abituata ad un mondo che non c’è più) garantire un equilibrio virtuoso fra entrate e uscite. Diventa però fondamentale la capacità di generare denaro delle società, al di là delle plusvalenze e dei diritti tv, e soprattutto di spenderli con lungimiranza.

Per risolvere i suoi problemi, il calcio italiano dovrebbe concentrarsi su investimenti di lungo periodo ed attuando le riforme utili per migliorare collettivamente il sistema calcio. Per creare sufficiente valore per competere con gli altri club europei è decisiva la formazione di giovani dei vivai, ma altrettanto importante è rifondare gli impianti sportivi attraverso la proprietà degli stadi o accordi simili con le amministrazioni locali. Per quanto riguarda la crescita dei giovani va riconosciuto che imporre un limite agli stranieri – comunque difficili da implementare in un quadro europeo – è solamente un palliativo. La società che ha il settore giovanile più prolifico d’Europa, quella con più giocatori cresciuti nel proprio vivaio che ora giocano nelle prime divisioni dei maggiori campionati, è l’Ajax, che milita in un campionato senza alcun limite al numero di stranieri che si possono schierare, né comunitari, né extracomunitari. Non c’è un limite per gli extracomunitari neanche in Germania, che è diventata campione del mondo con una squadra molto giovane, frutto di un’operazione di lunga gittata cominciata proprio all’indomani del disastroso Europeo del 2000, aumentando considerevolmente gli investimenti delle squadre tedesche nelle giovanili.

Non è sbagliato, pertanto, cercare di copiare i sistemi che funzionano, ma bisogna farlo con coerenza: prendere come modello il calcio inglese vuol dire essere più orientati al mondo, ad un'immagine internazionale della squadra; prendere come modello quello tedesco vuol dire essere più orientati al locale, al rapporto con la propria comunità di riferimento. Ogni soluzione, però, ha un suo costo e delle conseguenze specifiche. Il modello inglese, per esempio, ha come ripercussione l’allontanamento del legame fra squadra e territorio. Per avvicinarsi veramente al modello tedesco è invece necessario che la federazione abbia un maggiore potere di controllo e gestione dei conti delle società, ed è perciò fondamentale avere un sistema di governance estremamente trasparente.

In definitiva, appare evidente che per riportare il calcio italiano agli splendori di un tempo – neanche troppo lontano – serve percorrere con convinzione queste strade. E senza l'aiuto del Governo non si va da nessuna parte. Certo non è un obbligo costituzionale che il calcio italiano debba essere stabilmente fra i più importanti al mondo e anzi, a volte, si ha l'impressione che ci sia qualcuno che se ne rallegri e trovi il modo di approfittarsi di questo declino. Però non va dimenticato che stiamo parlando di un volume d'affari di miliardi che fa del calcio una dei più importanti e fiorenti settori economici del Paese, senza dimenticare poi il suo ruolo sociale, una valenza che ahimè va scemando sempre più. Che il nostro calcio funzioni come settore è interesse di tutti. Arrendersi e non sfruttare a pieno un campo con enormi potenzialità sarebbe semplicemente l’ennesima occasione persa.